17

Domenica 24 ottobre


Quella mattina David e Angela erano esausti, Nikki invece aveva riposato bene, senza incubi e non vedeva l’ora di iniziare la giornata.

La domenica avevano preso l’abitudine di alzarsi presto per andare in chiesa, dopo di che andavano a fare una sostanziosa colazione all’Iron Horse Inn. L’idea di frequentare la chiesa era stata di Angela. Le sue motivazioni non erano religiose, ma sociali. Pensava che sarebbe stato un buon modo per entrare a far parte della comunità di Bartlet e aveva scelto la chiesa metodista, quella all’interno dei giardini, che era la più popolare.

«Ci dobbiamo proprio andare?» si lamentò David. Anche quella mattina si era svegliato prima dell’alba, nonostante fosse andato a letto così tardi ed era rimasto sveglio per ore, riuscendo ad appisolarsi proprio quando Nikki e Rusty gli erano piombati in camera.

«Nikki ci resterà male, se non andiamo», gli rispose lei.

David si vestì controvoglia. Mezz’ora dopo, tutta la famiglia salì sulla Volvo per dirigersi in città. Lasciarono la macchina nel parcheggio dell’Iron Horse e proseguirono a piedi, perché ormai avevano imparato che la domenica mattina il traffico nella zona della chiesa era caotico, tanto da richiedere la presenza di un poliziotto.

Quel giorno era il capo della polizia in persona a svolgere quel servizio. Appena Angela lo vide, si lasciò alle spalle marito e figlia, dicendo loro: «Aspettatemi qui» e si diresse verso di lui prima che David potesse fermarla.

«Scusi, avrei qualcosa da mostrarle», lo abbordò mettendogli sotto il naso il biglietto anonimo. «Questo ce l’hanno inchiodato alla porta la notte scorsa, mentre eravamo a letto.» Mentre lui lo prendeva, Angela si mise le mani sui fianchi, in attesa di una risposta.

Il fischietto che Robertson usava per dirigere il traffico e che teneva legato al collo con una catenella gli scivolò dalle labbra. Guardò il biglietto e poi lo restituì ad Angela. «Direi che è un buon suggerimento. Le raccomando di seguirlo scrupolosamente.»

Angela ridacchiò. «Non le sto chiedendo la sua opinione sul consiglio contenuto nel biglietto, voglio che lei scopra chi l’ha messo sulla porta.»

«Be’», borbottò lui, grattandosi la nuca, «non c’è molto da scoprire, se non che è stato battuto con una Smith Corona del 1952 con una ‘o’ difettosa.»

Per un attimo, Angela fu sul punto di ricredersi sulle sue capacità investigative, ma poi capì che si stava prendendo gioco di lei.

«Sono sicura che farà del suo meglio», ribatté con evidente sarcarsmo. «Ma, considerando il suo atteggiamento nei confronti del caso Hodges, suppongo che non possiamo aspettarci miracoli.»

Qualche colpo di clacson costrinse Robertson a riportare l’attenzione sul traffico, ma questo non gli impedì di dare altri consigli ad Angela. «Lei e la sua famiglia siete arrivati da poco a Bartlet. Dovreste pensarci due volte prima di interferire in questioni che non vi riguardano, evitereste di trovarvi nei guai.»

«Finora i guai me li ha procurati lei e, da quello che ho capito, lei è uno di quelli che non si dispiacciono poi tanto per l’assassinio di Hodges, dato che lo ritiene a torto responsabile della morte di sua moglie.»

Robertson smise di nuovo di dirigere il traffico e si voltò verso Angela, rosso come un peperone. «Che cosa ha detto?»

Lei fece per ripetere la frase, ma David s’insinuò fra lei e il poliziotto, costringendola ad allontanarsi. Aveva seguito la conversazione a qualche passo di distanza e non gli piaceva la piega che stava prendendo.

«Che diavolo ti prende?» sussurrò. «Stai stuzzicando un uomo che ha evidenti problemi di personalità. Non ti sembra di esagerare, con la tua smania di drammaticità?»

«Mi stava mettendo in ridicolo.»

«Piantala, parli come una bambina.»

«Ci dovrebbe proteggere, dovrebbe far rispettare la legge e invece non gli importa niente di chi ha scritto questo biglietto, come non gli importa niente di chi ha ucciso Hodges.»

«Calmati! Stai facendo una scenata davanti a tutti.»

Angela si guardò intorno e vide alcune persone si erano fermate e la stavano fissando. Allora cercò di darsi un contegno, mise il biglietto anonimo nella borsetta, si lisciò la gonna e prese Nikki per mano, dicendo: «Su, non facciamo tardi per la funzione».


Caroline incontrò Nikki dopo la funzione religiosa, si unì ai Wilson quando si fermarono a mangiare all’Iron Horse e poi rimase a casa loro con Nikki e Alice Doherty, mentre David e Angela si recarono in ospedale.

I parenti di Mary Ann erano nell’atrio e Angela andò loro incontro, entrando subito in argomento.

«Mio marito vi ha chiesto l’autorizzazione per eseguire l’autopsia e vi volevo dire che sarò io a farla. Dato che né l’ospedale né il CMV pagano questo servizio, lo farò io nel mio tempo Ubero. Sarà completamente gratuito, potrebbe fornire informazioni utilissime.»

«È molto generoso da parte sua», osservò Donald. «Eravamo ancora indecisi sul da farsi, ma dopo le cose che mi ha detto, credo di essere d’accordo.» Si voltò verso gli altri, che annuirono. «Penso che Mary Ann lo avrebbe desiderato, se può servire ad aiutare altre persone.»

«Penso che possa servire, sì», confermò Angela.

Marito e moglie scesero nei sotterranei per prelevare il corpo di Mary Ann dall’obitorio, poi lo portarono nella stanza delle autopsie. Non essendo più stata usata da diversi anni, era diventata una specie di magazzino e dovettero togliere alcuni scatoloni dal tavolo di acciaio inossidabile, prima di adagiarvi sopra il cadavere.

David si era preparato ad assistere la moglie, ma lei si accorse ben presto che gli era difficile rimanere lì: non soltanto non era abituato alle autopsie, ma si trattava di una paziente che aveva curato fino al giorno prima.

«Perché non vai a visitare i tuoi pazienti?» gli propose.

«Sei sicura di farcela da sola?»

«Certo. Ti manderò a chiamare, quando ho finito, così mi aiuti a riportarla di sotto.»

«Grazie.» David era già arrivato alla porta, ma poi si voltò e le raccomandò: «Ricordati che potrebbe trattarsi di un virus sconosciuto, stai attenta. E voglio anche un’analisi tossicologica completa».

«Perché?»

«Voglio considerare tutte le possibilità. Accontentami, va bene?»

«Come vuoi, ma adesso fuori di qui!» esclamò lei sollevando un bisturi e agitandoglielo contro.

David si tolse guanti, maschera e camice e si diresse al secondo piano, contento di essere stato esonerato da quel compito ingrato. Aveva intenzione di dimettere subito Jonathan, ma gli bastò entrare in camera sua per cambiare idea: anziché allegro e chiacchierone come al solito, lo trovò depresso, con gli occhi spenti e in preda ai lamenti.

David sentì subito scattare l’allarme dentro di sé e, quando domandò a Jonathan che cosa avesse che non andava, non si stupì troppo della risposta.

«Tutto. Ho cominciato con i crampi, poi nausea e diarrea. Non ho appetito e devo deglutire in continuazione.»

«Che cosa significa che deve deglutire?»

«Mi si riempie la bocca di saliva. Devo inghiottirla o sputarla.»

David cercò disperatamente di fare collimare questi sintomi con qualche malattia riconoscibile. La salivazione gli fece venire in mente qualcosa dei tempi dell’università e si ricordò che era uno dei sintomi dell’avvelenamento da mercurio.

«Ha mangiato qualcosa di strano ieri sera?» domandò.

«No.»

«E la flebo?»

«Mi è stata tolta ieri, dopo i suoi ordini.»

David fu preso dal panico. A parte la salivazione, i sintomi di Jonathan gli ricordavano quelli di Marjorie, John e Mary Ann. Sintomi che avevano preceduto un rapido peggioramento e la morte.

«Che cosa c’è che non va?» domandò Jonathan, intuendo l’ansia del suo medico. «Non è qualcosa di serio, eh?»

«Speravo di mandarla a casa», tergiversò David, «ma se si sente così male è meglio che rimanga qui altri due o tre giorni.»

«Come vuole, ma mi rimetta in sesto presto; ho un anniversario di matrimonio da festeggiare, il prossimo weekend.»

David corse nella stanza delle infermiere con la mente in subbuglio. Continuava a dirsi che non poteva accadere ancora, era impossibile, le probabilità erano più che minime.

Rilesse accuratamente la cartella clinica e notò che la temperatura era salita a trentasette gradi. Doveva considerarla febbre? Tornò di corsa da John e lo auscultò: i polmoni erano perfettamente puliti.

Ritornato nella stanza delle infermiere, David si sedette alla scrivania, il viso fra le mani. Non sapeva che cosa fare, ma doveva agire.

D’impulso allungò la mano verso il telefono. Pur sapendo la reazione che avrebbero avuto Kelley e il CMV, chiamò l’oncologo e lo specialista in malattie infettive, pregandoli di raggiungerlo immediatamente, perché gli si era presentato un caso molto simile a quelli mortali che si erano verificati nei tre giorni precedenti, ma ancora in una fase iniziale.

Mentre li aspettava, ordinò tutta una serie di analisi. Magari il suo paziente si sarebbe risvegliato benissimo, il giorno dopo, ma lui non voleva correre il rischio che facesse la fine degli altri tre. Il suo sesto senso, in ogni caso, gli diceva che Jonathan era già prigioniero di una lotta mortale.

Arrivarono il dottor Hasselbaum, che visitò subito il paziente, e il dottor Mieslich, che mostrò a David tutti i referti relativi a Jonathan, da quando lo aveva preso in cura per il cancro alla prostata. Quindi tutti e tre si sedettero nella stanza delle infermiere e iniziarono a confrontare le loro opinioni, ma a un certo punto David si accorse che i suoi due colleghi stavano guardando oltre le sue spalle. Si girò e vide la massiccia figura del dottor Kelley dietro di lui.

«Dottor Wilson, posso scambiare due parole con lei nella sala di ritrovo dei pazienti?» gli chiese, ma sembrava più un ordine.

«Adesso ho troppo da fare», rispose David e si voltò verso i colleghi.

«Temo di dover insistere», ribatté Kelley, toccandolo su una spalla. David gli tirò via la mano.

«Io ne approfitterò per visitare il paziente», dichiarò il dottor Mieslich e si allontanò.

«E io per scrivere il mio referto», disse Hasselbaum.

«Va bene, allora andiamo.» David si alzò e seguì Kelley fino alla saletta dei pazienti dove, sul divano, erano sedute due persone.

«Suppongo che lei conosca Helen Beaton, presidente dell’ospedale», disse Kelley, «e Michael Caldwell, direttore medico.»

«Sì, certo.» David strinse la mano a entrambi. Loro non si preoccuparono di alzarsi.

Kelley si sedette e David lo imitò, mentre intanto si guardava intorno. Si aspettava guai da parte di Kelley e pensava che fosse stata l’autopsia a Mary Ann a scatenarli. Sperava solo che Angela non ne rimanesse coinvolta.

«Voglio parlarle con franchezza», cominciò Kelley. «Lei si domanderà come mai siamo già al corrente del modo in cui si sta occupando di Jonathan Eakins.»

David rimase sbalordito: come facevano quei tre a sapere di Jonathan, quando lui aveva appena iniziato le indagini per i suoi sintomi?

«Ci ha telefonato la coordinatrice della sezione ottimizzazione risorse», spiegò Kelley. «Era stata avvertita dalle infermiere del piano, in base a istruzioni ricevute in precedenza. Il controllo di come si utilizzano le risorse è vitale e sentiamo la necessità d’intervenire. Come le ho già detto, lei usa troppi consulti, specialmente al di fuori del CMV.»

«E troppe analisi di laboratorio», aggiunse Helen Beaton.

«Anche troppi test diagnostici», infierì Caldwell.

David fissò incredulo gli amministratori e tutti e tre ricambiarono impunemente il suo sguardo. Erano un tribunale che lo stava giudicando, come l’Inquisizione. Lo stavano giudicando per eresia medica economica e nessuno dei suoi inquisitori era un medico.

«Vorremmo ricordarle che il paziente è stato curato per un cancro metastasico alla prostata», si premurò di ricordargli Kelley.

«Temiamo che lei sia stato troppo prodigo nell’ordinare analisi e consulti», lo accusò Helen Beaton.

«E anche con i tre pazienti precedenti, che erano chiaramente terminali, ha fatto un uso eccessivo delle risorse», le diede man forte Caldwell.

David stava lottando con le proprie emozioni. Poiché si stava già interrogando sulle proprie capacità di medico, in seguito alla morte di tre suoi pazienti, era estremamente vulnerabile alle critiche degli amministratori. «La mia fedeltà va ai pazienti», riuscì a dire con voce flebile, «non a un’istituzione.»

«Possiamo apprezzare la sua filosofia», ribatté Helen, «ma è stata proprio questa filosofia a portare alla crisi economica della sanità. Deve allargare i suoi orizzonti. La nostra fedeltà deve andare a un’intera comunità di pazienti, non si può fare tutto per tutti. Ci vuole discernimento per un uso razionale delle risorse.»

«David, la questione è che l’uso che lei fa dei servizi collaterali eccede di gran lunga la media dei suoi colleghi», gli ricordò Kelley.

David non era sicuro di quello che doveva dire. «La mia preoccupazione in questi casi particolari è che temo lo svilupparsi di una malattia infettiva per adesso a noi sconosciuta. Se fosse davvero così, sarebbe disastroso non diagnosticarla in tempo.»

I tre amministratori si guardarono senza parlare, poi Helen Beaton alzò le spalle e ruppe il silenzio. «Questo è fuori dalle mie competenze. Sono la prima ad ammetterlo.»

«Stessa cosa per me», aggiunse Caldwell.

«Ma in questo momento abbiamo a disposizione uno specialista delle malattie infettive. Visto che il CMV lo deve pagare comunque, chiediamogli un’opinione», suggerì Kelley e andò subito a cercarlo.

Ritornò non solo con il dottor Hasselbaum, ma anche con il dottor Mieslich. Al primo chiese subito se pensava che i tre pazienti deceduti in quei giorni potessero soffrire di una malattia infettiva sconosciuta.

«Sinceramente ne dubito», rispose lui. «Non ci sono prove evidenti in questo senso. Tutti e tre avevano la polmonite, che secondo me è stata causata da una debilitazione generale, e in tutti e tre i casi l’agente patogeno era conosciuto.»

Kelley domandò a entrambi gli specialisti che tipo di cura pensavano adatta a Jonathan Eakins.

«Puramente sintomatica», rispose l’oncologo e il dottor Hasselbaum si dichiarò d’accordo.

«Tutti e due avete visto la lunga lista di analisi diagnostiche richieste dal dottor Wilson», li interpellò ancora Kelley. «Pensate che qualcuna di quelle analisi sia fondamentale, a questo punto?»

I due specialisti si scambiarono uno sguardo. Hasselbaum fu il primo a parlare: «Io aspetterei e vedrei che cosa succede. Magari domani il paziente potrebbe stare bene».

«Sono d’accordo», si associò il dottor Mieslich.

«Bene, penso proprio che siamo d’accordo anche noi», affermò Kelley. «Lei, dottor Wilson, che cosa ne dice?»

La riunione terminò fra strette di mano, sorrisi e apparente cordialità, ma David si sentiva confuso, umiliato e anche depresso. Tornò nella stanza delle infermiere e cancellò quasi tutte le prescrizioni che aveva ordinato per Jonathan, poi passò a dargli un’occhiata.

«Grazie per avere fatto venire così tanta gente a visitarmi», lo accolse lui.

«Come si sente?»

«Non so, forse un pochino meglio.»

David ritornò nella stanza dell’ autopsia proprio mentre sua moglie stava pulendo il tavolo. L’aiutò a riportare il corpo di Mary Ann nell’obitorio e capì che Angela non era desiderosa di parlare delle sue scoperte. Le dovette tirare fuori le risposte con le tenaglie.

«Non ho scoperto un granché.»

«Niente al cervello?»

«Pulito. Però dobbiamo aspettare che cosa dice il microscopio.»

«Tumori?»

«Mi pare che ce ne fosse uno piccolo all’addome, ma anche per quello occorre aspettare la risposta del microscopio.»

«Così, non c’è nulla che ti è balzato agli occhi come possibile causa di morte?» insistette David.

«Aveva la polmonite.»

Lui annuì. Quello lo sapeva già.

«Mi spiace di non avere trovato altro», mormorò Angela.

«Ti sono grato per avere provato.»

Mentre tornavano a casa, Angela si accorse che il marito era depresso e cercò di capire se c’erano altri motivi, oltre gli scarsi risultati dell’autopsia. Quando lui le riferì dell’incontro con gli amministratori dell’ospedale, divenne livida. «Gli amministratori non dovrebbero immischiarsi nel trattamento dei malati!» esclamò.

«Non so», mormorò David con un sospiro. «Per un verso hanno ragione. Il costo dell’assistenza sanitaria è davvero un problema, ma quando ti trovi davanti un paziente in carne e ossa, ti senti confuso. Gli specialisti che avevo chiamato si sono schierati con loro.»

A cena, David non toccò cibo e, a peggiorare le cose, Nikki si lamentò di non stare bene. Si sentiva congestionata e Angela le fece fare gli esercizi respiratori e la mise a letto.

Quando ritornò al piano di sotto, vide che David era davanti al televisore, ma non lo guardava, fissava il fuoco.

«Sarà meglio tenere Nikki a casa, domani», gli disse e lui non rispose. Angela lo fissò a lungo. Al momento, non sapeva se doveva preoccuparsi di più per Nikki o per lui.

Загрузка...