Lunedì 1° novembre, pomeriggio
Angela dormì molto più a lungo di quanto avesse pensato. Quando si svegliò, alle quattro e mezzo, si stupì nello scoprire che David non era rientrato e non aveva nemmeno telefonato. Sentì una punta di preoccupazione, ma la scacciò via. Mentre le lancette si avvicinavano inesorabilmente alle cinque, la preoccupazione cresceva di minuto in minuto.
Alla fine si decise a chiamare la Green Mountain National Bank, ma trovò solo una registrazione che informava sull’orario di apertura: dalle nove alle quattro e mezzo. Si chiese come mai David non l’avesse chiamata con il suo telefonino portatile. Non era da lui e inoltre sapeva che lei si sarebbe preoccupata, vedendolo tardare.
Chiamò il Bartlet Community Hospital e cercò il banco centrale delle informazioni, chiedendo di David. Le risposero che il dottor Wilson non si era visto per tutto il giorno. Alla fine, Angela provò a telefonare alla loro casa di Bartlet, ma dopo dieci squilli riattaccò, chiedendosi se David non avesse deciso di giocare all’investigatore. L’idea la fece preoccupare ancora di più, allora andò in cucina e chiese alla suocera se le poteva prestare la macchina.
«Ma certo», rispose Jeannie. «Dove vai?»
«A Bartlet. Ho dimenticato a casa alcune cose che mi servono.»
«Vengo anch’io», disse Nikki.
«Credo che sia meglio che tu rimanga qua», cercò di convincerla Angela.
«No, vengo anch’io!»
Lei si costrinse a sorridere a Jeannie, poi prese Nikki per un braccio e la portò fuori dalla cucina.
«Nikki, voglio che tu rimanga qui», le ripeté.
«Ho paura a stare qua da sola», gemette lei, mettendosi a piangere.
Angela fu presa in contropiede. Preferiva che sua figlia rimanesse lì con la nonna, ma non aveva tempo di mettersi a discutere con lei e nemmeno voleva spiegare a Jeannie perché era meglio così. Alla fine si arrese.
Erano quasi le sei, quando arrivarono a Bartlet. C’era ancora un po’ di luce, ma ben presto sarebbe calata la notte. Alcune auto avevano già i fari accesi.
Angela non aveva un piano preciso, pensava più che altro di mettersi a cercare la Volvo. Dapprima passò dalla banca e, nell’avvicinarsi, vide Barton Sherwood e Harold Traynor che camminavano verso i giardini. Accostò al marciapiede e saltò giù, dicendo a Nikki di aspettarla in macchina.
«Scusatemi», disse quando raggiunse i due uomini.
Loro si voltarono.
«Mi spiace disturbarvi. Sto cercando mio marito.»
«Non ho idea di dove sia», le rispose irritato Sherwood. «Non si è presentato all’appuntamento che avevamo questo pomeriggio e non ha nemmeno telefonato.»
«Mi dispiace», mormorò Angela.
Sherwood si toccò la falda del cappello e proseguì il suo cammino, insieme a Traynor.
Angela ritornò di corsa alla macchina. Adesso era proprio sicura che era successo qualcosa di brutto.
«Dov’è papà?» le domandò Nikki.
«Vorrei saperlo anch’io», le rispose eseguendo un’inversione a U nel mezzo di Main Street, facendo stridere ì pneumatici. Nikki puntò le mani contro il cruscotto. Aveva già intuito che sua madre era scombussolata, ora ne era sicura.
«Andrà tutto bene», le disse Angela. La tappa successiva fu la loro casa. Sperava che nel frattempo David fosse arrivato lì, ma le bastò imboccare il vialetto per rimanere delusa: niente Volvo.
Si fermò accanto alla casa e uno sguardo sommario le rivelò che tutto era come loro l’avevano lasciato, ma volle esserne sicura.
«Resta in auto», disse a Nikki. «Faccio in un attimo.»
Entrò e chiamò David, ma non ottenne risposta. Salì al piano di sopra, per vedere se il letto nella loro stanza fosse stato usato, ma era intatto. Ritornando al pianterreno vide il fucile e lo prese, controllando il caricatore. C’erano quattro proiettili.
Con il fucile in mano, andò nel salottino e prese la guida del telefono, quindi cercò gli indirizzi di Devonshire, Forbs, Maurice, Van Slyke e Ullhof e li copiò su un foglietto. Poi ritornò alla macchina.
«Mamma, guidi come una pazza», si lamentò Nikki quando sua madre lasciò una strisciata di gomma sull’asfalto.
Angela rallentò un poco e disse a Nikki di rilassarsi. Non voleva farle capire quanto fosse in ansia.
Il primo indirizzo era una drogheria. Angela vi si fermò davanti e Nikki le chiese che cosa ci facevano lì.
«Non lo so, di sicuro», le rispose lei. «Diamo un’occhiata qui intorno e vediamo se c’è la Volvo.»
«Non c’è.»
«Me ne sono accorta.»
L’indirizzo seguente era quello di Forbs. Angela rallentò nell’avvicinarsi alla casa. Le luci erano accese, ma non c’era traccia della sua auto.
Delusa, premette sull’acceleratore e ripartì a gran velocità.
«Stai di nuovo guidando da pazzi», le fece notare Nikki.
«Scusa.» Angela rallentò e si accorse di stringere il volante talmente forte da avere le mani che le facevano male. La casa seguente era quella di Claudette Maurice. Rallentò, ma si accorse subito che era tutta chiusa e non c’erano segni di vita, quindi ripartì.
Dopo pochi minuti, mentre imboccava la stradina in cui viveva Van Slyke, scorse immediatamente la Volvo. Anche Nikki la vide. Era un raggio di speranza. Angela le parcheggiò proprio dietro, spense il motore e saltò giù.
Avvicinandosi all’automobile, vide il furgoncino di Phil Calhoun. Guardò dentro tutti e due i veicoli e nel furgone notò un bicchiere di carta sporco di caffè che aveva l’aria di essere lì da diversi giorni.
Gettò un’occhiata dall’altra parte della strada, verso la casa di Van Slyke. Non c’erano luci accese e l’ansia di Angela aumentò.
Corse di nuovo alla macchina e prese il fucile. Nikki fece per scendere, ma lei le urlò di rimanere dove si trovava e il suo tono fece capire a Nikki che non c’era da discutere.
Angela attraversò la strada, tenendo in mano il fucile. Mentre saliva i pochi gradini della veranda, si chiese se dovesse andare direttamente alla polizia. Non aveva dubbi che ci fosse qualcosa che non andava, ma quale aiuto poteva aspettarsi da Robertson? E poi temeva che il fattore tempo fosse vitale.
Provò a suonare il campanello, ma non funzionava, allora bussò alla porta e, non ottenendo risposta, provò ad aprirla. Non era chiusa a chiave. La spinse ed entrò, guardinga.
Poi chiamò David, più forte che poté.
David udì il grido di Angela e si raddrizzò. Era appoggiato a un bidone colmo di mele essiccate. Il suono gli era arrivato come da una grande distanza ed era talmente fioco che si chiese se fosse vero. Forse aveva delle allucinazioni, ma poi lo udì un’altra volta.
Adesso era sicuro che era vero e sapeva che si trattava di Angela. Balzò in piedi nell’oscurità e gridò il suo nome, ma il suono si spense nello spazio limitato, assorbito dai muri di pietra e dal pavimento di terra. Si mosse alla cieca, fino ad arrivare alla porta. Urlò ancora, ma si rese conto che era inutile, a meno che Angela non scendesse in cantina.
Tastando al buio gli scaffali, prese uno dei vasetti di conserva e con quello tempestò la porta di colpi, ma il rumore non era forte come lui aveva sperato.
Poi sentì dei passi sopra di sé. Dovevano essere di Angela. Allora cambiò tattica: lanciò il vasetto contro il soffitto, si coprì la testa con le mani e chiuse gli occhi mentre il vetro andava in frantumi.
Si aggrappò agli scaffali e vi si arrampicò sopra, per picchiare i pugni direttamente contro le assi del soffitto. Aveva dato un unico colpo, quando lo scaffale su cui si trovava cedette e cadde rovinosamente a terra con tutti i vasetti, travolgendo anche David nella caduta.
Angela era scoraggiata. Aveva fatto il giro di tutto il pianterreno, accendendo parecchie luci, ma non aveva trovato prove che David e Calhoun si trovassero lì, tranne un mozzicone di sigaro in cucina che poteva essere stato dell’investigatore.
Stava per salire al piano di sopra, quando pensò a Nikki. Preoccupata, tornò fuori e arrivò alla macchina per dirle che avrebbe dovuto aspettarla ancora un po’. La bambina le raccomandò di fare presto, perché aveva paura a rimanere lì da sola.
Angela rientrò in casa e cominciò a salire le scale, tenendo il fucile con entrambe le nani. Quando raggiunse il piano superiore, si fermò perché le era sembrato di udire qualcosa. Rimase per qualche istante in ascolto e poi, non sentendo più nulla, proseguì la sua esplorazione.
Lassù lo sporco era ancora maggiore che al piano di sotto e regnava un pungente odore di muffa, come se fossero anni che nessuno saliva là sopra. Dal soffitto pendevano gigantesche ragnatele.
Angela gridò più volte il nome di David, ma nessuno le rispose. Si voltò per scendere, quando notò su un tavolino accanto alla ringhiera delle scale una maschera di gomma di quelle che si usano ad Halloween. Imitava la testa di un rettile. Era la maschera indossata dall’uomo che si era introdotto in casa sua!
Scese le scale tremando e a metà strada si fermò ad ascoltare: le era parso di udire qualcosa, come dei colpi in lontananza. Decise di scoprire da dove provenivano e, quando arrivò in fondo alle scale, si fermò di nuovo. Le sembrò di udirli ancora, provenienti dalla cucina. Vi entrò e scoprì che lì il rumore era decisamente più forte. S’inginocchiò, appoggiò l’orecchio al pavimento e sentì distintamente un bussare ripetuto.
Urlò il nome del marito, poi rimise l’orecchio a terra e riuscì a malapena a cogliere la risposta di David che la chiamava per nome. Si precipitò ansante alle scale della cantina. Trovò l’interruttore e corse giù, stringendo il fucile. Ora udiva più distintamente la voce di David, ma era ancora molto attutita.
Quando si ritrovò in cantina, lo chiamò ancora e, nel sentire chiaramente la sua risposta, le salirono le lacrime agli occhi. Si fece strada fra gli oggetti accatastati, facendosi guidare dalla voce di David e, quando arrivò davanti a due porte, distinse subito quale era quella contro la quale lui stava picchiando. Però c’era un problema: il lucchetto.
Gridò a David che lo avrebbe tirato fuori di lì, poi appoggiò il fucile al muro e si guardò intorno in cerca di un attrezzo adatto. Vide il piccone, lo prese e colpì ripetutamente il lucchetto, ma senza risultato. Allora incastrò la punta dell’arnese fra il catenaccio e il legno della porta e lo usò come un piede di porco.
Spingendo con tutte le sue forze, riuscì a far staccare dal legno il catenaccio, poi aprì la porta.
David corse fuori e l’abbracciò.
«Grazie al cielo, sei arrivata!» esclamò. «C’è Van Slyke dietro a tutta questa faccenda. Ha ucciso i pazienti e anche Hodges. Proprio in questo momento è in preda a una crisi psicotica ed è armato. Dobbiamo andarcene di qua.»
«Andiamo!» Angela riprese in mano il fucile e insieme si diressero verso le scale.
Prima di cominciare a salire, David le mise una mano sul braccio e le mostrò la gettata di cemento vicino alla fossa che aveva iniziato a scavare. «Temo che Calhoun sia là sotto», le disse.
Lei rimase senza fiato.
«Vieni!» l’esortò David, dandole una piccola spinta. Salirono su per le scale. «Non ho scoperto chi sia, ma è chiaro che c’è qualcuno che paga Van Slyke. Non ho nemmeno capito come faceva a uccidere i pazienti.»
«Van Slyke è anche la stessa persona che è venuta a casa nostra ieri sera», gli rivelò Angela. «Di sopra ho trovato la maschera da rettile.»
Mentre entravano in cucina, i fari di una macchina illuminarono all’improvviso la stanza, scivolando anche sui loro visi inorriditi.
«Mio Dio, no!» esclamò David sottovoce. «È tornato!»
«Ho acceso tutte le luci», sussurrò Angela. «Capirà subito che c’è qualcosa che non va.»
Passò il fucile al marito, che lo afferrò con le mani sudate. Sentirono chiudersi la portiera, poi i passi sulla ghiaia.
David fece cenno ad Angela di retrocedere dietro la porta della cantina, che poi accostò, lasciando uno spiraglio per poter guardare in cucina.
I passi arrivarono fino alla porta posteriore, poi si fermarono improvvisamente.
Per qualche minuto di puro terrore non si udì alcun rumore. David e Angela trattennero il respiro ed entrambi pensarono che Van Slyke si stesse chiedendo perché le luci fossero accese.
Poi, con loro grande sorpresa, i passi si allontanarono fino a non essere più udibili.
«Dov’è andato?» sussurrò Angela.
«Vorrei proprio saperlo», le rispose David. «Non mi piace non sapere dov’è. Questo posto lui lo conosce fin. troppo bene. Potrebbe prenderci alle spalle.»
Angela si voltò a guardare le scale della cantina. L’idea di Van Slyke che saltava loro addosso all’improvviso le fece venire i brividi.
Per qualche minuto restarono immobili, sforzandosi di sentire ogni minimo rumore. Il silenzio della casa aveva un che di spettrale. Alla fine, David riaprì la porta e ritornò in cucina, facendo segno alla moglie di fare altrettanto.
«Forse non era Van Slyke», sussurrò Angela.
«Doveva essere lui», replicò David.
«Usciamo subito di qui. Se rimango qui troppo a lungo, ho paura che Nikki scenda dalla macchina.»
«Che cosa?» sussurrò David. «Nikki è qui?»
«Non l’ho potata lasciare da tua madre. Ha insistito per venire con me e io non avevo tempo di discutere con lei o di spiegare la situazione a Jeannie.»
«Oh, mio Dio! E se Van Slyke l’ha vista?»
«Pensi che possa averla vista?»
David fece cenno ad Angela di seguirlo. Arrivarono alla porta che dava sul cortile e l’aprirono più silenziosamente che poterono. Fuori era completamente buio. L’automobile di Van Slyke era a qualche metro di distanza, ma di lui non c’era traccia.
David disse ad Angela di rimanere ferma e scattò verso l’auto impugnando il fucile. Le girò intorno, guardando dentro attraverso i finestrini, e si assicurò che non ci fosse nessuno, poi fece cenno ad Angela di raggiungerlo.
«Evitiamo di camminare sulla ghiaia», le suggerì. «Fa troppo rumore. Rimaniamo sull’erba. Dove hai parcheggiato?»
«Proprio dietro di te.»
David andò avanti e Angela lo seguì. Quando raggiunsero la strada, videro che i loro peggiori timori si erano realizzati. Alla luce di un lampione, scorsero la sagoma di Van Slyke al posto di guida della Cherokee di Jeannie. Nikki era seduta accanto a lui.
«Oh, no!» esclamò Angela, lanciandosi istintivamente in avanti, ma David la bloccò.
Si guardarono, colmi di orrore, e lei sussurrò: «Dobbiamo fare qualcosa!»
«Dobbiamo analizzare la situazione», replicò lui, guardando la Cherokee.
«Pensi che abbia una rivoltella?» domandò Angela.
«Ce l’ha, lo so», rispose lui.
«Forse dovremmo chiedere aiuto.»
«Ci vorrebbe troppo tempo e poi Robertson e i suoi non avrebbero la più pallida idea di come gestire una situazione come questa, ammesso che ci prendano sul serio. Dobbiamo cavarcela da soli e fare allontanare Nikki quel tanto che basta per potere usare il fucile, se ne avessimo bisogno.»
Per qualche interminabile istante rimasero a fissare l’auto.
«Dammi le chiavi», disse poi David. «Magari ha chiuso le portiere dall’interno.»
«Sono in macchina», rispose Angela.
«Oh, no! Potrebbe andarsene via con Nikki.»
«Mio Dio!»
«La faccenda sta peggiorando sempre di più. Però, ci hai fatto caso? Per tutto il tempo che siamo rimasti a guardare, Van Slyke non si è mosso. L’ultima volta che l’ho visto era agitatissimo, non riusciva a stare fermo un secondo.»
«È vero. Sembra che stiano parlando con calma.»
«Se Van Slyke è distratto, noi potremmo scivolare dietro la macchina», propose David. «Poi tu potresti andare da un lato e io dall’altro. Apriamo le portiere contemporaneamente, poi tu tiri giù Nikki e io punto il fucile contro di lui.»
«Mio Dio! Non pensi che in questo modo corriamo troppi rischi?»
«Dammi un’idea migliore. Nikki deve scendere da lì prima che a Van Slyke venga in mente di andarsene con lei.»
«Va bene», accettò Angela, riluttante.
Attraversarono la strada tenendosi a una certa distanza dalla Cherokee, poi si avvicinarono da dietro, rimanendo accucciati per non farsi vedere. Alla fine arrivarono proprio dietro l’auto e si acquattarono nella sua ombra.
David avanzò piano fino a trovarsi all’altezza della portiera posteriore e sollevandosi vide che non erano state messe le sicure.
«Finalmente qualcosa che va per il verso giusto», sussurrò Angela, quando lui tornò indietro e glielo disse.
«Bene, sei pronta?» le chiese lui.
«Aspetta un momento», replicò Angela, afferrandolo per un braccio. «Più penso al tuo piano e meno mi piace. Non credo che dovremmo metterci ognuno da un lato. Dovremmo arrivare tutti e due dalla parte di Nikki. Tu apri la portiera e io la tiro fuori.»
David ci pensò un momento, poi si dichiarò d’accordo. La cosa importante era fare in modo che Nikki si allontanasse da Van Slyke e il piano di Angela aveva maggiori probabilità di successo. Il problema era come affrontare Van Slyke una volta che la bimba fosse in salvo.
«D’accordo, allora», disse lui. «Al mio segnale, spalanchiamo la portiera.»
Angela annuì.
David prese il fucile e lo tenne con la mano sinistra, poi girò intorno alla moglie per trovarsi sul lato destro dell’auto. Avanzò lentamente, rimanendo accucciato e stringendo il fucile al petto. Quando arrivò all’altezza della portiera posteriore, si voltò a vedere se Angela era dietro di lui. Lei era lì. Allora si preparò a balzare in avanti, ma prima che potesse dare alla moglie il segnale convenuto, la portiera di Nikki si aprì e la bimba si sporse fuori. Nel vedere i genitori accucciati lì di fianco, rimase sconcertata.
«Che cosa state facendo?» domandò.
David balzò in avanti e spalancò completamente la portiera. Nikki perse l’equilibrio e cadde fuori dall’auto. Angela si gettò verso di lei, l’afferrò e la trascinò nell’erba, facendola gridare per il male e per lo spavento.
David puntò il fucile contro Van Slyke, pronto a premere il grilletto, se ce ne fosse stato bisogno, ma l’altro non aveva la rivoltella e non provò neppure a scappare. Non si mosse nemmeno. Si limitò a guardare David con un viso completamente privo di espressione.
David si avvicinò guardingo e lui rimase seduto immobile, le mani in grembo. Non sembrava affatto lo psicotico in preda a crisi maniacale di poco prima.
«Che cosa succede?» gridò Nikki. «Perché mi hai tirata giù in questo modo? Mi hai fatto male alla gamba.»
«Mi dispiace», si scusò Angela. «Ero preoccupata per te. L’uomo seduto accanto a te è lo stesso che ieri sera è venuto a casa nostra con quell’orrenda maschera da rettile.»
«Non può essere!» esclamò la bimba, asciugandosi le lacrime. «Il signor Van Slyke mi ha detto che doveva restare a parlare con me fin quando foste ritornati voi.»
«Di che cosa ti ha parlato?»
«Di quando aveva la mia età e mi ha detto che è stato un periodo meraviglioso.»
«La sua infanzia non è stata affatto meravigliosa», la contraddisse David, senza perdere di vista Van Slyke, che continuava a rimanere immobile. Sempre tenendogli il fucile puntato contro, gli si avvicinò e gli chiese se stava bene.
«Sto bene», gli rispose lui. «Mio padre mi portava sempre al cinema, tutte le volte che volevo.»
Tenendolo sotto tiro, David girò davanti alla macchina e aprì la portiera del guidatore. Van Slyke non si era mosso, ma lo aveva seguito con lo sguardo e adesso lo fissava.
«Dov’è la pistola?» gli chiese David.
«Pistola sola gola vola», scandì lui.
David lo afferrò per un braccio e lo tirò giù dall’auto. Angela gli urlò di stare attento. Aveva udito le parole di Van Slyke e spiegò al marito che l’uomo stava facendo delle associazioni sonore: era evidentemente in piena crisi psicotica.
David lo fece mettere con il viso sulla macchina e lo perquisì in cerca di armi, ma non trovò la pistola.
«Che cos’hai fatto con la rivoltella?» gli domandò.
«Non mi serviva più.»
David gli osservò attentamente il viso. Le pupille non erano più dilatate come prima. La trasformazione era notevole.
«Van Slyke, che cosa ti prende?»
«Che cosa prende? Le tende.»
«Van Slyke!» gridò David. «Che cosa ti succede? Dove sei stato? E le voci? Le senti ancora, le voci?»
«Stai perdendo il tuo tempo», disse Angela. Lei e Nikki si erano avvicinate. «Te l’ho detto, è uno psicotico.»
«Non ci sono più le voci», rispose Van Slyke, «le ho fatte smettere.»
«Credo che ora dovremmo chiamare la polizia», suggerì Angela. «E non intendo quella locale, ma la polizia di Stato. Il telefonino è in macchina?»
«Come hai fatto a farle smettere?» insistette David.
«Mi sono preso cura di loro», rispose Van Slyke.
«Che cosa vuol dire che ti sei preso cura di loro?» David temeva di scoprirlo.
«Non riusciranno a usarmi come una marionetta.»
«Chi intendi per ‘loro’?»
«Il consiglio, l’intero consiglio.»
«David!» Angela era impaziente. «Pensiamo a chiamare la polizia. Voglio portare Nikki lontano di qui, non vedi che dice solo stupidaggini?»
«Non credo», obiettò David.
«Che cosa vorrebbe dire con ‘il consiglio’, secondo te?»
«Temo che intenda il consiglio di amministrazione dell’ospedale.»
«Consiglio coniglio groviglio puntiglio», disse Van Slyke, poi sorrise. Era la prima volta che cambiava espressione da quando lo avevano raggiunto alla macchina.
«David, quest’uomo non è in sintonia con la realtà», ribadì Angela. «Perché insisti a fare conversazione con lui?»
«Intendi il consiglio di amministrazione dell’ospedale?» chiese ancora David.
«Sì», rispose Van Slyke.
«D’accordo. Andrà tutto bene.» David stava cercando di convincere se stesso, più di chiunque altro. «Hai sparato a qualcuno?»
Van Slyke rise. «No, non ho sparato proprio a nessuno. Tutto quello che ho fatto è stato mettere la sorgente sul tavolo nella sala delle riunioni.»
«Che cosa intende con ‘sorgente’?» domandò Angela.
«Non ne ho idea», ammise David.
«Sorgente sergente fetente serpente.» Werner Van Slyke ridacchiava.
Frustrato, David lo prese per la camicia e lo scosse, chiedendogli di nuovo che cosa avesse fatto.
«Ho messo la sorgente sul tavolo, proprio vicino al plastico del garage, e sono contento di averlo fatto. Io non sono la marionetta di nessuno. L’unico problema è che sono sicuro di essermi bruciato.»
«Dove?» domandò David.
«Alle mani.» Van Slyke le sollevò, in modo che David potesse vederle.
«Sono bruciate?» domandò Angela al marito.
«Non mi sembra», le rispose lui. «Sono solo un po’ arrossate, ma per il resto mi sembrano normali.»
«Non dice niente di sensato», insistette lei. «Forse ha delle allucinazioni.»
David annuì, distratto. I suoi pensieri all’improvviso stavano correndo in un’altra direzione.
«Sono stanco», disse Van Slyke. «Voglio andare a casa e vedere i miei genitori.»
David lo salutò con la mano e lui attraversò la strada, diretto verso casa sua. Angela fissò il marito, incredula: non si era aspettata che lo lasciasse andare. «Che cosa fai?» chiese. «Non dovremmo chiamare la polizia?»
David annuì ancora. Fissava Van Slyke, mentre intanto la sua mente cominciava a mettere insieme tutto quanto: i suoi pazienti, i sintomi e le morti.
«Van Slyke è un caso disperato», commentò Angela. «Si comporta come se avesse appena ricevuto un elettrochoc.»
«Sali in macchina», le ordinò David.
«Ma che cosa c’è?» Ad Angela non piacque il tono del marito.
«Sali in macchina, in fretta!» gridò lui e poi salì al posto di guida della Cherokee.
«E Van Slyke?» gli domandò la moglie.
«Non c’è tempo per Van Slyke e poi non sta andando da nessuna parte. Sali, presto!»
Angela fece sedere Nikki sul sedile posteriore e salì accanto a David, che aveva già messo in moto. Prima che lei avesse chiuso la portiera, fece retromarcia, poi, dopo una rapidissima conversione a U, ripartì.
«Che cosa succede, adesso?» domandò Nikki.
«Dove andiamo?» volle sapere Angela.
«All’ospedale», rispose David.
«Guidi male come la mamma», Nikki lo rimproverò.
«Perché all’ospedale?» chiese ancora Angela.
«All’improvviso tutto comincia ad avere un senso», spiegò David, «e adesso ho una terribile premonizione.»
«Di che cosa stai parlando?» Angela era perplessa.
«Credo di sapere di che cosa parlava Van Slyke, quando si è riferito alla ‘sorgente’.»
«Io pensavo che fosse solo una farneticazione schizofrenica. Stava facendo delle semplici associazioni sonore. Diceva sorgente, sergente eccetera. Erano soltanto parole senza senso.»
«Forse stava facendo associazioni sonore», convenne lui, «ma non credo che la parola ‘sorgente’ fosse senza significato, perché ha detto di averla messa sul tavolo delle riunioni accanto al plastico di un garage. È troppo specifico.»
«E allora a che cosa pensi che si riferisse?»
«Credo che abbia a che fare con le radiazioni. Forse era proprio di quello che parlava, quando ha detto che si è bruciato le mani.»
«Oh, via! Mi sembri pazzo come lui. Ricordati che la sua paranoia, quando era a bordo del sottomarino nucleare, aveva a che fare con le radiazioni, quindi le cose che ha detto molto probabilmente sono dovute a un ritorno della sua schizofrenia.»
«Spero proprio che tu abbia ragione», affermò David, «ma sono molto preoccupato. L’addestramento che ha ricevuto in marina comprendeva la propulsione atomica, il che vuol dire guidare una nave con un reattore nucleare e i reattori nucleari emettono radiazioni. Ha ricevuto un addestramento come tecnico nucleare, quindi è un esperto di materiali nucleari e sa quello che sono in grado di fare.»
«Be’, adesso quello che dici ha senso», ammise Angela, «ma parlare di una sorgente di energia nucleare e possederla sono due cose ben diverse. La gente non può uscire di casa e procurarsi del materiale radioattivo. Si tratta di cose rigidamente controllate dal governo. Ecco perché c’è la commissione di controllo nucleare.»
«C’è una vecchia macchina per la cobaltoterapia, nella cantina dell’ospedale. Traynor spera di venderla a qualche Paese dell’America Latina.»
«Questo non mi piace», ammise Angela.
«Nemmeno a me. Pensa ai sintomi che hanno avuto i miei pazienti. Potrebbero essere stati causati da radiazioni, specialmente se sono rimasti esposti a dosi massicce. È una possibilità orrenda, ma corrisponderebbe ai fatti. Allora alle radiazioni non avevo certo pensato.»
«Anch’io non ho pensato alle radiazioni, quando ho fatto l’autopsia a Mary Ann Schiller», ammise lei, «ma ora che ci penso, poteva essere così. Non si pensa alle radiazioni, se non esistono particolari circostanze di esposizione. I cambiamenti patologici che si osservano non sono specifici.»
«È esattamente quello che penso anch’io. Anche le infermiere con i sintomi tipo influenza potrebbero avere sofferto di un basso livello di radiazioni. E anche…»
«Oh, no!» esclamò Angela, afferrando immediatamente l’idea del marito. «Anche Nikki!»
«Anche Nikki che cosa?» domandò la bambina dal sedile posteriore. Non aveva seguito la conversazione dei genitori, fino a che non aveva udito il proprio nome.
Angela si voltò. «Stava soltanto dicendo che hai avuto dei sintomi influenzali, proprio come le infermiere», le spiegò.
«E come papà!»
«Sì, anche come me», confermò David.
Intanto erano arrivati all’ospedale e si fermarono nel parcheggio.
«Che piano hai in mente?» domandò Angela.
«Ci serve un contatore geiger. Dovrebbe essercene uno, nel centro di radioterapia. Cercherò qualcuno delle pulizie che ci faccia entrare. Perché tu e Nikki non andate nell’atrio?»
David trovò Ronnie, uno degli addetti alle pulizie che conosceva di vista e che fu molto contento di aiutarlo, dato che così aveva l’occasione di abbandonare il lavoro che stava facendo: pulire i pavimenti. Naturalmente, lui si guardò bene dal dirgli che era stato licenziato dal CMV e che non aveva più il diritto di utilizzare le attrezzature dell’ospedale.
Con Ronnie al seguito, David tornò nell’atrio, dove Nikki aveva scoperto un televisore e ci si era piazzata davanti. I suoi genitori le raccomandarono di non muoversi di lì e si diressero al centro di radioterapia, dove nel giro di un quarto d’ora trovarono un contatore geiger.
Tornati nell’edificio principale scesero in cantina insieme a Ronnie, che si era procurato la chiave. «La gente non scende spesso, qui sotto», spiegò loro, nell’aprire la porta.
Si aggirarono fra i locali, fino a trovare quello che cercavano: la vecchia apparecchiatura per la cobaltoterapia. Sembrava una macchina a raggi X a cui era attaccato un tavolo su cui doveva sdraiarsi il paziente.
David appoggiò il contatore sul tavolo e l’accese. L’ago ebbe solo un minuscolo fremito.
«Dov’è la sorgente, in questo aggeggio?» chiese Angela.
«Credo che si trovi dove si incrociano questa colonna di sostegno e il braccio mobile», rispose lui.
David sollevò il contatore geiger posizionandolo nel luogo in cui pensava vi fosse la sorgente, senza rilevare nessun segnale.
«Il fatto che non dia segnali non vuol dire niente», osservò Angela. «Sono sicura che quella cosa è ben protetta.»
David annuì. Andò sul retro della macchina e riprovò ancora a rilevare la presenza di radiazioni, ma senza risultato.
«Ehi, vieni qui e guarda!» lo chiamò Angela.
Lui la raggiunse e lei gl’indicò un pannello di accesso vicino al braccio mobile: le quattro viti che dovevano tenerlo fermo erano allentate.
David prese una sedia da una delle altre stanze e la mise sotto il braccio, poi ci salì sopra, svitò completamente le viti e tolse il pannello, passando il tutto a Ronnie. Dietro il pannello c’era una placca di metallo circolare fissata con otto bulloni. Si fece passare da Angela il contatore geiger e cercò di nuovo le radiazioni, ma non rilevò nulla. Allora allungò una mano fino alla placca e si accorse che anche i bulloni erano allentati, tutti e otto. Li tolse uno per uno, passandoli ad Angela.
«Sei sicuro che sia bene farlo?» gli chiese lei, preoccupata per le radiazioni, oltre che per la scarsa abilità di suo marito nei lavori manuali.
«Dobbiamo essere sicuri», le rispose, togliendo l’ultimo bullone. Poi sollevò il pesante coperchio di metallo e lo porse a Ronnie. Guardò dentro la cavità cilindrica, che aveva un diametro di circa dieci centimetri, che faceva pensare alla canna di un grosso fucile. Senza una pila, poteva vedere solo l’inizio.
«Non credo che in condizioni normali si possa vedere dentro», disse. «Ci dovrebbe essere un fermo che blocca la sorgente, quando viene messa in posizione per la terapia.»
Per essere sicuro al cento per cento, appoggiò il contatore Geiger contro l’apertura. L’ago non si mosse.
David scese dalla sedia e dichiarò con sicurezza: «La sorgente non c’è. È stata rimossa».
«Che cosa facciamo, allora?» chiese Angela.
«Che ore sono?»
«Le sette e un quarto», rispose Ronnie.
«Andiamo a prendere dei grembiuli di piombo in radiologia», suggerì David, «poi vediamo che cosa possiamo fare.»
Risalirono al pianterreno e si diressero verso l’Imaging Center, che era aperto anche a quell’ora per i casi di emergenza. Ronnie non capiva che cosa stesse succedendo, ma sentiva che era qualcosa di serio e desiderava essere d’aiuto.
Il tecnico di turno s’insospettì alla richiesta di David di farsi prestare dei grembiuli di piombo, ma gli fu assicurato che non sarebbero usciti dall’ospedale e poi non gli piaceva contraddire i medici. Così gli fornì nove grembiuli, oltre a un paio di guanti di piombo usati per la fluoroscopia.
Appesantiti da quel carico, a cui si aggiungeva anche il contatore geiger, David, Angela e Ronnie percorsero diversi corridoi e ricevettero occhiate curiose da parte dei pazienti e del personale che incontravano. Nessuno, però, cercò di fermarli.
«Bene», disse infine David, con il fiatone, quando arrivarono davanti alla porta della sala delle riunioni. «Mettiamo tutto qui.» Lasciò cadere a terra i grembiuli e gli altri due fecero altrettanto.
Poi riaccese il contatore Geiger e immediatamente l’ago si spostò verso destra. «Gesù Cristo!» esclamò David. «Non potremmo avere una prova più eloquente di questa!» Ringraziò Ronnie e lo lasciò libero di ritornare al suo lavoro, poi spiegò ad Angela quello che aveva in mente. S’infilò i guanti di piombo e raccolse da terra tre grembiuli. Uno lo tenne in mano, gli altri due se li gettò sulle spalle. Angela ne prese quattro.
David aprì la porta ed entrò, subito seguito dalla moglie. Traynor, interrotto nel bel mezzo di una frase, gli rivolse uno sguardo che avrebbe potuto incenerirlo. Tutti gli altri (Sherwood, Helen Beaton, Caldwell, Cantor, Arnsworth e Robeson) si voltarono per vedere a che cosa fosse dovuta l’interruzione. Mentre i vari membri del consiglio cominciavano a mormorare, Traynor batté il martelletto, richiamandoli all’ordine.
David osservò il tavolo e individuò subito la sorgente. Era un cilindro lungo circa trenta centimetri, il cui diametro corrispondeva a quello della cavità vista poco prima nella macchina per la cobaltoterapia. Nella sua circonferenza erano incastrati diversi anelli di teflon e sulla sommità c’era una chiusura. Il cilindro era appoggiato vicino al plastico di un garage, proprio come aveva indicato Van Slyke.
David si avvicinò, tenendo un grembiule di piombo con entrambe le mani.
«Fermo!» tuonò Traynor.
Prima che David potesse avanzare oltre, Caldwell balzò in piedi e lo afferrò, circondandolo con le braccia.
«Che cosa diavolo crede di fare?» gli chiese.
«Sto cercando di salvarvi la vita, se non è troppo tardi.»
«Lasciatelo fare!» urlò Angela.
«Di che cosa sta parlando?» volle sapere Traynor.
David fece un cenno con la testa verso il cilindro. «Temo che abbiate tenuto la vostra riunione intorno a una sorgente di cobalto-60.»
Cantor balzò in piedi, rovesciando la sedia. «L’avevo vista, quella cosa sul tavolo!» urlò. «Mi chiedevo che cosa fosse.» Senza aggiungere altro, si voltò e fuggì dalla stanza.
Caldwell, sbalordito, allentò la presa e David si gettò verso il tavolo, prese il cilindro di ottone con le mani guantate e lo avvolse in uno dei grembiuli di piombo, poi in un altro e in un altro ancora. Proseguì l’operazione usando i grembiuli che aveva portato Angela, mentre lei usciva a recuperare gli altri che avevano lasciato fuori della porta. L’importante era ricoprire il cilindro del maggior numero di strati di piombo possibile.
Mentre David avvolgeva l’ultimo grembiule intorno al fagotto divenuto ormai piuttosto ingombrante, Angela andò a prendere il contatore geiger.
«Non le credo», sbottò Traynor, rompendo il silenzio che si era impadronito della sala, ma la sua voce denotava poca convinzione. La precipitosa fuga di Cantor l’aveva innervosito.
«Non è il momento di starsene qui a discutere», obiettò David. «È meglio che usciamo. Tutti voi siete stati esposti a una notevole quantità di radiazioni. Vi consiglio di rivolgervi ai vostri medici.»
Traynor e tutti gli altri si scambiarono sguardi nervosi e ben presto il panico si impadronì di loro, mentre tutti i membri del consiglio di amministrazione fuggivano uno dopo l’altro dalla stanza.
David finì di avvolgere l’ultimo grembiule e poi accese il contatore geiger, verificando con disappunto che, nonostante i suoi sforzi, la lancetta registrava una quantità significativa di radiazioni.
«Andiamocene», disse alla moglie. «Tutto quello che potevamo fare lo abbiamo fatto.»
Lasciarono sul tavolo il cilindro avvolto nei grembiuli di piombo e uscirono, chiudendosi la porta alle spalle. David azionò ancora il contatore geiger e vide che i segnali erano molto più deboli. «Finché nessuno entra nella stanza, nessun altro rimarrà danneggiato», concluse.
Poco dopo si stava dirigendo insieme ad Angela a riprendere la figlia, quando si fermò di botto.
«Pensi che a Nikki non dispiacerà rimanere sola qualche altro minuto?» le chiese.
«Davanti a un televisore starebbe bene anche per una settimana», gli rispose Angela. «Perché?»
«Penso di avere capito come sono stati irradiati i pazienti», le rivelò lui, conducendola verso la zona dove si trovavano le camere dei ricoverati.
Mezz’ora dopo, passarono a riprendere Nikki, risalirono sulla Cherokee e si diressero a casa di Van Slyke, in modo che David potesse recuperare la Volvo.
«Pensi che ci sia qualche probabilità che faccia del male a qualcuno, stanotte?» chiese David alla moglie, indicando la casa di Van Slyke.
«No.»
«Anch’io non credo e l’ultima cosa che desidero è ritornare là dentro. Andiamo dai miei, sono esausto.» David scese dalla Cherokee e disse ad Angela: «Va’ avanti tu, io ti seguo».
«Forse dovresti telefonare a tua madre», gli consigliò lei. «Sono sicura che è fuori di sé dalla preoccupazione.»
Lui salì sulla Volvo e mise in moto. Poi, guardando il furgoncino di Calhoun, davanti a lui, scosse la testa.
Quando arrivarono sulla strada principale, prese il telefono cellulare e, prima di chiamare sua madre, telefonò alla polizia di Stato, spiegando che voleva segnalare un caso molto grave che riguardava diversi omicidi e una faccenda di radiazioni mortali al Bartlet Community Hospital…