Martedì 19 ottobre
Con grande disappunto di David e Angela, la mattina dopo pioveva ancora, ma per fortuna Nikki stava molto meglio. Non aveva più febbre e il mal di gola era sparito con la somministrazione di antibiotici.
«Voglio andare a casa», ripeté appena rivide i genitori.
«Non abbiamo ancora parlato con il dottor Pilsner», le ricordò David, «ma lo faremo al più presto, abbi pazienza.»
Poi Angela si recò al laboratorio, mentre David passò dalla stanza delle infermiere per controllare la cartella clinica di Marjorie. Pensava di dimetterla quel giorno stesso, ma cambiò idea appena entrò in camera sua.
«Marjorie, che cosa succede?» le domandò, nel vederla in uno stato letargico. Le toccò la fronte e le braccia con il dorso della mano: scottava.
Alle sue domande insistenti, lei rispose con un borbottio appena intellegibile. Aveva l’aspetto di una persona drogata, anche se apparentemente non provava alcun dolore.
Notando che respirava a fatica, David la auscultò attentamente e rilevò i sintomi di una congestione. Poi controllò la gamba afflitta da flebite e osservò che il problema era risolto. Dopo una visita generale, che non rivelò niente di particolare, corse dalle infermiere e prescrisse tutta una serie di analisi.
Il primo risultato ad arrivare dal laboratorio fu quello del conteggio dei globuli nel sangue, che servì solo ad aumentare le sue perplessità. Il livello dei globuli bianchi, sceso regolarmente con la guarigione dalla flebite, anche dopo aveva continuato a scendere e si trovava ora al di sotto della normalità.
David si grattò la testa. Una quantità così bassa di globuli bianchi contrastava con il quadro clinico della paziente, che faceva pensare a una polmonite. David tornò ad auscultare Marjorie, per assicurarsi che la congestione polmonare ci fosse veramente, poi tornò nella stanza delle infermiere, dove intanto erano arrivati i risultati delle altre analisi: tutti normali.
Pensò a qualche esame più specifico, ma dopo la lavata di capo di Kelley era riluttante a farlo, perché avrebbe dovuto richiederli esternamente al CMV.
Si mise allora a sfogliare il prontuario dei farmaci, alla ricerca di un antibiotico specifico contro un’infezione da batteri gram-negativi, che era la cosa che temeva di più in quel momento. Quando lo trovò, sentì rinascere in sé la fiducia. Scrisse le prescrizioni necessarie, oltre a un ordine esplicito di essere chiamato immediatamente nel caso di un mutamento delle condizioni di Marjorie, quindi si diresse verso il suo ambulatorio.
Quel giorno spettava ad Angela svolgere gli esami istologici urgenti durante gli interventi chirurgici. Aveva sempre trovato quel compito particolarmente esasperante, visto che sapeva che, mentre lei lavorava, il paziente rimaneva sotto anestesia in attesa di conoscere il verdetto della biopsia.
Il lavoro veniva svolto in un piccolo laboratorio accanto alla sala operatoria, un po’ isolato e frequentato molto di rado dal personale del reparto di chirurgia. Angela lavorò intensamente e con molta concentrazione e, quando la porta si aprì alle sue spalle, non si accorse che qualcuno era entrato nel locale, fino a quando non sentì una voce dire: «Ebbene, tesoro, come va?»
Angela sobbalzò e sollevò di colpo la testa, mentre una scarica di adrenalina le correva per tutto il corpo, e si ritrovò davanti il viso sorridente del dottor Wadley. Detestava sentirsi chiamare «tesoro» da chiunque, tranne forse da David, e non le piaceva essere spiata.
«Qualche problema?» le domandò Wadley.
«No», rispose lei seccamente.
«Mi faccia dare un’occhiata», le disse lui, avvicinandosi al microscopio. «Di quale caso si tratta?»
Angela gli cedette la sedia e gli diede succinte spiegazioni. Lui guardò il vetrino, poi si alzò.
Rimasero per un momento a parlare del vetrino e concordarono su una diagnosi benigna.
«Più tardi la voglio vedere nel mio studio», disse Wadley, facendole l’occhiolino.
Angela annuì, ignorando quel gesto, poi si voltò e, mentre stava per sedersi, sentì la mano di Wadley toccarle il sedere e lui aggiungere, prima di uscire dal laboratorio: «E non lavori troppo, tesoro!»
Tutto era accaduto talmente in fretta che Angela non fu in grado di reagire. Ma questa volta non c’erano dubbi, non si era trattato di un gesto involontario, ed ebbe così la conferma che non lo era stato nemmeno quello del giorno prima.
Per qualche minuto rimase seduta a tremare per l’indignazione e la confusione. Si chiedeva che cosa avesse incoraggiato quell’improvvisa sfacciataggine; di certo lei non aveva cambiato il proprio comportamento in quegli ultimi giorni. Che cosa doveva fare? Non poteva rimanere lì seduta e permettere che la cosa continuasse, sarebbe stato un invito esplicito.
Decise di avere due possibilità. Poteva affrontare direttamente il dottor Wadley oppure rivolgersi al direttore medico, Michael Caldwell. Ma poi pensò al capo del personale, il dottor Cantor. Magari avrebbe potuto andare da lui.
Sospirò. Né Caldwell né Cantor le sembravano in un caso simile le autorità adatte a cui rivolgersi. Erano entrambi maschilisti e lei si ricordava la loro reazione la prima volta che si erano visti. Caldwell era sembrato scioccato che le donne potessero fare i patologi e Cantor si era lasciato andare a quell’osservazione idiota sulle sue compagne «racchie» alla facoltà di Medicina.
Pensò di nuovo di affrontare direttamente Wadley, ma anche questa alternativa non l’attirava.
Il ronzio rauco del citofono la fece sussultare, riportandola alla realtà. «Dottoressa Wilson», disse la voce della caposala, «stanno aspettando i risultati della biopsia alla sala operatoria numero tre.»
Quella mattina, David trovò ancora più difficile concentrarsi sui problemi dei suoi pazienti, rispetto al pomeriggio precedente. Non solo era ancora sottosopra per l’incontro con Kelley, ma si preoccupava per le condizioni di Marjorie Kleber.
A metà mattinata ricevette John Tarlow, il paziente affetto da leucemia, che aveva fatto passare anche se non aveva un appuntamento perché si trattava di un caso di emergenza. Soltanto il giorno prima lo avrebbe mandato al pronto soccorso, ma dopo la lavata di capo di Kelley non se la sentiva.
John aveva mangiato dei frutti di mare crudi, la sera precedente, e ora stava malissimo, con vomito e diarrea. Era disidratato e soffriva di coliche addominali.
David decise di ricoverarlo immediatamente e ordinò una serie di analisi per scoprire la causa dei suoi sintomi. Inoltre, gli prescrisse una fleboclisi per reidratarlo. Per il momento, decise di non ricorrere agli antibiotici, preferendo attendere di sapere di che cosa si trattasse. Poteva essere un’infezione batterica o una reazione dell’organismo alle tossine; un’intossicazione alimentare, in parole povere.
Poco prima delle undici, Traynor ricevette la cattiva notizia dalla sua segretaria, Collette: Jeb Wiggins aveva nuovamente riunito il consiglio comunale e la richiesta di autorizzazione per costruire il garage, che Traynor era riuscito a far mettere un’altra volta all’ordine del giorno, non era stata accolta. Ormai, fino alla primavera seguente, non sarebbe stato possibile tentare ancora.
«Maledizione», tuonò Traynor, battendo rabbiosamente entrambi i pugni sul tavolo. «Vorrei poterlo prendere per il collo e stringere fino a quando npn diventa blu!»
Collette, ormai abituata alile escandescenze del suo capo, non fece una piega e si limitò a uscire con discrezione dalla stanza. Traynor si mise a passeggiare avanti e indietro davanti alla scrivania. Non riusciva a capire come mai il consiglio comunale non vedesse più in là del proprio naso. Era evidente che l’ospedale era l’azienda più grande della città ed era altrettanto evidente che aveva un assoluto bisogno di quel garage.
Incapace di continuare a lavorare, afferrò impermeabile, cappello e ombrello e si precipitò fuori. Se non avrebbero potuto avere un garage, avrebbe almeno ispezionato di persona l’illuminazione dei parcheggi; non voleva rischiare altre aggressioni.
Trovò Werner Van Slyke nello stanzino privo di finestre che fungeva da sede dell’ufficio tecnico. Come al solito, si sentiva piuttosto a disagio in sua presenza: quell’uomo era troppo tranquillo, troppo solitario e anche un po’ sciatto. Per di più, lo trovava fisicamente minaccioso, essendo più alto di lui di parecchi centimetri e molto più robusto, con i muscoli ben sviluppati, come se nel tempo Ubero praticasse il sollevamento pesi.
«Voglio vedere l’illuminazione dei parcheggi», gli disse.
«Adesso?» chiese Van Slyke, senza dare nessuna intonazione alla voce, come se non fosse una domanda.
«Ho un po’ di tempo libero», spiegò Traynor, «voglio assicurarmi che sia adeguata.»
Van Slyke si mise addosso un impermeabile giallo e uscì dall’ufficio. Passò da un lampione all’altro, indicandoli senza parlare, e Traynor lo seguì, annuendo davanti a ognuno. Mentre procedevano lungo il parcheggio inferiore, Traynor si chiese che cosa facesse Van Slyke quando non lavorava. Non lo si vedeva mai in giro per la città ed era noto che non partecipava alle attività sociali dell’ospedale.
«Tutto bene a casa?» gli domandò, non sopportando quel silenzio.
«Sì.»
«Non ci sono problemi?»
«No.»
Traynor cercò di fargli dire qualcosa di più di quei laconici monosillabi. «Ti piace di più la vita civile, anziché quella militare?»
L’altro alzò le spalle e cominciò a indicare i lampioni del parcheggio superiore. Sembrava che ce ne fossero abbastanza, ma Traynor pensò di passare di lì una sera in macchina, per verificare com’era quando faceva buio.
Mentre stavano ritornando verso l’ospedale, Traynor domandò ancora: «Li impieghi bene i soldi che guadagni?»
«Sì.»
«Penso che tu stia facendo un buon lavoro qui all’ospedale. Sono orgoglioso di te.»
Van Slyke non reagì e Traynor, osservando il suo profilo sotto la pioggia, si chiese come facesse a essere così privo di emozioni, rendendosi conto di non averlo mai capito, nemmeno quando era piccolo. A volte gli riusciva difficile credere che fossero parenti, eppure Werner era il suo unico nipote, il figlio della sua sorella ormai defunta.
Quando raggiunsero il gruppo di alberi che separava i due parcheggi, Traynor si fermò. «Come mai il sentiero non è illuminato?» domandò.
«Nessuno ha detto di illuminare il sentiero», rispose l’altro. Era la prima frase vera e oropria che diceva e Traynor ne fu quasi compiaciuto.
«Penso che un lampione o possano bastare», gli disse e Van Slyke annuì.
Quando se ne andò, Traynor provò un certo sollievo. Si era sempre sentito in colpa per il senso di estraneità che provava nei confronti di quel suo parente, ma Werner era un enigma. D’altronde, considerati i genitori che aveva, non ci si poteva aspettare nient’altro di diverso. La sorella di Traynor, nonostante si chiamasse Sunny, non aveva nulla di solare: era tranquilla e riservata e aveva sofferto di depressione per quasi tutta la vita. Aveva sposato il dottor Werner Van Slyke pur sapendo che era un ubriacone e, come se non bastasse, si era suicidata.
Traynor aveva proposto al nipote di entrare a lavorare all’ospedale e il suo addestramento in marina come motorista si era rivelato utile.
Arrivato davanti all’ufficio di Helen Beaton, Traynor si riscosse da questi pensieri e chiese alla segretaria di essere annunciato.
«Ho cattive notizie», le comunicò non appena fu ricevuto e riferì della decisione del consiglio comunale.
«Spero che non ci siano altre aggressioni», commentò lei, delusa.
«Anch’io. Per fortuna i lampioni costituiranno un deterrente. Ho appena fatto un giro dei parcheggi e ho visto che ce ne sono abbastanza, tranne sul sentiero sotto gli alberi. Ho detto a Van Slyke di aggiungerne un paio.»
«Mi spiace di non averli fatti mettere in tutti e due i parcheggi fin dall’inizio», affermò Helen.
«Come vanno le finanze questo mese?»
«Temevo che me lo chiedessi. Ieri Arnsworth mi ha fornito le cifre di metà mese e non sono buone. Ottobre sarà decisamente peggio di settembre, se la seconda metà del mese andrà come la prima. Gli incentivi sono utili, ma i ricoveri per il CMV continuano a rimanere ben al di sopra del livello previsto. A rendere le cose peggiori, pare che ci siano pazienti più gravi.»
«Allora dovremmo fare maggiore pressione sull’ottimizzazione delle risorse, è l’unica via d’uscita, oltre agli incentivi. Non prevedo altri lasciti, nel prossimo futuro.»
«C’è qualche altra grana della quale ti voglio mettere al corrente», aggiunse Helen. «Il medico numero 91 ha avuto una ricaduta, Robertson lo ha beccato in stato di ubriachezza mentre guidava la macchina sul marciapiede.»
«Mandalo a spasso», decise Traynor senza esitazioni. «I medici alcolizzati mi hanno provocato troppi grattacapi, finora.» Ancora una volta, pensò a quel buono a nulla di suo cognato.
«L’altro problema», continuò Helen Beaton, «è che Sophie Stephangelos, la caposala della sala operatoria, ha scoperto che nell’ultimo anno c’è stata una serie di furti di materiale chirurgico. Pensa che sia stato uno dei chirurghi.»
«E poi che cosa c’è ancora?» chiese Traynor con un sospiro. «A volte penso che gestire un ospedale sia un compito impossibile.»
«Ha un piano per acchiappare il colpevole e vuole la sua approvazione per metterlo in atto.»
«Certo e, se lo prende, gli daremo una lezione che servirà come esempio per tutti.»
Uscendo da una delle due salette per le visite, David si stupì nel vedere che il contenitore sulla porta dell’altra era vuoto.
«Niente cartelle cliniche?»
«È in anticipo», rispose Susan. «Si prenda una pausa.»
David ne approfittò per fare una capatina da Nikki, dove trovò anche Caroline e Arni che erano riusciti a entrare in ospedale anche se non erano accompagnati da nessun adulto.
«Non ci farà avere dei guai, vero, dottor Wilson?» domandò Caroline. In lei la malattia aveva inciso sulla crescita e, nonostante avesse nove anni, ne dimostrava sette od otto.
«No», la rassicurò lui. «Ma come avete fatto a uscire dalla scuola così presto?»
«Per me è stato facile», dichiarò Arni con orgoglio. «La supplente non si accorge affatto di quello che succede.»
David si rivolse a Nikki. «Ho appena parlato con il dottor Pilsner: è d’accordo per dimetterti questo pomeriggio.»
«Bene! E domani posso andare a scuola?»
«Non so, ne parleremo con la mamma.»
Lasciata Nikki, David passò un momento da John Tarlow per assicurarsi che fosse seguito come lui aveva ordinato, poi si fermò nella camera di Marjorie. La speranza che gli antibiotici avessero migliorato le sue condizioni svanì non appena la vide: era praticamente in coma.
Colto dal panico, David l’auscultò nuovamente. La congestione era aumentata, ma questo non giustificava quella condizione clinica. Si precipitò nella stanza delle infermiere, chiedendo come mai non lo avessero chiamato.
«Per che cosa?» domandò Janet Colburn, la caposala.
«Per Marjorie Kleber», gridò David, mentre scriveva una richiesta per ulteriori analisi del sangue e per un’altra schermografia toracica.
Janet sentì parecchie altre infermiere del piano e disse a David che nessuno aveva notato cambiamenti. Aggiunse anche che una delle infermiere era stata nella sua stanza mezz’ora prima e non aveva riferito niente di particolare.
«È impossibile», sbottò David, mentre afferrava il telefono e cominciava a chiamare alcuni colleghi per un consulto: il dottor Clark Mieslich, l’oncologo che seguiva Marjorie, e il dottor Martin Hasselbaum, specialista in malattie infettive, entrambi esterni al CMV, e il neurologo Alan Prichard, che faceva parte del CMV.
Tutti e tre erano disponibili a venire subito. David avvisò Susan di dire ai pazienti che si sarebbero presentati in ambulatorio che ci sarebbe stato un po’ di ritardo.
Dopo avere consultato la cartella clinica e avere visitato Marjorie, i tre specialisti si appartarono con David per discutere il caso, ma avevano appena cominciato a confrontare le loro idee quando un’infermiera gridò dalla stanza della donna: «Ha smesso di respirare!»
David e gli altri medici ritornarono di corsa nella stanza, mentre Janet Colburn chiamava la squadra di rianimazione, che arrivò nel giro di pochi minuti e intubò Marjorie, facendole immediatamente riprendere la respirazione. Il problema era che nessuno sapeva perché avesse smesso di respirare.
Ne stavano discutendo, quando all’improvviso il cuore di Marjorie rallentò e si fermò. Sul monitor si vedeva una linea piatta. La squadra di rianimazione provò a darle una scossa elettrica, nella speranza di riattivare il cuore, ma non ci fu reazione. Riprovarono un’altra volta, ma inutilmente. Allora cominciarono con il massaggio cardiaco.
Lavorarono freneticamente per mezz’ora, provando con ogni metodo che conoscevano, ma non servì a nulla. Un po’ alla volta, lo scoraggiamento s’impadronì di tutti i presenti e alla fine, per consenso generale, Marjorie Kleber venne dichiarata morta.
David era distrutto. Marjorie era entrata in ospedale con un problema relativamente semplice, mentre lui era fuori a divertirsi e adesso era morta.
«È terribile. Era una persona stupenda», affermò il dottor Mieslich.
«Considerata l’anamnesi, se la stava cavando bene», fu il parere del dottor Prichard, «ma la sua malattia era destinata a prendere il sopravvento.»
«Un momento», intervenne David. «Pensate che sia morta di cancro?»
«È ovvio», rispose il dottor Mieslich. «La prima volta che l’ho visitata, il cancro si era già esteso in più punti. Anche se è stata meglio di quanto supponessi, era comunque una donna malata.»
«Ma non c’era alcuna evidenza clinica del suo tumore», obiettò David. «I problemi che hanno portato a questo episodio fatale sembrano suggerire qualche forma di disfunzione del sistema immunitario. Come può farlo risalire al cancro?»
«Il sistema immunitario non controlla la respirazione o il cuore», gli fece osservare il dottor Prichard.
«Ma i globuli bianchi erano sempre meno.»
«Il suo tumore non era evidente, questo è vero», ammise il dottor Mieslich, «ma, se l’aprissimo, suppongo che troveremmo il cancro dappertutto, compreso il cervello. Si ricordi, aveva metastasi estese, quando è stata fatta la prima diagnosi.»
David annuì e il dottor Prichard gli diede una pacca sulla schiena. «Non possiamo sempre farcela», gli disse.
Quando gli altri medici se ne furono andati, David rimase solo nella stanza delle infermiere e si sedette alla scrivania. Si sentiva debole e sconsolato. La tristezza e il senso di colpa per la morte di Marjorie erano ancora più acuti di quanto pensasse. Ormai la conosceva troppo bene e, per rendere le cose più complicate, era la maestra adorata di Nikki. Come glielo avrebbe spiegato?
«Scusi», mormorò Janet Colburn. «C’è Lloyd Kleber, il marito di Marjorie. Vorrebbe parlarle.»
David si alzò, si sentiva intorpidito. Non sapeva per quanto tempo era rimasto in quella stanza. Janet lo indirizzò verso il salotto dei pazienti.!
Lloyd Kleber stava fissando la pioggia che continuava a cadere. Era un uomo sui quarantacinque anni. David vide che aveva gli occhi rossi di pianto e si sentì estremamente vicino a lui. Non solo aveva perduto la moglie, ma ora aveva l’intera responsabilità di due bambini che erano rimasti senza la madre.
«Mi dispiace», mormorò David.
«Grazie.» Lloyd combatteva per trattenere le lacrime. «E grazie per essersi preso cura di Marjorie. Apprezzava veramente la dedizione con cui la curava.»
David annuì, cercando di dire cose che riflettessero i suoi sentimenti. In momenti come quello non si sentiva mai adeguato, ma fece il meglio che poté.
Infine, si arrischiò a domandare il permesso di fare un’autopsia. Sapeva che era chiedere troppo, ma era profondamente turbato dal deterioramento rapidissimo delle condizioni di Marjorie e aveva un disperato bisogno di capire.
«Se può servire in qualche modo ad altri, sono sicuro che Marjorie acconsentirebbe», rispose Lloyd, dando il suo consenso.
David rimase ancora qualche minuto a parlare con lui, poi si diresse al laboratorio, dove trovò Angela molto contenta di vederlo. Lei, però, notò subito la sua espressione tirata.
«Che cosa c’è che non va?» gli chiese ansiosa, prendendolo per mano.
Mentre David raccontò l’accaduto, fu costretto a fermarsi più volte per controllare l’emozione.
«Come mi dispiace!» mormorò lei, abbracciandolo.
«Che dottore sono!» si prese in giro David, lottando contro le lacrime. «Ormai dovrei essermi fatto il callo a questo genere di cose.»
«La tua sensibilità fa parte del tuo fascino», lo rassicurò Angela. «E ti rende un buon medico.»
«Il signor Kleber ha dato il suo consenso all’autopsia», la informò lui. «Sono contento, dal momento che non ho la minima idea del perché sia morta, soprattutto così in fretta. Gli specialisti che ho chiamato a consulto pensano che sia per il cancro. Forse è così, ma vorrei una conferma. Potresti occupartene?»
«Certo, ma per favore non deprimerti troppo. Non è stata colpa tua.»
«Vediamo i risultati dell’autopsia. Che cosa dirò a Nikki?»
«Sarà difficile», ammise Angela.
David ritornò all’ambulatorio per cercare di visitare tutti i pazienti in attesa, ma appena lo vide Susan gli disse che nella sua stanza privata c’era Charles Kelley che lo aspettava.
Temendo che quella visita avesse qualcosa a che fare con la morte di Marjorie, David entrò e trovò Kelley che passeggiava nervosamente avanti e indietro. Quando lo vide arrivare, si fermò e David notò subito che era in collera.
«Trovo il suo comportamento particolarmente irritante», disse infatti.
«Di che cosa sta parlando?» chiese David.
«Non più tardi di ieri ho parlato con lei di ottimizzazione delle risorse. Pensavo di essere stato chiaro e credevo che lei avesse capito. Poi oggi ha ordinato irresponsabilmente due consulti con specialisti esterni al CMV e per di più per una paziente terminale. Questo tipo di comportamento mi fa pensare che lei non capisca qual è il problema maggiore della medicina, oggi: le spese superflue.»
Nello stato emotivo in cui si trovava, David dovette lottare per mantenere la calma. «Aspetti un minuto. Vorrei che mi spiegasse perché quei consulti erano superflui.»
«Oh, Signore! È ovvio: il decorso della paziente non è stato alterato, stava morendo e ha continuato a morire. Tutti devono morire, prima o poi. Non bisognerebbe buttare via soldi e altre risorse per coltivare atteggiamenti melodrammatici e per di più senza speranza.»
David fissò gli occhi azzurri di Kelley, non sapendo che cosa dire. Era ammutolito per lo stupore.
Sperando di riuscire a evitare Wadley, Angela si recò dal dottor Paul Darnell, nel suo stanzino privo di finestre e gli chiese quale fosse la prassi per le autopsie.
«È una questione che devi discutere con Wadley», le rispose il collega. «Mi spiace.»
Riluttante, Angela si rivolse a Wadley.
«Che cosa posso fare per lei, tesoro?» le chiese Wadley. Il suo sorriso, che un tempo Angela aveva considerato paterno, ora le sembrava lascivo.
Sobbalzando nel sentirsi chiamare «tesoro», Angela ingoiò l’orgoglio e domandò quali fossero le procedure per fare un’autopsia.
«Non ne facciamo», le spiegò Wadley. «Se la richiede il medico legale, allora si manda il cadavere a Burlington. Costa troppo fare autopsie e il contratto con il CMV non le prevede.»
«E se è la famiglia a richiederla?» Angela sapeva che non era esattamente così, nel caso Kleber.
«Se vogliono buttare via ottocentonovanta dollari, allora li accontentiamo. Altrimenti, non la facciamo.»
Angela annuì e se ne andò. Anziché tornare al lavoro, arrivò fino agli ambulatori ed entrò in quello di David, rimanendo colpita da quanti pazienti stavano aspettando nella sala d’attesa. Tutte le sedie erano occupate e alcuni erano in piedi. Aspettò che David uscisse da una delle salette per le visite e gli comunicò che non poteva eseguire l’autopsia su Marjorie Kleber.
«Perché?» volle sapere lui.
Lei gli riferì ciò che le aveva spiegato Wadley.
David scosse la testa, frustrato, e sibilò: «La mia opinione positiva su questo posto sta mutando rapidissimamente», poi le raccontò dell’incontro con Kelley.
«È ridicolo», disse Angela, incredula. «Vuoi dire che secondo lui i consulti erano superflui perché la paziente è morta? Pazzesco.»
«Che cosa vuoi che ti dica?» David scosse ancora la testa.
Angela non sapeva più che dire. Quel Kelley le sembrava un pericoloso incompetente, ma non poteva far perdere tempo a David, continuando a parlargliene. Fece un cenno verso la sala d’aspetto e gli disse: «Hai un ambulatorio pieno di pazienti. Quando pensi di finire?»
«Non ne ho la minima idea.»
«Potrei portare a casa Nikki e poi tu mi telefoni quando hai finito, così ti vengo a prendere.»
«Buona idea.»
«Resisti, caro. Dopo parleremo.»
Terminato il suo lavoro, Angela passò a prendere Nikki e la portò a casa, dove l’incontro con Rusty fu molto movimentato. Alle sette e un quarto telefonò David e, sistemata Nikki davanti al televisore, Angela tornò all’ospedale, guidando pianissimo a causa della pioggia molto violenta.
«Che serata!» esclamò David nel salire in macchina.
«Che giornata», ribatté lei, dirigendosi di nuovo verso la città. «Soprattutto per te. Come va?»
«Ce la faccio. Mi è stato d’aiuto avere avuto così tanto da fare. Ma adesso devo affrontare la realtà: che cosa racconto a Nikki?»
«Devi semplicemente dirle la verità.»
«Più facile a dirsi che a farsi. E se mi chiede perché è morta? Il problema è che non lo so nemmeno io, sia in senso fisico sia metafisico.»
«Ho pensato parecchio a ciò che ha detto Kelley», disse Angela. «Mi pare che mostri un’abissale incomprensione dei fondamenti dell’assistenza medica.»
«Questo è un eufemismo», obiettò David con una breve risata sarcastica. «La cosa più spaventosa è che occupa un posto di responsabilità. I burocrati come lui s’insinuano nella pratica medica sotto le sembianze della riforma sanitaria. Purtroppo la gente non ne ha idea.»
«Ho avuto un altro piacevole incontro con Wadley, oggi», cambiò argomento Angela.
«Quel bastardo! Che cosa ha fatto ancora?»
«Mi ha chiamata un po’ di volte ‘tesoro’ e mi ha toccato il sedere.»
«Buon Dio! Che stronzo insensibile!»
«Dovrei fare qualcosa e vorrei proprio sapere che cosa.»
«Credo che dovresti parlarne al dottor Cantor», le consigliò David. «Ci ho pensato un po’. Per lo meno è un medico e non solo un burocrate.»
«Il suo commento sulle ‘ragazze’, come le ha chiamate lui, che frequentavano la facoltà di Medicina non mi ispira molto», osservò Angela.
Fecero una corsa dalla macchina all’ingresso posteriore per cercare di bagnarsi il meno possibile. Quando entrarono in casa, David accese il camino per rallegrare un po’ l’ambiente, mentre Angela riscaldava la cena che aveva già preparato. Scendendo in cantina a prendere la legna, oltre a sentire il solito cattivo odore, David notò che c’erano alcune infiltrazioni d’acqua fra le pietre delle fondamenta e si consolò pensando che, per fortuna, il pavimento era in terra battuta e avrebbe assorbito l’eccesso di umidità.
Dopo avere cenato, si mise accanto a Nikki che stava guardando la televisione. Essendo ammalata, lui e Angela erano meno rigidi sul tempo che poteva passare a guardarla. Dopo avere raccolto il coraggio necessario, durante un’interruzione pubblicitaria, David mise un braccio intorno alle spalle della figlia e mormorò: «Ho qualcosa da dirti».
«Che cosa?» chiese lei, che stava accarezzando Rusty accucciato accanto a lei sul divano.
«La tua maestra, Marjorie Kleber, è morta oggi», le disse David con dolcezza.
La bambina rimase in silenzio per qualche istante, poi guardò Rusty, facendo finta di preoccuparsi per un nodo di pelo che aveva dietro l’orecchio.
«Questo mi rende molto triste», continuò David, «soprattutto perché ero il suo medico. Sono certo che anche per te è la stessa cosa.»
«No», replicò in fretta Nikki, scuotendo la testa. Si scostò un ciuffo di capelli dagli occhi e fissò di nuovo il televisore, come se fosse interessata alla pubblicità.
«Non c’è niente di male nell’essere tristi», aggiunse lui, e stava per mettersi a parlare di come ci si può sentire quando si perdono le persone che ci sono care, quando Nikki gli si gettò addosso, inondandolo di lacrime e stringendolo forte forte.
David le diede qualche colpetto affettuoso sulla schiena e continuò a parlare, cercando di rassicurarla.
Angela si avvicinò, scansò Rusty e si sedette accanto alla figlia, stringendo lei e David in un unico abbraccio. Rimasero così tutti a tre, cullandosi piano, mentre la pioggia continuava a battere contro le finestre.