Mercoledì 30 giugno
Sia nel reparto di medicina sia in quello di patologia, le cerimonie per la fine dell’anno d’internato erano piuttosto informali. Dopo avere ritirato i loro attestati, David e Angela rinunciarono alle festicciole programmate per il pomeriggio e scapparono a casa. Quello era il giorno in cui avrebbero lasciato Boston per cominciare la loro nuova vita a Bartlet.
«Sei eccitata?» chiese David a Nikki.
«Non vedo l’ora di rivedere Rusty», rispose lei.
Per il trasloco avevano noleggiato un camioncino. Dopo qualche viaggio su e giù per le scale, tutti i loro averi vennero stipati nelle due vetture e Angela si mise al volante della famigliare, mentre David guidava il camioncino.
Per la prima metà del viaggio, Nikki preferì stare con il padre che ne approfittò per parlare con lei delle sue aspettative sulla sua nuova scuola e le chiese se avrebbe sentito la mancanza degli amici.
«Qualcuno mi mancherà, altri no», rispose lei, «ma credo che me la caverò.»
David sorrise sentendo quel saggio commento, ripromettendosi di riferirlo alla moglie.
Si fermarono a mangiare poco prima del confine del New Hampshire, ma fecero in fretta, desiderosi di arrivare al più presto nella loro nuova casa.
«Com’è bello abbandonare la città frenetica e ammalata di criminalità», sospirò Angela, mentre si riavvicinavano alle macchine. «A questo punto, non m’importa se non torneremo più indietro.»
«Io non lo so», replicò David scherzando. «Mi mancheranno le sirene, gli spari, i vetri che vanno in frantumi, le grida di aiuto. La vita di campagna dev’essere noiosa!»
Moglie e figlia lo tempestarono scherzosamente di pugni.
Per il resto del viaggio Nikki rimase con Angela.
Più risalivano verso nord, più il tempo migliorava. A Boston era caldissimo, umido e afoso, mentre nel Vermont il clima era più asciutto e l’aria era tersa.
Bartlet li accolse con l’aria serena di quel principio d’estate, i fiori su quasi tutti i davanzali, le strade quasi deserte, come se tutti stessero facendo la siesta.
«Possiamo fermarci a prendere Rusty?» domandò Nikki mentre si avvicinavano al negozio di ferramenta.
«Cerchiamo prima di sistemarci un pochino», rispose Angela. «Dovremo costruirgli un posto dove stare, finché non si abitua a vivere in casa.»
Percorso il vialetto d’ingresso, David e Angela parcheggiarono i loro veicoli fianco a fianco. Adesso che la casa era ufficialmente loro, se ne sentivano ancora più intimoriti che durante la prima visita.
«È bellissima, ma credo che ci vorranno più interventi del previsto», osservò David, indicando alla moglie qualche pezzo di decorazione che si era staccata dal cornicione.
«Oh, non mi preoccupo: ecco perché ho sposato uno che ci sa fare con le riparazioni», lo stuzzicò lei.
David rise. «Ti farò ricredere!»
«Cercherò di non avere pregiudizi», dichiarò Angela, divertita.
Aprirono con la chiave che avevano ricevuto per posta e la casa apparve loro molto diversa, adesso che i mobili degli Hodges erano stati completamente sgomberati, tranne un tavolo da cucina e uno sgabello.
«Fa pensare a un salone da ballo», disse David.
«C’è persino l’eco», notò Nikki, dopo avere gridato la parola «ciao» e averla sentita riecheggiare fra le pareti.
«È così che capisci di essere arrivato nel posto giusto nella tua vita», proferì David facendo sfoggio di un accento strettamente inglese. «Quando la tua casa nuova ha un’eco.»
Tutti e tre attraversarono lentamente l’ingresso e ora che non c’erano più i tappeti i loro passi risuonavano rumorosi sul pavimento di legno. La vastità della casa li impressionava, soprattutto in confronto all’esiguità dell’appartamento di Boston.
Davanti alla grande rampa di scale, pendeva un lampadario imponente. Sulla sinistra c’erano la biblioteca e la sala da pranzo e a destra un enorme soggiorno. Un corridoio centrale portava a una spaziosa cucina che occupava tutta la parte posteriore della casa. Da lì partiva la costruzione a due piani che si collegava con la rimessa, comprendente uno stanzino che fungeva da ingresso posteriore e numerosi altri vani da utilizzare come dispensa e depositi per gli attrezzi. Una scala a chiocciola portava al secondo piano.
Tornati davanti alla rampa di scale principale, i Wilson salirono al piano superiore. C’erano due camere da letto più piccole con i bagni contigui e poi quella principale, proprio sopra la cucina.
Nel corridoio centrale si apriva una porta che dava su una stretta scala; da lì salirono fino al terzo piano, dove trovarono quattro camere prive di riscaldamento.
«Un bel po’ di spazio», commentò David.
«Quale sarà la mia camera?» domandò Nikki.
«Quella che vuoi», le rispose la madre.
«Quella che dà sullo stagno!» esclamò la bambina.
Scesero di nuovo al secondo piano, entrando nella stanza indicata da Nikki, e si misero a discutere su come disporre i mobili, compresa la scrivania che ancora non possedevano.
«Ehi, ragazzi», s’impose Angela, «abbiamo già cincischiato fin troppo. È ora di scaricare.»
David le rispose con un saluto militare.
Finito di scaricare, non senza qualche difficoltà per i mobili più grossi e pesanti, David e Angela si misero a rimirare il soggiorno, osservando in particolare il tappeto che, nell’appartamento di Boston, andava da una parete all’altra e qui sembrava poco più di uno scendiletto.
«Sarebbe buffo, se non fosse pietoso», fu il commento di Angela a cui anche il divano, le poltrone consunte e lo striminzito tavolino da fumo, parevano indegni dell’eleganza della casa.
«Trasandato, molto chic», la rincuorò David. «Un arredamento minimalista. Se comparisse su una rivista di architettura, tutti cercherebbero di imitarlo.»
«E Rusty?» ricordò loro Nikki.
«Andiamo a recuperarlo. Te lo meriti, ci sei stata di grande aiuto. Tu vieni, Angela?»
«No, preferisco cominciare a mettere un po’ in ordine, soprattutto in cucina.»
«Pensavo che avremmo mangiato al ristorante, stasera.»
«No, voglio mangiare nella nostra nuova casa», decise lei e si diede subito da fare a sistemare pentole e stoviglie.
Più tardi, Nikki ritornò stringendosi il cucciolo al petto. Era cresciuto notevolmente e aveva già le zampe grosse quanto i pugni della sua padroncina.
«Diventerà un bel cagnone», pronosticò David e si mise all’opera con la figlia per costruirgli una cuccia nello stanzino dietro la cucina, mentre Angela preparava la cena.
Nikki mangiò prima dei genitori, a malincuore, ma senza fare obiezioni perché si rendeva conto di essere stanchissima. Fatto qualche esercizio respiratorio, si lasciò mettere a letto.
«Adesso ho una sorpresa per te», rivelò Angela al marito, mentre ritornavano in cucina. Lo prese per mano, lo portò davanti al frigorifero e lo aprì per estrarne una bottiglia di Chardonnay.
«Uau!» esclamò lui, esaminando l’etichetta. «Non è la solita robetta economica a cui siamo abituati.»
«Non direi.» Angela prese anche un piatto che conteneva due costolette di vitello.
«Ho l’impressione che tu voglia prendermi per la gola», disse David.
«Impressione esatta», confermò Angela, raggiante. «Insalata, carciofi, riso integrale e costolette di vitello. Più il miglior Chardonnay che sono riuscita a trovare.»
David arrosti la carne sul barbecue che si trovava sulla terrazza della biblioteca e, quando la portò in casa, Angela aveva disposto il resto del cibo sulla tavola della sala da pranzo, dove aveva acceso due candele che attenuavano appena l’oscurità, nascondendo il disordine che ancora imperversava tutt’intorno.
Si sedettero alle due estremità della tavola e mangiarono in silenzio, guardandosi negli occhi. Erano profondamente colpiti dall’atmosfera romantica che li avvolgeva e si resero conto che, negli ultimi anni, la tenerezza e la seduzione non avevano avuto molto spazio nella loro vita, per esigenze lavorative e le preoccupazioni per la salute di Nikki.
Rimasero seduti a lungo, anche dopo avere finito la cena, continuando a guardarsi e ad ascoltare la sinfonia di suoni che entrava dalle finestre aperte. Quella prima notte estiva nel Vermont era un momento magico e volevano assaporarlo fino in fondo.
Poi il desiderio reciproco li sospinse nel soggiorno completamente al buio, dove si gettarono sul divano, abbracciandosi e baciandosi appassionatamente. Si spogliarono, aiutandosi a vicenda e, con un coro di grilli come sottofondo, fecero l’amore nella loro nuova casa.
Il mattino dopo, la confusione era al massimo: il cane abbaiava, reclamando il cibo, Nikki si lamentava perché non trovava i suoi jeans preferiti e David impazziva a cercare la lista degli oggetti chiusi negli scatoloni.
«Basta», gridò Angela, la cui pazienza era arrivata al limite. «Non voglio più sentire nessuno urlare o lamentarsi.»
Per un momento, persino Rusty tacque.
«Calmati, tesoro», disse David. «Innervosirsi non risolve niente.»
«E non dirmi che non mi devo innervosire!»
«Va bene, chiamerò la baby sitter.»
«Non sono una bambina piccola», si lamentò Nikki.
«Oh, aiuto!» Angela alzò gli occhi al cielo.
Alice Doherty si rivelò un vero dono del Signore. Aveva un aspetto da nonnina, con i capelli bianchi, l’espressione calorosa e gli occhi vivaci. Era dotata di un’energia sorprendente per una donna di settantanove anni e certo non le mancavano comprensione e pazienza, doti necessarie con una bambina testarda e malata come Nikki. Per di più, si affezionò subito a Rusty, cosa che le attirò le simpatie della bimba.
Come prima cosa, Angela le insegnò gli esercizi di drenaggio bronchiale di Nikki, che Alice imparò subito.
«Non preoccupatevi di nulla», disse ad Angela e a David che stavano uscendo dalla porta sul retro, mentre Nikki agitava una zampa di Rusty in segno di saluto.
«Voglio andare a lavorare in bici», annunciò David alla moglie.
«Parli sul serio?»
«Certo.»
«Serviti pure», lo incitò lei, che intanto saliva sulla famigliare e accendeva il motore.
Mentre si avvicinava all’ ospedale, Angela si sentiva un po’ nervosa: pur essendo sicura delle proprie capacità professionali, quello era pur sempre il suo primo vero lavoro. Facendo appello a tutto il suo coraggio e dicendosi che i timori del primo giorno sono una cosa naturale, si presentò nell’ufficio di Michael Caldwell, che la portò subito da Helen Beaton. Il presidente dell’ospedale era impegnato in una riunione con il dottor Delbert Cantor, capo del personale medico, ma la interruppe per darle il benvenuto e la fece entrare nel suo ufficio perché conoscesse subito anche il dottor Cantor.
Mentre le stringeva la mano, questi la squadrò sfrontatamente da capo a piedi, commentando: «Ehi, ehi, lei non assomiglia di certo alle poche ragazze che frequentavano la facoltà di medicina insieme a me, erano tutte racchie».
Angela gli rivolse un sorriso di circostanza. Avrebbe voluto dire che nel suo corso era l’opposto: erano gli uomini a essere tutti bruttissimi, ma si trattenne. Il modo di fare di quel tipo era offensivo, apparteneva chiaramente alla minoranza di medici vecchio stampo che con le colleghe donne non si trovano a proprio agio.
«Siamo davvero felici che lei si sia unita alla nostra grande famiglia», le disse Helen Beaton nell’accomiatarsi. «Sono sicura che troverà questa esperienza stimolante e soddisfacente.»
Caldwell l’accompagnò poi al laboratorio clinico. Non appena la vide entrare, il dottor Wadley si alzò in piedi e l’abbracciò come fossero vecchi amici.
«Benvenuta nella nostra squadra», l’accolse con un sorriso caloroso. «Erano settimane che aspettavo questo giorno!»
«Io posso andare, vedo che è in buone mani», si accomiatò Caldwell.
«È stato proprio un bel colpo reclutare un patologo con un simile talento», lo lodò Wadley. «Dovresti ricevere un encomio ufficiale.»
Caldwell era raggiante.
«Un brav’uomo», commentò poi Wadley, guardandolo allontanarsi.
Angela annuì, ma tutta la sua attenzione era concentrata sul suo diretto superiore. Anche se era stupita, come la prima volta, dalla rassomiglianza con suo padre, adesso riusciva a cogliere anche tutte le differenze. L’espansività di Wadley era ben lontana dal distaccato riserbo di suo padre e le aveva fatto piacere il caloroso benvenuto che aveva ricevuto. Il primo giorno di lavoro, era rassicurante sentirsi così desiderati.
«Prima di tutto, lasci che le mostri il suo ufficio.» Wadley si fregò le mani, eccitato come un bambino, poi aprì una porta che dalla sua stanza dava direttamente in un’altra, destinata a lei. Sembrava essere stata imbiancata e risistemata di recente ed era completamente bianca: pareti, scrivania, tutto quanto.
«Le piace?»
«È meravigliosa.»
Wadley indicò la porta che la collegava alla sua, dicendo: «Sarà sempre aperta, in senso letterale e figurato».
«Meraviglioso», ripeté Angela.
«Adesso facciamo di nuovo il giro del laboratorio. Lo ha già visto una volta, ma voglio presentarla al personale.» Così dicendo, Wadley indossò un lungo camice bianco.
Nel quarto d’ora che seguì, Angela conobbe più persone di quante potesse sperare di ricordarsi. Alla fine della visita, Wadley la fece fermare in una stanza priva di finestre che apparteneva al dottor Paul Darnell, il collega patologo.
Darnell era piccolo e indossava abiti sgualciti, coperti da un camice pieno zeppo di macchie che evidentemente si era procurato preparando i vetrini. Sembrava un tipo gradevole, ma semplice e riservato.
Al ritorno nel proprio ufficio, Wadley spiegò ad Angela i doveri e le responsabilità che la attendevano e concluse affermando con sincero entusiasmo: «Cercherò di fare di lei uno dei migliori patologi del Paese».
David si era proprio goduto quella pedalata di più di cinque chilometri. La tersa aria mattutina era deliziosa e gli uccellini si facevano sentire più di quanto si fosse immaginato. Inoltre, aveva intravisto parecchi cervi su un prato cosparso di rugiada, subito dopo avere attraversato il fiume Roaring.
Arrivato sul posto di lavoro, scoprì di essere in anticipo: Charles Kelley non si fece vivo fino alle nove.
«Accidenti, lei ha proprio voglia di cominciare!» esclamò quando lo vide nella sala d’attesa del CMV. «Venga!»
Lo introdusse nel suo ufficio e gli fece riempire tutta una serie di moduli. Mentre David scriveva, gli decantò i vantaggi di quel lavoro. «Avrà colleghi altamente preparati e servizi eccellenti. Che cosa potrebbe desiderare di più?»
«Non saprei», ammise David.
Quando Kelley l’accompagnò nell’ambulatorio, David ammirò il proprio nome inciso su una targa, ma si stupì nel vedere che sopra il suo era scritto DOTTOR KEVIN YANSEN.
«È lo stesso ambulatorio?» chiese sottovoce raggiungendo Kelley. Nella sala d’attesa c’erano sei pazienti.
«Lo stesso», rispose Kelley.
David venne presentato all’impiegata che avrebbe avuto in comune con il dottor Yansen, Anne Withington, poi fu accompagnato nella sua stanza. Era quella che era stata un tempo del dottor Portland, imbiancata di fresco e con una nuova moquette.
«Che cosa gliene pare?» gli chiese Kelley sorridendo soddisfatto.
«Molto bella, ma dov’è andato il dottor Portland?»
Prima che Kelley potesse rispondere, irruppe nella stanza, già con la mano tesa, il dottor Yansen, che era stato avvertito da Anne. Ignorando Kelley, si presentò, propose a David di darsi del tu e gli assestò una pacca sulle spalle. «Benvenuto! È bello avere anche te nella nostra squadra. Giochi a pallacanestro o a tennis?»
«L’uno e l’altro, ma è un po’ che non gioco.»
«Ti rimetteremo in forma.»
«Sei un ortopedico?» domandò David al collega, un uomo tarchiato con un viso dall’espressione aggressiva e un paio di occhiali dalle lenti spesse che poggiavano sul naso leggermente aquilino. Era più piccolo di David di almeno una decina di centimetri e accanto a Kelley sembrava quasi un nano.
«Ortopedico?» rise Kevin. «Nemmeno per sogno! Sono dalla parte opposta del campo: oftalmologo.»
«Dov’è il dottor Portland?» chiese ancora David.
Kevin guardò Kelley. «Non gliel’ha ancora detto?»
«Non ne ho avuto modo», rispose lui, allargando le mani con le palme all’insù. «È appena arrivato.»
«Purtroppo il dottor Portland non è più con noi», spiegò Kevin.
«Ha lasciato l’équipe?»
«In un certo senso.»
«Mi spiace doverle dire che il dottor Portland si è suicidato lo scorso maggio», lo informò infine Kelley.
«Proprio in questa stanza», aggiunse Kevin, «seduto a quella scrivania.» Poi mimò con la mano destra una pistola e, appoggiando l’indice alla fronte, disse: «Bang! Si è sparato. Per questo abbiamo imbiancato le pareti e cambiato la moquette.»
David si sentì la bocca arida. Fissò la parete bianca dietro la scrivania, provando a immaginare come doveva essere dopo l’incidente. «Tremendo. Era sposato?»
«Purtroppo sì», rispose Kevin annuendo con il capo. «Moglie e due bambini, una vera tragedia. Sapevo che c’era qualcosa che non andava; infatti, aveva smesso di giocare a pallacanestro, il sabato mattina.»
«Non aveva l’aria di stare bene, l’ultima volta che l’ho visto», osservò David. «Era malato? Sembrava essere dimagrito moltissimo.» Sospiro. «Accidenti, non si può mai sapere che cosa ci riserva la vita.»
«Passiamo a un argomento un po’ meno spiacevole», ribatté Kelley dopo essersi schiarito la gola. «L’ho presa in parola, dottor Wilson, abbiamo fissato delle visite per stamattina. Se la sente?»
«Sì, certo.»
Kevin gli fece gli auguri e tornò nel suo studio e Kelley gli presentò Susan Beardslee, l’infermiera con cui avrebbe lavorato. Era una donna attraente, sui venticinque anni, dai corti capelli scuri. Ciò che a David piacque subito in lei fu la personalità vivace piena di entusiasmo.
«Il suo primo paziente è già nella saletta delle visite», gli annunciò con allegria, porgendogli la cartella clinica. «Quando ha bisogno di me, mi chiami al citofono. Intanto faccio preparare il prossimo paziente.» Poi scomparve nell’altro ambulatorio.
«Credo che a questo punto sia ora che me ne vada», disse Kelley. «Buona fortuna, David. Per qualsiasi domanda o problema, basta un fischio.»
David aprì la cartella clinica e lesse le generalità: Marjorie Kleber, 39 anni. Dolore al petto. Stava per bussare alla porta della saletta, quando lesse il riassunto diagnostico: cancro al seno trattato chirurgicamente, chemioterapia, radiazioni. Il cancro era stato diagnosticato quattro anni prima e all’epoca della scoperta si era già allargato ai linfonodi.
David scorse rapidamente il resto della cartella. Una paziente di quel tipo era un caso grave e lui aveva bisogno di prepararsi un momento.
Quando lui entrò nell’ambulatorio, Marjorie Kleber era seduta sul lettino e indossava il camice apposito per le visite. Lo guardò con grandi occhi tristi e intelligenti e il suo era un sorriso che scaldava il cuore.
David si presentò e stava per chiederle quali sintomi avesse, quando lei gli prese una mano fra le sue e se la strinse al petto.
«Grazie per essere venuto a Bartlet. Non saprà mai quanto ho pregato perché arrivasse qualcuno come lei, sono veramente colma di gioia.»
«Sono felice di essere qua», balbettò David.
«Prima che arrivasse lei, ho dovuto aspettare quattro settimane per una visita. È così che funzionano le cose, da quando l’assistenza sanitaria che mi forniva la scuola è passata al CMV, e ogni volta c’è un medico diverso. Adesso mi hanno detto che sarà lei il mio medico, è molto rassicurante.»
«Sono onorato di essere il suo medico.»
«Aspettare quattro settimane per essere visitata è stato davvero spaventoso», continuò Marjorie. «Lo scorso inverno ho avuto l’influenza. Era così forte che temevo si trattasse di polmonite. Per fortuna, quando poi mi hanno visitata il peggio era passato.»
«Avrebbe dovuto andare al pronto soccorso», disse David.
«Magari potessi, ma non ci è permesso. Una volta ci sono andata, ma il CMV si è rifiutato di pagare, perché si trattava di influenza. A meno che non abbia un problema che può mettere a rischio la mia vita, devo venire qui in ambulatorio. Non posso andare al pronto soccorso senza l’approvazione preventiva di un medico del CMV. Se lo faccio, loro non pagano.»
«Ma è assurdo», sbottò David. «Come fa a saperlo prima, se è in pericolo di vita?»
Marjorie alzò le spalle. «È la stessa domanda che ho fatto io, ma non mi hanno dato una risposta. Comunque, sono contenta che lei sia qui e, se avrò un problema, chiamerò lei.»
«La prego di farlo. Ma ora parliamo della sua salute. Chi la segue, per quel che riguarda il tumore?»
«Lei.»
«Ma non ha un oncologo?» si stupì David.
«Il CMV non ha oncologi. Io devo venire da lei e andare dal dottor Mieslich, l’oncologo, soltanto quando lei pensa che sia assolutamente necessario. Il dottor Mieslich non è un medico del CMV.»
David annuì, pensando che c’erano un po’ di cosette che avrebbe imparato con il tempo. Intanto, se voleva occuparsi per bene di Marjorie, avrebbe dovuto studiare con cura la sua cartella clinica.
Le dedicò una visita accurata, auscultandole il petto e intanto le chiese che tipo di lavoro svolgesse a scuola.
«L’insegnante», rispose lei.
«In che tipo di scuola?» David si tolse lo stetoscopio dalle orecchie e iniziò i preparativi per un elettrocardiogramma.
«Alle elementari. Il prossimo autunno avrò una terza.»
«Mia figlia andrà in terza.»
«Benissimo, l’avrò nella mia classe.»
«Ha una famiglia?» domandò David.
«Eccome! Mio marito, Lloyd, fa il programmatore in una ditta di software. Abbiamo due figli: il ragazzo va alle superiori e la bambina alle medie.»
Mezz’ora più tardi, David si sentì abbastanza fiducioso da rassicurare Marjorie che il dolore al petto non aveva niente a che fare con il cancro né con il cuore, le sue due maggiori preoccupazioni. Prima di andarsene, lei lo ringraziò ancora una volta con molto calore per essere venuto a Bartlet.
Dopo averla lasciata, David entrò un momento nella sua stanza per lasciarvi la cartella clinica. Si sentiva euforico: se tutti i suoi pazienti erano calorosi e riconoscenti come lei, a Bartlet avrebbe potuto raccogliere molte soddisfazioni.
Accanto alla porta della seconda saletta era pronta la cartella del paziente successivo. La scorse rapidamente e vide che si trattava di un altro caso difficile che richiedeva un po’ di «compiti a casa». Il paziente era John Tarlow, aveva quarantotto anni ed era affetto da leucemia che era stata trattata per tre anni e mezzo con una massiccia chemioterapia.
David entrò e si presentò. John Tarlow era un bell’uomo e anche il suo viso esprimeva la stessa cordialità e intelligenza che lo avevano colpito in Marjorie. Il suo attuale problema era l’insonnia e, dopo un breve conversazione, David capì che era dovuta alla morte recente di un famigliare, quindi gli prescrisse dei sonniferi che avrebbero dovuto aiutarlo a ritornare alla normale routine.
Terminata la visita, aggiunse la cartella di John a quella di Marjorie sulla propria scrivania, poi cercò Susan, che trovò nel piccolo laboratorio usato per gli esami più semplici.
«Susan, qui abbiamo molti pazienti con problemi oncologici?» le domandò.
David ammirava i colleghi che sceglievano quella specializzazione e sapeva che lui non sarebbe stato adatto a seguirla. Così era stato, con una certa trepidazione, che aveva scoperto che i suoi primi due pazienti avevano entrambi il cancro.
Susan lo rassicurò che ce n’erano pochi e lui ritornò davanti alla saletta numero uno, controllando la cartella che era stata preparata. Si sentì rassicurato: si trattava di un paziente diabetico.
La mattina passò rapida e felice. I pazienti erano tutti una delizia: affabili, attenti a quello che lui diceva e per nulla lamentosi. E tutti gli espressero la propria riconoscenza per la sua scelta di trasferirsi a Bartlet.
A colazione, David e Angela si ritrovarono al bar, gestito da volontari, e si raccontarono la loro mattinata.
«Il dottor Wadley è meraviglioso», disse lei. «Sa rendersi utile e gli piace insegnare. Più lo conosco, meno mi fa pensare a mio padre. È così estroverso! È un tipo entusiasta, affettuoso. Mi ha persino abbracciata stamattina, quando sono arrivata. Mio padre morirebbe, prima di fare una cosa simile.»
David raccontò ad Angela dei pazienti che aveva visitato e lei si commosse molto nel sentire come lo aveva accolto Marjorie Kleber.
«È una maestra, e l’anno prossimo avrà anche Nikki nella sua classe.»
«Che coincidenza!» Angela si fece descrivere Marjorie e si rattristò nell’apprendere quale tremenda malattia l’affliggeva. Ascoltò anche le preoccupazioni di David riguardo alla frequenza di casi di cancro e cercò di consolarlo, ricordando come il marito aveva reagito alla morte di alcuni pazienti che avevano quella malattia, quando faceva il tirocinio. «Non deprimerti. Se la tua infermiera ti ha detto che non ce ne sono molti, sarà vero.»
«A proposito di depressione.» David abbassò la voce e si chinò sul tavolino per avvicinarsi di più a lei. «Hai sentito del dottor Portland?»
Angela scosse la testa.
«Si è suicidato. Si è sparato proprio nella stanza dove ora sono io.»
«È tremendo. E devi rimanere lì? Magari potresti fartene dare un’altra.»
«Non essere ridicola Che cosa dico a Kelley? Che sono superstizioso? E poi, l’hanno imbiancata di fresco e hanno sostituito la moquette.» David alzò le spalle. «Andrà bene così.»
«Perché l’ha fatto?»
«Depressione.»
«Lo sapevo, lo sapevo che era depresso. L’avevo anche detto, ti ricordi?»
«E io non ho detto che non lo fosse», obiettò lui. «Ho solo detto che sembrava malato. Dev’essersi ucciso subito dopo che ci siamo visti, perché Kelley mi ha riferito che lo ha fatto a maggio.»
«Pover’uomo. Aveva famiglia?»
«Moglie e due bambini.»
Angela scosse la testa e rimase pensierosa per qualche momento.
«Passando a un argomento meno triste», continuò David, «Charles Kelley mi ha spiegato che esiste un premio per tenere bassa l’ospedalizzazione. Meno faccio ricoverare i miei pazienti e più guadagno. Potrei persino vincere un viaggio alle Bahamas.»
«Avevo sentito parlare di questi incentivi», annuì Angela. «È una tattica che utilizzano gli enti mutualistici per ridurre i costi.»
David scosse la testa, incredulo. «Alcuni degli aspetti della gestione manageriale dell’assistenza e della competizione controllata sono sconcertanti. Io personalmente trovo questa cosa insulsa.»
«Ho anch’io un argomento più ameno: il dottor Wadley ci ha invitati da lui a cena, stasera. Gli ho detto che avrei chiesto a te, che ne dici?»
«Tu ci vuoi andare?»
«Lo so che a casa abbiamo un sacco di cose da fare, ma penso che ci dovremmo andare. Si è dimostrato talmente generoso e premuroso! Non vorrei apparirgli ingrata.»
«E Nikki?»
«Ecco un’altra buona notizia», annunciò Angela. «Ho saputo da uno dei tecnici di laboratorio che Barton Sherwood ha una figlia che va al liceo e che fa abitualmente la baby sitter. Abitano vicino a noi. Le ho telefonato e lei ha detto che verrebbe volentieri.»
«Pensi che a Nikki non spiacerà?»
«Gliel’ho già chiesto. Ha detto che non le importa e che non vede l’ora di conoscere Karen Sherwood, che è una delle cheerleader.»
«Allora andiamoci», rispose David.
Karen Sherwood arrivò a casa loro poco prima delle sette. Quando David aprì la porta pensò che non aveva l’aria di una cheerleader: era minuta e tranquilla e, sfortunatamente per lei, assomigliava molto al padre, però era gradevole e dotata di intuito. Conquistò subito Nikki dicendole che adorava i cani.
Mentre David guidava, Angela finì di truccarsi. Vedendo che era molto tesa, lui la rassicurò dicendole che era strepitosa e che tutto sarebbe andato bene. Entrambi rimasero colpiti dall’abitazione dei Wadley, meno grande della loro ma in condizioni sicuramente migliori e con un parco in perfetto ordine.
Quando Wadley li fece entrare, si accorsero che l’interno era ancora più bello: mobili di antiquariato, tappeti persiani, quadri del Diciannovesimo secolo.
Gertrude Wadley e il marito erano molto diversi, dando credito al detto popolare secondo cui «gli opposti si attraggono»: lei era una donna timida e riservata. Era come se fosse stata sopraffatta dalla forte personalità del marito.
La loro figlia adolescente, Cassandra, in principio sembrò più simile alla madre, ma durante la cena mostrò di assomigliare più al padre.
Comunque, fu Wadley a dominare la serata. Pontificò su un’infinità di argomenti ed era chiaro che stravedeva per Angela, dicendo che ringraziava il cielo perché adesso nella sua équipe c’era una persona così competente.
«Una cosa è certa», commentò David mentre ritornavano a casa, «l’hai conquistato. E non so proprio dargli torto.»
Lei gli si rannicchiò contro.
David riaccompagnò Karen e al suo ritorno trovò Angela che lo aspettava sulla soglia con una camicia da notte che non usava dai tempi della luna di miele.
«Mi sta meglio adesso che quando ero incinta, vero?» gli chiese lei.
«Ti stava benissimo allora e ti sta benissimo adesso.»
Nella semioscurità del soggiorno, si distesero sul divano e fecero di nuovo l’amore, questa volta in modo meno frenetico della sera prima e ancora più soddisfacente, poi rimasero abbracciati ad ascoltare i grilli e le rane.
«Abbiamo fatto più l’amore qui negli ultimi due giorni che a Boston negli ultimi due mesi», osservò Angela sospirando.
«Eravamo sotto stress.»
«Sto pensando di avere un altro figlio.»
David si spostò per poter vedere il suo profilo nell’oscurità. «Davvero?»
«Con una casa di queste dimensioni, potremmo averne una nidiata.»
«Però dovremmo sapere se c’è la probabilità che nasca con la fibrosi cistica. Penso che potremmo fare un’amniocentesi.»
«Suppongo di sì», confermò Angela, senza entusiasmo. «Ma che cosa faremmo, se risultasse positiva?»
«Non lo so. Fa paura pensarci. È difficile sapere quale sarebbe la cosa giusta da fare.»
«Be’, come diceva Rossella O’Hara, domani è un altro giorno.»