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Sabato 30 ottobre


Nikki aveva sofferto per tutta la notte di crampi addominali e attacchi di diarrea, ma la mattina stava meglio. Non era completamente in forma, ma era evidente che stava migliorando e la febbre era del tutto assente. David era sollevato, vedendo che il decorso era simile al suo e a quello delle cinque infermiere.

Angela si svegliò depressa per la sua situazione lavorativa e si stupì nel vedere che il marito era così su di giri. Adesso che Nikki stava bene, lui le confessò le paure avute la sera prima.

«Avresti dovuto dirmelo», lo rimproverò lei.

«Non sarebbe servito a niente.»

«Certe volte mi fai così arrabbiare!» Anziché dare inizio a una delle solite liti, Angela corse verso di lui e lo abbracciò, sussurrandogli quanto lo amava.

L’abbraccio fu interrotto dallo squillo del telefono. Era il dottor Pilsner, che voleva sapere come stava Nikki e consigliava di continuare con gli antibiotici e con la terapia respiratoria.

«Lo faremo sicuramente», rispose Angela, che aveva staccato il ricevitore in camera da letto, mentre David ascoltava da quello del bagno.

«Le spiegheremo molto presto perché l’abbiamo portata via in quel modo», aggiunse David. «Ma per ora la preghiamo di accettare le nostre scuse. Il nostro gesto non ha niente a che fare con l’assistenza che lei le ha prodigato.»

«La mia unica preoccupazione è per Nikki», replicò il pediatra.

«Saremo felici, se passerà a trovarla», disse Angela. «E se ritiene necessario il ricovero, la porteremo a Boston,»

«Per ora tenetemi informati», concluse seccamente il dottor Pilsner.

«È irritato», commentò David dopo avere riattaccato.

«Non posso dargli torto. La gente penserà che siamo completamente matti.»

Tutti e due seguirono Nikki nei suoi esercizi respiratori, dandosi il cambio nell’aiutarla a mantenere le posizioni necessarie. «Lunedì potrò tornare a scuola?» chiese lei, quando ebbe finito.

«È possibile», le rispose Angela, «ma non voglio che ci conti troppo.»

«Non voglio rimanere tanto indietro. Caroline potrebbe venire a portarmi i libri?»

Angela e David si guardarono e comunicarono senza parlare. Entrambi capivano che non potevano continuare a ingannare Nikki.

«C’è una cosa che ti dobbiamo dire riguardo a Caroline», cominciò Angela. «Ci spiace terribilmente, ma non è più con noi.»

«Vuoi dire che è morta?»

«Sì.»

«Oh!» fu tutto quello che Nikki riuscì a dire.

Angela guardò il marito, che però non sapeva che cosa aggiungere. David aveva capito che l’apparente indifferenza di Nikki era solo una facciata, com’era successo per la morte di Marjorie. Si sentì stringere la gola dalla rabbia al pensiero che probabilmente tutte e due quelle morti, erano dovute alla stessa mano assassina.

Questa volta le difese di Nikki si sgretolarono più rapidamente e i suoi genitori fecero il possibile per consolarla. Entrambi sapevano che per lei era un colpo tremendo, non solo per l’amicizia che la legava a Caroline, ma anche perché soffriva della stessa malattia.

«Morirò anch’io?» domandò infatti la bimba.

«No», le rispose Angela, «tu stai benone. Caroline ha avuto la febbre alta, tu invece non ne hai per niente.»

Dopo che i timori di Nikki furono placati, David partì per l’ospedale, dove si diresse subito all’archivio. Trovò i numeri di sicurezza sociale e le date di nascita delle venticinque persone individuate da lui e da Calhoun e cominciò a richiedere i referti medici per ognuna di esse, quando si sentì toccare la spalla. Si voltò e vide Helen Beaton. Dietro di lei stava Joe Forbs, della sorveglianza.

«Le dispiacerebbe dirmi che cosa sta facendo?» gli chiese Helen Beaton.

«Sto soltanto usando il computer», balbettò David. Non si aspettava d’imbattersi in qualcuno dell’amministrazione, dato che era sabato.

«A quanto ne so, lei non è più un dipendente del CMV», ribatté la donna, glaciale.

«Sì, ma…»

«Poteva utilizzare le attrezzature dell’ospedale in quanto dipendente del CMV. Ora non è più così.» Helen Beaton si rivolse a Joe Forbs: «Vuole accompagnare per favore il dottor Wilson fuori dall’ospedale?»

L’agente si avvicinò a David e gli fece cenno di alzarsi. Lui, sapendo che era inutile protestare, raccolse i suoi fogli pregando che Helen Beaton non glieli strappasse di mano. Per fortuna, questo non accadde e fu soltanto accompagnato alla porta.

Imperterrito, aspettò che Forbs si fosse allontanato per rientrare in ospedale e dirigersi verso il reparto di radioterapia, dove, dopo avere aspettato mezz’ora, poté incontrare il dottor Holster.

Il suo collega aveva circa dieci anni più di lui, ma sembrava più vecchio, forse a causa dei capelli quasi completamente bianchi. Nonostante avesse molto da fare, fu molto cordiale e gli offrì una tazza di caffè.

«Mi dica, che cosa posso fare per lei, dottor Wilson?»

«Volevo farle qualche domanda a proposito del dottor Hodges.»

«Che strana richiesta. E come mai le interessa proprio il dottor Hodges?»

«È una storia lunga, ma, per farla breve, ho avuto alcuni pazienti il cui decorso ospedaliero assomigliava a quello di alcuni ex pazienti del dottor Hodges. Alcuni di questi sono stati curati da lei.»

«Mi chieda pure.»

«Prima vorrei assicurarmi che questa nostra conversazione rimanga fra noi.»

«Sta pungolando sempre di più la mia curiosità», osservò il dottor Holster, che poi annuì. «Sarà confidenziale.»

«Ho saputo che il dottor Hodges le ha fatto visita il giorno in cui è scomparso.»

«Per essere precisi, ci siamo visti a colazione.»

«So che lui voleva parlarle di un paziente di nome Clark Davenport.»

«Esatto e abbiamo parlato a lungo del caso. Purtroppo, il signor Davenport era appena morto. Lo avevo curato per un cancro alla prostata, credendo di avere sconfitto il male, e il dottor Hodges e io siamo rimasti entrambi sorpresi e rattristati dalla sua dipartita.»

«Il dottor Hodges le ha detto esattamente di che cosa è morto il signor Davenport?»

«Non che mi ricordi. Allora pensai che fosse a causa della ricomparsa del cancro alla prostata. Perché me lo chiede?»

«Il signor Davenport è morto a causa di uno choc settico derivante da una serie di attacchi epilettici. Non penso che questo c’entri con il suo cancro.»

«Non so se si possa escludere del tutto», obiettò Holster. «Magari aveva delle metastasi al cervello.»

«La risonanza magnetica nucleare era normale. Naturalmente, non c’è stata autopsia, per cui non possiamo essere sicuri di niente.»

«Forse c’erano tanti tumori multipli, troppo piccoli per essere rilevati dalla risonanza magnetica nucleare.»

«Il dottor Hodges non le disse che c’era qualcosa di strano nel decorso ospedaliero di quel paziente?»

«Solo la sua morte.»

«Non saltò fuori nient’altro durante la colazione?» chiese ancora David.

«Non che mi ricordi. Mentre finivamo di mangiare, gli ho chiesto se voleva venire con me al centro di radioterapia per vedere la nuova macchina che avevamo ricevuto.»

«Che macchina è?»

«Il nostro acceleratore lineare», rispose Holster, sorridendo come un genitore fiero dell’ultimo nato. «È una cannonata. Hodges non l’aveva ancora vista e così è venuto e gliel’ho mostrata. Ma venga, la faccio vedere anche a lei.»

David non era in vena di fare giri turistici in radioterapia, ma per non essere scortese seguì il dottor Holster, che lo portò davanti a una macchina in acciaio inossidabile e gli disse orgoglioso: «Eccola qua», mentre intanto le dava una pacca affettuosa. Assomigliava a un apparecchio a raggi X, con un tavolo attaccato. «Se non fosse stato per l’impegno del dottor Hodges, l’ospedale non avrebbe mai avuto questa bellezza. Staremmo ancora usando quell’altra.»

«Che cos’aveva l’altra, che non andava?» chiese David, osservando quel gioiello della tecnica.

«Niente, ma ormai era superata. Era una macchina per la cobaltoterapia. Un apparecchio di quel tipo non è preciso come un acceleratore lineare. È una questione fisica che ha a che fare con il diametro della sorgente di cobalto, che è di circa dieci centimetri. Come risultato, i raggi gamma escono in ogni direzione e sono difficili da collimare.»

«Capisco», mormorò David, che invece non era sicuro di capire. La fisica non era mai stata il suo forte.

«Invece l’acceleratore lineare è tutta un’altra cosa», continuò Holster. «Ha un’apertura molto piccola dalla quale hanno origine i raggi e può essere programmata per avere un’energia superiore. Inoltre, la macchina al cobalto richiede che la fonte di energia sia cambiata ogni cinque anni o giù di lì, dato che il tempo di dimezzamento del cobalto-60 è di circa sei anni.»

David lottò per reprimere uno sbadiglio. L’incontro con il collega gli ricordava il periodo dell’università.

«La macchina al cobalto l’abbiamo ancora», proseguì imperterrito il dottor Holster. «È giù in cantina. Sta per essere venduta al Paraguay o all’Uruguay, a uno dei due. È quello che succede spesso quando i nostri ospedali rinnovano le attrezzature: quelle vecchie le vendono a un Paese in via di sviluppo. Vede, una macchina al cobalto, anche se vecchia, funziona bene e ha il vantaggio di guastarsi difficilmente, dato che la sorgente emette in continuazione raggi gamma, ventiquattrore al giorno, che piova o che ci sia il sole.»

«Bene, penso di averle già rubato fin troppo del suo tempo», cercò di tagliare corto David.

«Il dottor Hodges aveva mostrato molto interesse, quando gli ho fatto fare questo giro.» Il suo interlocutore non pareva avere fretta. «Quando gli ho detto che le vecchie macchine hanno quel vantaggio, rispetto alle nuove, il viso gli si è illuminato e ha persino voluto vedere la macchina vecchia. E lei? Vuole che scendiamo a vederla?»

«No, non importa.» David si chiese come avrebbero reagito Helen Beaton o Joe Forbs, se lo avessero visto circolare per l’ospedale, quindi ringraziò il dottor Holster e andò a riprendere la bici.

Mentre pedalava verso casa, si sentiva piuttosto frustrato per come era andata la mattinata. Aveva le date di nascita e i numeri della sicurezza sociale delle persone con i tatuaggi, ma la speranza che Hodges avesse confidato al radioterapista i suoi sospetti era andata delusa. Si domandò se il fatto che Hodges si fosse illuminato nell’udire le virtù della vecchia macchina al cobalto fosse una realtà o un’illusione del dottor Holster, che forse proiettava il proprio entusiasmo sul pubblico che gli capitava a tiro.


Calhoun dormì fino a tardi e arrivò a Bartlet a metà mattinata, deciso a iniziare gli incontri con i dipendenti dell’ospedale che avevano i tatuaggi. In un bar in Main Street consultò l’elenco telefonico e copiò i cinque indirizzi, dopo di che, avendo deciso di seguire l’ordine alfabetico, arrivò fino alla casa di Clyde Devonshire, che abitava sopra una drogheria.

Dopo avere suonato tre volte il campanello senza ottenere risposta, scese in negozio e chiese se l’avessero visto. Intanto ne approfittò per comprarsi una scatola di sigari.

«È uscito presto», gli rispose il commesso. «Forse è al lavoro. Fa l’infermiere in ospedale.»

«Di solito quando rientra?»

«Verso le tre e mezzo o le quattro, a meno che non faccia il turno serale.»

Calhoun riprovò a suonare, poi girò la maniglia e vide che la porta non era stata chiusa a chiave.

«C’è nessuno?» disse forte.

Uno dei vantaggi di non appartenere più alla polizia era di non doversi preoccupare di mandati di perquisizione e altre amenità simili. Così, entrò e richiuse la porta dietro di sé.

Sul tavolino del soggiorno scoprì subito una serie di ritagli di giornale che parlavano del dottor Kevorkian, il noto medico che aiutava i pazienti a suicidarsi, più altri articoli sul suicidio assistito.

Calhoun pensò che si trattava di un argomento che aveva una certa attinenza con l’eutanasia e che a David sarebbe piaciuto fare quattro chiacchiere con Clyde Devonshire.

In camera da letto, ordinata come il soggiorno, andò direttamente alla scrivania, cercando in particolare delle fotografie, ma non ne trovò. Aprendo l’armadio, invece, scoprì tutto un armamentario sado-maso, che comprendeva articoli di cuoio nero con borchie di metallo e catene. Su un ripiano erano allineate riviste e videocassette dello stesso genere.

Calhoun si chiese sogghignando che cosa avrebbe rivelato la ricerca al computer e continuò a girare per l’appartamento, sperando di trovare qualche foto in cui Clyde fosse ritratto con i suoi tatuaggi in mostra, ma non ne trovò.

Stava per ritornare nel soggiorno, quando udì sbattere il portoncino al piano terreno e poi dei passi che salivano le scale. In una frazione di secondo, si chiese se valeva la pena tentare la fuga, ma poi decise di rimanere e si mise davanti alla porta d’ingresso, che aprì nel momento in cui il legittimo inquilino vi arrivò davanti.

«Clyde Devonshire?» domandò seccamente.

«Sì…» rispose Clyde, spaventato. «Che diavolo sta succedendo?»

Calhoun si presentò e gli porse il proprio biglietto da visita, aggiungendo: «La stavo aspettando. Entri».

«È un investigatore?» chiese Clyde prendendo il biglietto.

«Sì. Ero un poliziotto di Stato, ma poi il governatore ha deciso che ero troppo vecchio e così mi sono messo a fare l’investigatore. Mi sono seduto qui ad aspettarla per farle qualche domanda.»

«Be’, mi ha spaventato a morte», ammise Clyde, mettendosi una mano sul petto e lasciando andare un sospiro di sollievo. «Non sono abituato a tornare a casa e trovare qualcuno nel mio appartamento.»

«Mi spiace. Forse avrei fatto meglio ad aspettare sulle scale.»

«Non sarebbe stato comodo. Si sieda. Posso offrirle qualcosa?» Clyde Devonshire posò sul divano il pacchetto che aveva in mano e andò in cucina. «Ho del caffè, oppure…»

«Ce l’ha una birra?»

«Certo.»

Mentre il padrone di casa era in cucina, Phil Calhoun diede un’occhiata al sacchetto gettato sul divano: conteneva alcune videocassette simili a quelle trovate nell’armadio.

Clyde tornò in soggiorno con due birre e si accorse che il sacchetto era stato aperto. Lo prese, dicendo: «Per divertirsi un po’», e ne chiuse accuratamente la sommità.

«Ho notato», commentò Calhoun.

«Lei è etero?»

«A dire il vero, ormai non sono quasi più niente.» Calhoun osservò bene il suo interlocutore. Aveva circa trent’anni, era di media altezza, ben piazzato, con i capelli castano chiari.

«Che genere di domande mi voleva fare?» chiese Clyde.

«Conosceva il dottor Hodges?»

L’uomo gli rispose con una breve risata sarcastica. «Perché mai dovrebbe indagare su quell’essere detestabile che ormai fa parte di una storia passata?»

«A quanto pare, non ne ha una grande opinione.»

«Era un miserabile bastardo, che aveva un concetto antiquato del ruolo degli infermieri. Pensava che fossimo forme di vita inferiori, destinate a svolgere il lavoro sporco e a non mettere mai in discussione gli ordini dei medici.»

«Lei sa chi lo ha ucciso?»

«Non sono stato io, se è questo che pensa. Ma, se lo scopre, me lo faccia sapere, perché mi piacerebbe offrirgli una birra.»

«Lei ha un tatuaggio?» domandò ancora Calhoun.

«Certo, ne ho parecchi.»

«Dove?»

«Vuole vederli?» Alla risposta affermativa, Clyde si tolse la camicia e assunse diverse posizioni da culturista, poi rise. Aveva un tatuaggio a forma di catena intorno ai polsi, un drago sul braccio destro e un paio di spade incrociate sopra i capezzoli.

«Le due spade me le sono fatte fare nel New Hampshire, quando ero ancora a scuola, gli altri a San Diego.»

«Mi mostri meglio quelli sui polsi.»

«Eh, no», rispose Clyde, rimettendosi la camicia. «Se le faccio vedere tutto la prima volta, poi non ritorna più.»

«Lei scia?» cambiò argomento Calhoun.

«Di tanto in tanto. Certo che le sue domande sono a largo spettro.»

«Ha degli occhiali da sci a maschera?»

«Chiunque scii nel New England li ha, a meno che non sia un masochista.»

Calhoun si alzò. «Grazie per la birra, devo andare.»

«Che peccato, stavo cominciando a divertirmi», ridacchiò Clyde.

Calhoun se ne andò volentieri. Quel tipo era decisamente insolito, piuttosto stravagante. Poteva avere ucciso Hodges? Chissà perché, lui pensava di no. Però i tatuaggi sui polsi lo preoccupavano, non avendo potuto esaminarli da vicino. E l’interesse per Kevorkian era soltanto pura curiosità? Per il momento, rimaneva un sospetto, in attesa di ulteriori accertamenti con il computer.

Provò a passare da Joe Forbes, ma trovò soltanto una donna che gli parlò attraverso lo spiraglio della porta e che non volle nemmeno dire a che ora Joe sarebbe ritornato a casa. Poi arrivò davanti alla villetta di Claudette Maurice, per scoprire da una vicina che era in ferie alle Hawaii.

Ritornato sul suo furgoncino, verificò quel era il nome seguente sulla lista: Werner Van Slyke. Anche se aveva già parlato con lui, decise di fargli una seconda visita, dato che la prima volta non sapeva ancora del tatuaggio.

Van Slyke abitava in una stradina tranquilla, dove le case avevano tutte un giardino o un prato davanti. Cosa sorprendente per il capo dell’ufficio tecnico di un grande ospedale, la sua era in uno stato a dir poco pietoso, con l’intonaco che si staccava dal muro e le imposte che pendevano a sghimbescio dai cardini.

Non c’era alcun segno di vita e nel vialetto non c’erano auto. Calhoun si accese un sigaro e attraversò la strada. Premette il campanello, ma non ne uscì alcun suono, allora provò a bussare, senza ottenere risposta.

Girò intorno alla casa, cercando di guardare dentro alle finestre, ma erano così sporche che non riuscì a vedere nulla. Arrivato sul retro, notò due portelloni di legno, tipo boccaporto, chiusi da catenacci. Sicuramente coprivano le scale che scendevano in cantina.

Tornato davanti alla porta d’ingresso, si guardò bene intorno per assicurarsi che nessuno lo vedesse, e provò ad aprirla. Non era chiusa a chiave.

Per essere assolutamente sicuro che in casa non ci fosse nessuno, Calhoun bussò di nuovo più forte che poté, aspettò qualche istante, poi mise di nuovo la mano sulla maniglia. Con sua grande sorpresa, la porta si aprì da sola.

«Che cosa diavolo vuole?» chiese sospettoso Van Slyke, comparso come un fantasma sulla soglia.

«Mi spiace disturbarla», disse Calhoun, dopo avere tolto il sigaro di bocca. «Ero da queste parti e ho pensato di passare da lei. Si ricorda, le avevo detto che sarei ritornato. Ho qualche altra domanda da farle. Che cosa ne dice? È un momento poco opportuno?»

«No, può andare bene. Ma ho poco tempo.»

«Non rimango mai più del tempo che mi viene spontaneamente concesso.»


Helen Beaton dovette bussare diverse volte alla porta d’ingresso dello studio di Traynor, prima di sentire i passi che si avvicinavano.

«Sono sorpresa di trovarti ancora qui», gli disse quando finalmente lui le aprì.

«Dedico talmente tanto tempo alle questioni che riguardano l’ospedale che mi tocca venire qui la sera e durante i weekend, per mandare avanti il mio lavoro», spiegò Traynor, conducendola nel proprio ufficio.

«Ho fatto fatica a trovarti.»

«Come ci sei riuscita?»

«Ho telefonato a casa tua e ho chiesto a tua moglie.»

«È stata gentile?»

«Non particolarmente», ammise Helen.

Traynor si sedette alla propria scrivania, ingombra di carte. «Non mi sorprende», commentò.

«Ti devo parlare della giovane coppia che abbiamo assunto la primavera scorsa. Si sono rivelati un disastro e sono stati licenziati tutti e due ieri. Il marito dipendeva dal CMV e lei lavorava nel nostro reparto di patologia.»

«Me la ricordo. Wadley le stava intorno come un cane in calore, al picnic del Labour Day.»

«Questo è parte del problema. Wadley l’ha licenziata e lei lo ha accusato di molestie sessuali, minacciando di fare causa all’ospedale. Ha detto che era andata a notificare la cosa a Cantor, prima di essere licenziata, e lui lo ha confermato.»

«Wadley aveva un motivo per licenziarla?»

«Secondo lui, sì. Dice che ha ripetutamente lasciato la città durante l’orario di lavoro, persino dopo che lui l’aveva espressamente avvertita di non farlo.»

«Allora non dobbiamo preoccuparci», fu il parere di Traynor. «Se lui ha avuto ragione a licenziarla, siamo a posto. Li conosco i giudici che si occuperanno del caso. Finiranno con il darle una lezione.»

«Comunque io non sono tranquilla», borbottò Helen. «E il marito, il dottor David Wilson, ha in mente qualcosa. Proprio stamattina l’ho mandato via dagli archivi. Ieri era entrato nei programmi dell’ospedale, cercando i dati sui tassi di mortalità.»

«Perché diavolo lo avrà fatto?»

«Non ne ho idea.»

«Ma tu mi hai detto che i nostri tassi di mortalità vanno bene, per cui non c’è da preoccuparsi.»

«Sono informazioni riservate», obiettò lei. «Il pubblico non sa come interpretarli e potrebbero rivelarsi un disastro per le nostre relazioni pubbliche. Proprio una cosa che non ci possiamo permettere.»

«Sì, sono d’accordo con te. Allora teniamolo alla larga dagli archivi. Non dovrebbe essere difficile, visto che non fa più parte del CMV. Ma perché lo hanno licenziato?»

«Era continuamente al livello più basso di produttività e a quello più alto nell’utilizzazione delle risorse, in particolare per quello che riguarda i ricoveri.»

«È certo che non sentiremo la sua mancanza», commentò Traynor. «Avrei voglia di mandare a Kelley una bottiglia di scotch per il favore che ci ha fatto.»

«Quei due mi preoccupano», continuò Helen. «Ieri pomeriggio sono piombati in ospedale e si sono ripresi la figlia, quella che ha la fibrosi cistica. L’anno portata via contro il parere del pediatra che la seguiva.»

«Che cosa strana! E come sta la bambina? Questa è la cosa più importante.»

«Sta bene, l’ho chiesto al pediatra.»

«Allora perché preoccuparci?»


Armata dell’elenco con i numeri della sicurezza sociale e le date di nascita dei sospetti, Angela partì per Boston per incontrare Robert Scali. Gli aveva telefonato quella mattina e, senza entrare troppo nei dettagli, gli aveva detto che aveva bisogno di vederlo.

Lo incontrò in uno dei numerosi ristorantini indiani della Central Square, a Cambridge. Si salutarono con un bacio sulle guance, poi lei spiegò subito che cosa le occorreva, porgendogli l’elenco.

«Così, vorresti un controllo al computer di queste persone?» disse lui. Poi si chinò sulla tavola e aggiunse: «Speravo che avessi motivi più personali per telefonarmi così all’improvviso. Pensavo che avessi voglia di vedermi».

Angela si sentì subito a disagio. Le altre volte che si erano rivisti, Robert non le aveva mai fatto intuire di volere riaccendere la loro vecchia fiamma.

Decise di essere molto franca: gli assicurò di essere felicemente sposata e di avere bisogno di lui soltanto per l’aiuto che le poteva dare al computer.

Se Robert si demoralizzò, non lo diede a vedere. Allungò una mano attraverso il tavolino e le strinse affettuosamente la sua, dicendo: «Mi fa piacere vederti, non importa quale sia il motivo che ti spinge qui e sarò felice di aiutarti. Che cosa vuoi, di preciso?»

Angela gli spiegò che le era avevano parlato della facilità con cui si possono ricavare informazioni sulle persone, avendo a disposizione soltanto la loro data di nascita e il numero della sicurezza sociale.

Robert rise nel modo profondo e rauco che lei ricordava bene. «Non hai idea di quanto sia vero», confermò. «Potrei scoprire tutte le volte che Bill Clinton ha usato la sua carta Visa e per fare che cosa, se soltanto lo volessi.»

«Io vorrei scoprire il più possibile riguardo queste persone», disse Angela, battendo l’indice sulla lista.

«Non potresti essere più chiara?»

«Non so, voglio sapere tutto quello che si può. Un mio amico mi ha detto che è come andare a pesca.»

«Chi è questo amico?»

«Be’, non è proprio un amico, ma ormai è come se lo fosse. Si chiama Phil Calhoun e fa l’investigatore privato. David e io l’abbiamo ingaggiato.»

A quel punto Angela fece a Robert un riassunto degli avvenimenti che l’avevano portata a intraprendere la ricerca per cui chiedeva il suo aiuto. Partì dalla scoperta del cadavere di Hodges e finì con il sospetto di uno squilibrato che praticava l’eutanasia sui pazienti dell’ospedale.

«Mio Dio!» esclamò Robert. «Mi stai rovinando l’immagine idilliaca che avevo della tranquilla vita di una cittadina di provincia.»

«È un incubo», ammise lei.

Robert prese in mano l’elenco. «Venticinque nomi faranno venire fuori un sacco di dati, spero che tu sia preparata. Sei venuta con un camion?»

«Ci interessano in modo particolare questi cinque», spiegò lei, indicando i dipendenti dell’ospedale.

«Sarà un divertimento. Le informazioni più rapide da ottenere sono quelle finanziarie, perché ci possiamo inserire facilmente in qualche banca dati che le fornisce. Sapremo tutto su carte di credito, conti correnti, trasferimenti di denaro, debiti. Poi la cosa si farà più difficile.»

«Quale sarà il passo successivo?»

«Credo che sia meglio tentare con la sicurezza sociale, ma ficcare il naso nei loro dati è un po’ più complicato. Però non è impossibile, dato che al MIT ho un amico che si occupa proprio di sicurezza informatica per vari enti governativi.»

«Pensi che ci aiuterà?»

«Peter Fong? Ma certo, se glielo chiedo io. Per quando la vuoi questa roba?»

«Per ieri», rispose Angela con un sorriso.»

«Ecco una delle cose che mi piacciono in te. Sei sempre così impaziente. Vieni, andiamo da Peter.»

L’ufficio di Peter si trovava al quarto piano di un edificio color crema al centro del campus del MIT e assomigliava più a un laboratorio elettronico che a un ufficio vero e proprio. Era ingombro di computer, tubi catodici, schermi a cristalli liquidi, cavi, registratori e altre attrezzature elettroniche che Angela non conosceva.

Peter Fong era un tipo energico, di origini asiatiche, dagli occhi scurissimi, e ad Angela fu immediatamente chiaro che lui e Robert erano molto amici.

Robert gli porse l’elenco dei nomi e gli spiegò che cosa volevano. Lui si grattò la testa, pensandoci sopra.

«Certo, le banche dati della sicurezza sociale sono un ottimo posto da dove cominciare», concordò, «ma anche quelle dell’FBI non sarebbero una cattiva idea.»

«È possibile?» domandò Angela, inesperta del mondo dell’informatica.

«Non ci sono problemi. Quand’ero a Washington ho lavorato con una collega a un progetto di protezione delle banche dati e lei è in collegamento con tutte e due le organizzazioni.»

Peter scrisse con il computer un messaggio che inviò via fax. «Di solito comunichiamo con il fax, ma a questo lei risponderà con il computer: i dati saranno talmente tanti che sarà più veloce così.»

Nel giro di pochi minuti, i dati si riversarono sul computer di Peter, che li fece subito apparire sullo schermo.

Restando alle spalle di Peter, Angela esaminò le informazioni. Erano una parte del dossier della sicurezza sociale su Joe Forbs e indicavano i lavori che aveva svolto di recente e i contributi da lui versati. Angela rimase molto colpita. Era anche sgomenta dalla facilità con cui si potevano ottenere quelle notizie.

Peter attivò la stampante laser, che cominciò a sfornare una pagina dopo l’altra di dati. Prendendo un foglio a caso, Angela vide che riguardava Werner Van Slyke.

«Interessante», disse. «È stato in marina. Forse è lì che si è fatto fare il tatuaggio.»

«Molti militari considerano il tatuaggio come un rito di passaggio», commentò Robert.

Peter attivò una seconda stampante, su cui giunsero i dati riguardanti le fedine penali e Angela rimase davvero stupita: la tranquilla cittadina di provincia in cui era andata ad abitare riservava non poche sorprese. Le informazioni più interessanti, da questo punto di vista, riguardavano Clyde Devonshire, che era stato arrestato e condannato per stupro sei anni prima. L’incidente aveva avuto luogo a Norfolk, in Virginia, e gli era costato due anni in un penitenziario di Stato.

«Tipo affascinante!» commentò Robert con sarcasmo.

«Lavora al pronto soccorso dell’ospedale», disse Angela. «Mi chiedo se qualcuno sappia dei suoi trascorsi.»

Robert tornò alla prima stampante e, dopo aver frugato un po’ fra i fogli, trovò le informazioni su Clyde Devonshire.

«Anche lui è stato in marina», riferì ad Angela, che era rimasta inchiodata a guardare il mare di dati sui precedenti penali dei suoi concittadini. «Confrontando le date, si nota che è stato condannato per stupro proprio mentre era in marina.»

Lei gli si avvicinò e guardò il foglio.

«Guarda qui», le indicò Robert. «C’è una serie di vuoti nel suo curriculum della sicurezza sociale, dopo che è uscito di galera. Ho già visto dossier simili. Queste lacune indicano che è stato in prigione altre volte, oppure che ha usato nomi falsi.»

«Buon Dio!» esclamò Angela. «Calhoun mi aveva avvertita che sarei rimasta sorpresa da ciò che avrei scoperto. Aveva proprio ragione.»

Mezz’ora dopo, lei e Robert uscirono dall’ufficio di Peter con parecchie scatole piene di stampati e si diressero verso l’ufficio di Robert, che era molto simile all’altro.

«Ora procuriamoci un po’ d’informazioni finanziarie», propose lui, sedendosi davanti a un terminale. Poco dopo, sullo schermo cominciò ad affluire un mare di materiale, come se fosse stato fatto un buco in una diga.

Entrò in azione la stampante e le pagine volarono nei raccoglitori con una rapidità sorprendente.

«Sono sopraffatta», ammise Angela. «Non avrei mai pensato che si potesse ottenere così facilmente una tale quantità di informazioni personali.»

«Tanto per divertirci un po’, vediamo che cosa possiamo scoprire su di te», le propose Robert. «Qual è il tuo numero della sicurezza sociale?»

«No, grazie, sapere quanti debiti ho sarebbe troppo deprimente.»

«Stasera cercherò di ottenere altro materiale sui tuoi sospetti. Di sera c’è meno traffico elettronico e può essere più facile.»

«Ti ringrazio tantissimo», disse Angela, mentre cercava di prendere i due scatoloni in cui avevano raccolto tutto il materiale.

«È meglio se ti do una mano», si offrì Robert e l’accompagnò alla macchina, dove sistemarono tutto nel bagagliaio. Lei lo abbracciò e lo ringraziò un’altra volta. Mentre si allontanava, lo vide agitare un braccio per un ultimo saluto.

Angela non vedeva l’ora di poter mostrare le sue scoperte a David e a Calhoun e, quando finalmente arrivò a casa, entrò dalla porta posteriore, portando il primo scatolone di stampati. «Ehi, sono arrivata!» gridò, ma nessuno le rispose. Allora uscì a prendere il secondo scatolone e, quando rientrò, la casa era ancora immersa nel silenzio. Con un crescente senso di ansia, Angela attraversò la cucina e la sala da pranzo, diretta verso le scale, e vide David seduto a leggere nel salottino.

«Perché non mi hai risposto?» gli domandò.

«Hai detto che eri arrivata, non mi è sembrato che ci volesse una risposta.»

«Che cos’hai?»

«Niente. Allora, com’è andato l’incontro con il tuo ex ragazzo?»

«Oh, allora è per questo?»

David alzò le spalle. «Mi sembra strano che tu mi abbia tenuto nascosto quell’uomo per i quattro anni che abbiamo vissuto a Boston.»

«David!» Angela aveva un tono esasperato, ma poi si avvicinò al marito e gli si sedette in grembo, mettendogli le braccia intorno al collo. «Non intendevo tenerlo segreto. Se fosse stato così, pensi che lo avrei tirato fuori adesso? Non lo sai che amo solo te e nessun altro?» Lo baciò sul naso.

«Promesso?» chiese lui.

«Promesso. Come sta Nikki?»

«Bene, sta schiacciando un pisolino. È ancora sconvolta per Caroline, ma fisicamente sta proprio bene. Allora, com’è andata?»

«Non ci crederai. Vieni!»

Angela trascinò David in cucina e gli mostrò le scatole. Lui prese qualche pagina e la scorse. «È vero, da non crederci. Ci vorranno ore per passare in rassegna tutto quanto.»

«Meno male che siamo disoccupati, così abbiamo un sacco di tempo.»

«Sono contento di vedere che ti è ritornato il buon umore», commentò David.

Prepararono insieme la cena e, quando Nikki si svegliò, li raggiunse al piano di sotto, anche se per lei era difficile muoversi a causa della flebo che aveva ancora attaccata. Prima di sedersi a tavola, David chiamò il dottor Pilsner e insieme decisero che ormai si poteva staccare la flebo e che la terapia antibiotica poteva continuare per via orale.

Dopo cena, Nikki andò a guardare la televisione e David e Angela si misero al lavoro sugli stampati. Lui era sempre più stupito e allarmato nel vedere la ricchezza di materiale accessibile ai pirati informatici.

«Ci vorranno giorni e giorni», si lamentò, pensando alla mole di lavoro che li aspettava.

«Forse dovremmo concentrarci su quelli che hanno dei collegamenti con l’ospedale», propose Angela. «Sono soltanto cinque.»

«Buona idea.»

Anche David trovò interessanti le informazioni sui crimini commessi e fu particolarmente colpito nello scoprire che Clyde Devonshire non solo era stato condannato per stupro, ma era stato arrestato nel Michigan perché si aggirava intorno alla casa del dottor Kevorkian. Pensando che il suicidio assistito e l’eutanasia potevano avere analoghe giustificazioni etiche, si chiese se poteva essere lui il loro ‘angelo della misericordia’.

Rimase anche sconcertato nello scoprire che Peter Ullhof era stato arrestato sei volte davanti a consultori famigliari per la contraccezione, tre volte davanti a cliniche dove si praticava l’aborto e una volta per avere aggredito un medico.

«Molto interessante», commentò Angela, che intanto stava analizzando il materiale della sicurezza sociale. «Tutti e cinque hanno fatto il militare, compresa Claudette Maurice. Che coincidenza.»

«Forse è per quello che hanno tutti i tatuaggi.»

Angela annuì. Le venne in mente il commento di Robert sui tatuaggi come rito di passaggio.

Più tardi interruppero il loro lavoro per far fare a Nikki gli esercizi respiratori e per metterla a letto, poi scesero nuovamente e trasportarono tutto il materiale nel salottino. A mano a mano che analizzavano i fogli, li accatastavano in cinque mucchi separati, uno per ognuno dei cinque dipendenti dell’ospedale.

«Mi aspettavo che a quest’ora Calhoun avesse già chiamato», osservò Angela. «Vorrei sapere la sua opinione su tutte queste informazioni, in particolare su quelle che riguardano Qyde Devonshire.»

«Calhoun è un tipo indipendente. Ci ha detto che avrebbe chiamato quando avesse avuto qualcosa da dirci.»

«Be’, allora lo chiamo io», disse Angela, «abbiamo noi qualcosa da dirgli.»

Provò a fare il numero, ma trovò la segreteria telefonica e non lasciò messaggi.

«Una delle cose che mi stupisce», disse David quando lei riattaccò, «è la frequenza con cui questa gente ha cambiato lavoro.»

Angela gli si avvicinò e osservò i dati della sicurezza sociale riguardanti Van Slyke.

«Guarda qua, è stato in marina per ventun mesi», fece notare al marito.

«E allora?»

«Non è strano? Pensavo che il periodo più breve che si potesse fare fosse di tre anni.»

«Non lo so.»

«Guardiamo il dossier di Devonshire», propose Angela, e passò in rassegna una delle cinque pile di fogli, finché trovò quello giusto. «Lui è rimasto per quattro anni e mezzo.»

«Mio Dio!» esclamò David, che intanto continuava le sue ricerche. «Senti un po’ qui: Joe Forbs ha dichiarato bancarotta tre volte. Ma come fa, allora, ad avere una carta di credito? Eppure ce l’ha. Ogni volta ha ottenuto una nuova carta di credito presso una banca diversa. Sconcertante.»

Verso le undici, David faticava a tenere gli occhi aperti. «Mi sa che vado a letto», dichiarò, abbandonando sul tavolo i fogli che aveva in mano.

«Speravo che lo dicessi», replicò Angela. «Anch’io sono esausta.»

Salirono al piano di sopra tenendosi a braccetto, soddisfatti di tutto quello che erano riusciti a fare in una giornata. Ma non avrebbero dormito così sodo, se avessero saputo quale vespaio stavano suscitando.

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