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Mercoledì 27 ottobre


Nikki si svegliò congestionata e con una tosse profonda e catarrosa e i suoi genitori si preoccuparono che fosse affetta dalla stessa malattia che aveva colpito Caroline.

Nonostante gli esercizi respiratori, la bimba non migliorò e, con suo grande disappunto, dovette rimanere a casa, in compagnia di Alice che fu disponibile a passare tutta la giornata in casa Wilson.

David era già teso per le condizioni di salute della figlia e, quando arrivò all’ospedale, il suo nervosismo raggiunse il massimo perché temeva brutte sorprese. I suoi pazienti ricoverati, però, stavano tutti bene, compresa Sandra, il cui gonfiore era sparito quasi del tutto e la cui temperatura era scesa sotto i trentasette gradi.

«Grazie per quello che ha fatto, dottore», disse contenta a David. «Non insisterò nemmeno per essere dimessa subito.»

«E fa bene: dovremo tenerla qui finché non saremo sicuri al cento per cento che l’infezione è sotto controllo.»

«Se devo restare, però, potrebbe farmi un piacere?»

«Certo.»

«I comandi del mio letto non funzionano. L’ho detto alle infermiere e loro mi hanno risposto che non ci possono fare niente.»

«Ci penserò io», promise David. «È un problema cronico, qua dentro. Vado subito a vedere che cosa si può fare. Voglio che stia comoda il più possibile.»

Alle sue lamentele, Janet Colburn gli disse che aveva riferito del guasto al capo dell’ufficio tecnico, ma le era stato risposto che non si poteva fare niente. «Non mi sono messa a discutere con lui, è già difficile anche soltanto parlarci, e poi, francamente, non abbiamo un altro letto a disposizione, al momento.»

A David sembrò assurdo doversi rivolgere nuovamente a Van Slyke per un semplice letto da riparare, ma se l’alternativa doveva essere quella di andare direttamente da Helen Beaton, preferiva tentare con lui.

«A una mia paziente è stato detto che non si può riparare il suo letto», disse entrando subito in argomento, dopo avere bussato alla porta del suo ufficio. «Che cos’è questa storia?»

«L’ospedale ha acquistato dei letti sbagliati», gli rispose Van Slyke. «Sono un incubo, per noi dell’ufficio tecnico.»

«Non si può ripararlo?»

«Si può ripararlo, ma si romperà ancora.»

«Voglio che lo ripariate, allora.»

«Lo faremo quando ne avremo tempo, non mi scocci. Ho cose più importanti da fare.»

«Perché è così maleducato?» sbottò David.

«Senti chi parla! È lei che è entrato qua dentro gridando. Se ha un problema, vada in amministrazione.»

«Lo farò.» David girò sui tacchi e salì le scale per andare subito da Helen Beaton, ma, arrivato all’ingresso, vide il dottor Pilsner che stava entrando in ospedale e lo chiamò.

«Posso parlarle un momento?» gli chiese.

L’altro si fermò e lui lo mise al corrente delle condizioni di salute di Nikki, chiedendogli se pensava che una terapia antibiotica per via orale potesse servire. Si accorse però che non lo stava ascoltando e appariva molto agitato.

«C’è qualcosa che non va?» gli domandò.

«Mi spiace, sono distratto. Caroline Helmsford durante la notte ha avuto un peggioramento e sono rimasto qui di continuo. Ho fatto soltanto un salto a casa per farmi una doccia e cambiarmi.»

«Che cosa le è successo?»

«Venga e vedrà lei stesso. L’abbiamo portata all’unità di terapia intensiva, perché le è venuto un attacco epilettico.»

Nel sentire questo, David si fermò, sbalordito: gli ricordava troppo quello che era accaduto ai suoi pazienti. Si mise quasi a correre per stare al passo con Pilsner, che intanto gli diede altri dettagli.

«Poi si è sviluppata rapidamente la polmonite. Le ho tentate tutte, ma non sembra che sia servito a qualcosa.»

Quando arrivarono alla porta dell’unità di terapia intensiva, Pilsner vi si appoggiò contro e sospirò. «Temo di trovarla in choc settico. Dobbiamo mantenere la pressione del sangue, non va bene niente. Temo di perderla.»

Caroline era in coma. Dalla bocca le usciva un tubo collegato al respiratore e sul suo corpo si intrecciavano cavi e tubicini della flebo. I monitor registravano il polso e la pressione sanguigna. David rabbrividì nel guardarla; con gli occhi della mente immaginò Nikki al posto suo e rimase terrorizzato.

Pilsner uscì con lui dalla stanza e gli parlò delle condizioni di Nikki, dicendosi d’accordo per una terapia antibiotica orale. Nel salutarlo, David cercò di dirgli qualche parola incoraggiante, perché sapeva benissimo come si sentiva.

Prima di scendere in ambulatorio, telefonò a casa per dire ad Angela degli antibiotici e la informò anche delle condizioni di Caroline, lasciandola sbalordita.

«Credi che morirà?» gli chiese lei.

«Il dottor Pilsner pensa di sì.»

«Nikki era con lei, ieri.»

«Non hai bisogno di ricordarmelo. Ma ieri Caroline stava bene, era senza febbre.»

«Oh, Signore! Non c’è mai tregua. Potresti portare a casa gli antibiotici, durante la pausa?»

«Sì.»

«Io andrò a Burlington, come previsto.»

«Ci vai lo stesso?»

«Certo. Calhoun mi ha telefonato per confermare. Ha già parlato con l’ufficiale responsabile del reparto di polizia scientifica di Burlington.»

«Buon viaggio.» David riattaccò prima di dire qualcosa di cui poi avrebbe potuto pentirsi. Era oltremodo irritato nel vedere che, con quello che stava accadendo a Caroline, con i rischi per Nikki, Angela continuasse a essere ossessionata dal caso Hodges.


«La ringrazio per avermi ricevuto», disse Calhoun sedendosi davanti alla scrivania di Helen Beaton. «Come ho detto alla sua segretaria, ho solo poche domande da farle.»

«E io ne ho una per lei.»

«Chi comincia per primo?» chiese Calhoun, che poi tirò fuori la scatola dei sigari, chiedendo: «Posso fumare?»

«No, non si può fumare in ospedale e penso che dovrò essere io a fare per prima la domanda. Dalla sua risposta dipenderà la lunghezza di questo incontro.»

«Come vuole.»

«Chi l’ha assunto?»

«Questa è una domanda indiscreta.»

«Perché?»

«Perché il mio cliente ha diritto alla riservatezza. Adesso tocca a me. So che il dottor Hodges era un assiduo frequentatore del suo ufficio.»

«Scusi se la interrompo!» interloquì Helen Beaton. «Se i suoi clienti scelgono di rimanere anonimi, allora io non vedo motivo di collaborare.»

«Questo dipende da lei. Naturalmente ci sarà qualcuno che si chiederà come mai il presidente di un ospedale ha difficoltà a parlare del suo immediato predecessore. Potrebbero persino pensare che lei sa chi ha ucciso Hodges.»

«La ringrazio per essere venuto», replicò Helen, alzandosi e sorridendo. «Non mi convincerà a parlare, se non mi dice che sta dietro alla faccenda. La mia principale preoccupazione è l’ospedale. Buongiorno, signor Calhoun.»

Lui si alzò. «Ho la sensazione che ci rivedremo molto presto», disse mentre usciva.

La sua tappa successiva fu l’ufficio tecnico, dove Werner Van Slyke stava sostituendo i motori elettrici di alcuni letti.

Calhoun si presentò e gli disse che aveva bisogno di parlargli.

«Di che cosa?»

«Di Dennis Hodges.»

«Se non le spiace, continuo a lavorare», rispose Van Slyke, voltandosi di nuovo verso i motori.

«Questi letti costituiscono un problema frequente?» s’informò Calhoun.

«Purtroppo.»

«Dato che lei è il capo del reparto, come mai li aggiusta di persona?»

«Voglio essere sicuro che il lavoro sia fatto bene.»

Calhoun si sedette su uno sgabello accanto al banco da lavoro. «Le spiace se fumo?»

«Come vuole.»

«Pensavo che in ospedale fosse vietato fumare», osservò l’investigatore, estraendo di tasca una scatola di sigari e offrendone uno a Van Slyke. Questi sembrò pensarci sopra, poi lo accettò e lui glielo accese.

«Ho sentito che lei conosceva molto bene Hodges», cominciò Calhoun.

«Era come un padre per me», rispose Van Slyke, dando una tirata soddisfatta al sigaro. «Più del mio vero padre.»

«Addirittura.»

«Se non fosse stato per lui, non sarei mai andato al college. Mi faceva fare alcuni lavoretti a casa sua. Io mi fermavo a dormire lì all’aperto e parlavamo. Con mio padre avevo un sacco di problemi.»

«Davvero?» Calhoun desiderava che il suo interlocutore continuasse a parlare.

«Era un figlio di puttana», gli spiegò Van Slyke, poi tossì. «Quel bastardo mi picchiava fino a lasciarmi mezzo morto.»

«Come mai?»

«Si ubriacava quasi tutte le notti. Mi picchiava e mia madre non poteva farci niente, anzi, le buscava anche lei.»

«Ma voi due, lei e sua madre, non riuscivate a unirvi contro di lui?»

«Eh, no! Lei lo difendeva sempre, sostenendo che lui non aveva intenzione di farmi male. Cercava persino di convincermi che mio padre mi bastonava perché mi voleva bene.»

«Non ha molto senso.»

«Certo che no!» sbottò Van Slyke. «Perché diavolo mi fa tutte queste domande, comunque?»

«M’interesso alla morte di Hodges.»

«Dopo tutto questo tempo?»

«Perché no? Non vorrebbe scoprire chi l’ha ucciso?»

«Che cosa dovrei fare, se lo scoprissi? Dovrei uccidere quel bastardo?» Van Slyke rise finché cominciò a tossire un’altra volta.

«Non starà fumando troppo?» osservò Calhoun.

Van Slyke riuscì a controllare la tosse e scosse la testa. Il viso gli era diventato rosso. Andò a bere un sorso d’acqua a un lavandino lì vicino e, quando tornò indietro, il suo umore era cambiato.

«Penso che abbiamo chiacchierato abbastanza», disse con tono canzonatorio. «Ho un sacco di lavoro da fare. Non dovrei nemmeno stare qui a gingillarmi con questi letti.»

«Allora me ne vado», ribatté Phil Calhoun, scendendo dallo sgabello. «È una regola che mi sono dato: mai stare fra i piedi, quando non si è desiderati. Le spiace se ritorno un’altra volta?»

«Ci penserò.»

Calhoun arrivò fino all’Imaging Center e porse il suo biglietto da visita all’impiegata della reception, chiedendo di parlare con il dottor Cantor.

«Ha un appuntamento?» gli chiese la ragazza.

«No, ma gli dica che sono venuto per parlare del dottor Hodges.»

«Del dottor Dennis Hodges?» chiese lei, sorpresa.

«Proprio così. Mi siedo qui in sala d’aspetto.»

Non dovette attendere molto.

«Che cosa significa che vuole parlare del dottor Hodges?» gli chiese Cantor appena lui entrò nel suo ufficio.

«Esattamente questo: fare due chiacchiere su di lui.»

«A quale scopo, si può sapere?»

«Le spiace se mi siedo?»

Cantor gli indicò una delle sedie davanti alla scrivania, Calhoun la liberò da una pila di riviste mediche ancora avvolte nel cellophane e, nel sedersi, chiese se poteva fumare.

«Se ne dà uno anche a me», gli rispose Cantor. «Ho smesso di fumare, tranne quando posso scroccare.»

Calhoun accese i sigari a tutti e due e disse che era stato assunto per scoprire chi era l’assassino di Hodges.

«Non ho nessuna voglia di parlare di quel bastardo», chiarì subito Cantor.

«Le posso chiedere perché?»

«Perché dovrei?»

«Evidentemente, per assicurare l’assassino alla giustizia.»

«Penso che giustizia sia già stata fatta. Chiunque ci abbia sbarazzati di quella peste dovrebbe avere una medaglia.»

«Mi è stato detto che lei aveva un’opinione ben misera di quell’uomo.»

«Questo è dire poco. Era un essere spregevole.»

«Potrebbe spiegarsi meglio?»

«Non gl’importava niente degli altri.»

«Intende della gente in generale o degli altri medici?»

«Soprattutto dei medici, credo. Non gl’importava. Aveva un chiodo fisso ed era l’ospedale, ma il suo concetto d’istituzione non comprendeva i medici che vi lavoravano. Ha rilevato i reparti di radiologia e di patologia, gettando molti di noi sul lastrico. Tutti noi volevamo strozzarlo.»

«Mi potrebbe fare dei nomi?»

«Certo, non è un segreto», dichiarò Cantor e contò sulle dita della mano cinque medici, compreso se stesso.

«E lei è l’unico di questi a essere ancora sulla breccia.»

«Sono l’unico che è ancora in radiologia. Grazie a Dio, ho avuto la lungimiranza di mettere in piedi questa clinica radiologica. Anche Paul Darnell è ancora qui. Lui è a patologia.»

«Lei sa chi ha ucciso Hodges?» chiese allora Calhoun.

Cantor fece per parlare, ma poi si fermò. «La sa una cosa? Mi sono appena accorto che ho cantato come un canarino, anche se avevo esordito dicendo che non volevo parlare di Hodges.»

«Sì, me ne sono accorto anch’io. Immagino che abbia cambiato idea. Allora: sa chi ha ucciso Hodges?»

«Se anche lo sapessi, non glielo direi.»

Calhoun all’improvviso consultò il proprio orologio da taschino e si alzò. «Mi spiace, ma dobbiamo interrompere la nostra chiacchierata. Non mi ero accorto dell’ora e ho un altro appuntamento.»

Spense il sigaro nel portacenere, sotto il naso dello stupito dottor Cantor, e corse fuori. Balzò sul suo furgone e arrivò alla biblioteca, dove vide Angela che passeggiava davanti all’ingresso.

«Mi scusi se ho fatto tardi», le disse. «Mi stavo divertendo un mondo a parlare con il dottor Cantor che non mi sono accorto dell’ora.»

«Avevo anch’io qualche minuto di ritardo», lo rassicurò lei, arrampicandosi sul furgorcino, che puzzava di sigaro. «Sono curiosa di sentire del dottor Cantor. Ha detto qualcosa d’interessante?»

«Non l’ha ucciso lui, Hodges, ma m’interessa. Stessa cosa per Helen Beaton. C’è qualcosa in ballo, lo sento.»

Calhoun abbassò il finestrino. «Le spiace se fumo?»

«Immagino che sia per questo che abbiamo preso il suo camioncino.»

«Pensavo di doverglielo chiedere lo stesso.»

«È sicuro che questa visita alla polizia andrà bene?» domandò Angela. «Più ci penso, più m’innervosisco. In fondo, non è vero che quei referti mi servono per curare i pazienti. Io sono una patologa.»

«Non si preoccupi. Potrebbe anche non avere bisogno di dire niente. Ho già spiegato tutto al tenente e lui non ha fatto obiezioni.»

«Mi fido di lei.»

«Non rimarrà delusa. Ma ho una domanda da farle. La reazione di suo marito mi preoccupa. Non voglio creare difficoltà fra voi due, dato che, lavorando a questo caso, mi sto divertendo come non mi era mai successo da quando sono andato in pensione. Che cosa ne dice se abbasso la mia paga oraria?»

«La ringrazio per la sua premura, ma sono sicura che David non farà storie, se ci atteniamo alla settimana che abbiamo detto.»

Nonostante le rassicurazioni di Calhoun, nell’entrare alla stazione di polizia di Burlington Angela era tesa. Ben presto, però, vide che non c’era nulla di cui preoccuparsi. Fu Calhoun a parlare e il poliziotto di servizio fu estremamente gentile.

«Già che ci siamo», propose Calhoun, «perché non fa addirittura due copie?»

«Non c’è problema», rispose lui. Maneggiava gli originali con le mani guantate.

Calhoun fece l’occhiolino ad Angela e le sussurrò: «Così avremo una copia per uno».

Dieci minuti dopo, Angela e Calhoun erano di nuovo sul furgoncino.

«È stato un gioco da ragazzi», commentò lei, sollevata, prendendo le copie dalla busta in cui le aveva infilate il poliziotto.

«Non dico mai ‘io l’avevo detto’», scherzò Phil Calhoun. «Non sono quel genere di persona.»

Angela sorrise. Cominciava a piacerle lo humour di quell’uomo.

«Che cosa sono?» chiese lui.

«I fogli di accettazione di otto pazienti.»

«Hanno qualcosa di particolare?»

«Non mi sembra.» Angela era delusa. «Non hanno alcun elemento in comune. Età diverse, diagnosi diverse, alcuni sono uomini e alcuni sono donne. Ci sono un’anca fratturata, polmonite, sinusite, dolori al petto, dolori addominali, flebite, ictus, calcoli renali. Non so di preciso che cosa mi aspettassi, ma mi sembrano tutte cose all’ordine del giorno.»

Calhoun si addentrò nel traffico. «Non arrivi a conclusioni affrettate», le consigliò.

Angela rimise i fogli nella busta e guardò fuori dal finestrino. Immediatamente riconobbe la zona in cui si trovarono e chiese a Calhoun di fermarsi.

«Siamo vicini all’ufficio del medico legale», gli spiegò. «Che cosa ne dice di fare un salto da lui? Ha eseguito l’autopsia su Hodges e una nostra visita potrebbe smuovere un po’ più d’interesse da parte sua.»

Calhoun approvò l’idea e, dieci minuti dopo, incontrarono Walter Dunsmore in una sala che veniva utilizzata dai medici per consumare i pasti.

«Che cosa ne dite di prendere anche voi qualcosa da mangiare?» suggerì Walt.

Calhoun e Angela comprarono dei panini a un distributore automatico e lo raggiunsero.

«Il signor Calhoun sta indagando sul caso Hodges», spiegò Angela a Walt. «Siamo passati a vedere se ci sono ulteriori sviluppi.»

«No, non direi. L’esame tossicologico era negativo, tranne per l’alcol, di cui ti ho già parlato. Come ho già detto, nessuno ha interesse di dare priorità a questo caso.»

«Qualche novità sul carbone sotto la pelle?» chiese ancora Angela.

«Veramente non ci ho più pensato», ammise Walt.

Lei gli spiegò che doveva andare via subito, perché stava terminando la pausa e doveva rientrare in ospedale e Walt la incoraggiò a tornare da lui tute le volte che avesse voluto.

Tornati a Bartlet, Calhoun la lasciò dietro la biblioteca, raccomandandole di non esporsi.

«Non si preoccupi», gli disse Angela mentre si precipitava alla propria macchina. Era già l’una e mezzo.

Appena rientrò in ufficio, mise le copie degli otto fogli di accettazione nel primo cassetto della sua scrivania, dicendosi che doveva ricordarsi di portarle a casa. Poi s’infilò il camice e in quel momento entrò Wadley, senza nemmeno preoccuparsi di bussare.

«Sono quasi venti minuti che la cerco», disse irritato.

«Ero fuori.»

«Questo era evidente, l’ho fatta chiamare parecchie volte.»

«Mi dispiace, ho usato l’ora della pausa per alcune commissioni.»

«È stata via più di un’ora», le fece notare Wadley.

«Sì, può essere, ma questa sera mi fermerò più a lungo, come del resto faccio spesso, e poi avevo avvertito il dottor Darnell perché mi sostituisse in caso di emergenza.»

«Non mi piace che i miei patologi scompaiano nel mezzo della giornata.»

«Non sono stata via a lungo. Sono consapevole delle mie responsabilità. Se oggi avessi dovuto analizzare le biopsie, non mi sarei certo assentata. Inoltre, sono dovuta andare dal medico legale.»

«Ha visto Walt Dunsmore?» chiese Wadley, con un tono già meno ostile.

«Può telefonargli, se non mi crede.»

«Ho troppo da fare per controllare i movimenti dei miei collaboratori. La questione è che ultimamente mi preoccupa il suo comportamento. Le devo ricordare che è ancora in prova e le posso assicurare che, se si dimostra inaffidabile, non verrà confermata.»

Con questo, Wadley ritornò nel proprio ufficio sbattendo la porta.

Angela si sentiva a disagio per l’aperta ostilità che le mostrava il suo capo. Eppure, la preferiva alle molestie a cui l’aveva sottoposta in precedenza. Si chiese se sarebbero mai riusciti a instaurare un normale rapporto di lavoro.


David finì le sue visite in ambulatorio e si diresse controvoglia a controllare le condizioni dei suoi pazienti ricoverati. Aveva paura di nuove, drammatiche scoperte.

Passò dapprima dall’unità di terapia intensiva per informarsi su Caroline e la trovò moribonda, vegliata inutilmente dal dottor Pilsner. Arrivato in corsia, scoprì che i suoi pazienti stavano tutti bene, tranne Sandra, il cui stato mentale era preoccupante.

David era sconcertato. Anche se le infermiere non sembravano particolarmente impressionate, ai suoi occhi il cambiamento era drammatico. Quando l’aveva visitata quella mattina l’aveva trovata vivace e in forma, adesso era apatica e biascicava cose incomprensibili, gli occhi erano spenti e la temperatura aveva nuovamente superato i trentotto gradi.

Riuscì a fatica a chiederle come si sentisse e lei parlò di crampi addominali, lasciandolo sgomento: il sintomo assomigliava troppo a quelli dei pazienti che erano morti.

Un’analisi dettagliata della cartella clinica non gli fu d’aiuto. L’unico fatto nuovo annotato dalle infermiere era la perdita di appetito, ma per il resto tutto era normale. Gli venne in mente la possibilità di un inizio di meningite, che era poi il pericolo che lo aveva indotto a ricoverarla, e le praticò una puntura lombare per prelevare il fluido cerebrospinale. Vide subito, dalla sua chiarezza, che era normale, ma lo inviò al laboratorio per esserne certo.

Come previsto, il risultato fu negativo. David, allora, ordinò un’altra analisi del sangue e intanto somministrò a Sandra altri antibiotici per l’ascesso. Poi, non gli rimase che sperare.

Quando andò a casa, non si godette per niente la pedalata, preoccupato com’era per Caroline e per Sandra, e al suo arrivo scoprì che le condizioni di Nikki erano peggiorate rispetto all’ora di pranzo, quando le aveva portato gli antibiotici: la congestione era aumentata e la temperatura aveva raggiunto i trentotto gradi.

Telefonò al dottor Pilsner direttamente all’unità di terapia intensiva e, scusandosi per il disturbo, gli chiese un parere sul fatto che gli antibiotici orali non erano serviti a molto.

«Sospendiamoli», consiglio lui, con la voce stanca. «Penso che sarà meglio usare un agente mucolitico e un broncodilatatore insieme alla terapia respiratoria.»

«Qualche cambiamento, per Caroline?»

«Nessuno.»

Angela arrivò a casa alle sette, dopo che Nikki aveva fatto un’altra serie di esercizi con David ed era leggermente migliorata. Mentre s’infilava nella doccia, David le diede le ultime notizie su Caroline.

«Chissà come si sentono gli Helmsford», commentò lei. «Saranno distrutti. Prego il Signore che a Nikki non capiti la stessa cosa.»

«Ho un’altra paziente, Sandra Hascher, che sta avendo gli stessi sintomi degli altri che sono morti.»

Angela cacciò fuori la testa dalla doccia. «Per che cosa è stata ricoverata?»

«Un ascesso a un dente. Ha reagito bene agli antibiotici, poi oggi pomeriggio ha avuto un improvviso cambiamento delle condizioni mentali. È diventata apatica e confusa. Lo so che non sembra molto, ma per me è un sintomo preoccupante.»

«Potrebbe essere meningite?»

«Ci ho pensato anch’io, anche se non ha mal di testa né febbre alta. Le ho fatto una puntura lombare e il risultato è stato negativo.»

«Un’infezione cerebrale?»

«Ma la febbre è minima. Comunque, domani le farò una risonanza magnetica nucleare, se non sta meglio. Il problema è che il suo caso mi ricorda troppo gli altri pazienti che sono morti.»

«Immagino che tu non voglia chiedere consulti.»

«No, altrimenti la passano a un altro medico. Potrei avere grane anche solo per la risonanza magnetica nucleare.»

«Che modo disgustoso di esercitare la medicina!» esclamò Angela. Poi, visto che David non aggiungeva altro, gli comunicò: «Il viaggio a Burlington è andato bene».

«Mi fa piacere», replicò lui, senza interesse.

«L’unico guaio è stato che al ritorno Wadley mi ha fatto una scenata. Ha persino minacciato di licenziarmi.»

«No!» David rimase sbalordito. «Sarebbe un disastro.»

«Non ti preoccupare, sta soltanto scaricando i suoi bollori. Non mi può licenziare subito dopo che io mi sono lamentata delle sue molestie sessuali. È l’unico motivo per cui sono contenta di avere parlato con Cantor.»

«Non c’è molto da stare allegri. Non avevo mai nemmeno pensato alla possibilità che potessero licenziarti.»

Quando la cena fu pronta, Nikki non aveva fame. Angela la fece sedere lo stesso a tavola, dicendole che avrebbe preso solo quello che le andava, ma poi insistette perché mangiasse di più. David intervenne perché non la costringesse a mangiare controvoglia e finì che litigarono, con il risultato che Nikki scappò da tavola in lacrime.

Dopo cena, Angela e David rimasero in silenzio davanti al televisore, poi lei salì da Nikki per farle fare gli esercizi respiratori, mentre lui si mise a sparecchiare. Aveva appena portato in cucina i piatti sporchi, che Angela ritornò giù.

«Nikki mi ha appena fatto una domanda a cui non so rispondere», gli disse, in tono grave. «Mi ha chiesto se Caroline tornerà presto a casa.»

«Che cosa le hai detto?»

«Che non lo so. Adesso che non si sente bene, ho paura di dirle la verità.»

«Anch’io non gliela voglio dire. Aspettiamo che la congestione le sia passata.»

«Va bene, cercherò di tergiversare.»

Verso le nove, David chiamò l’ospedale e parlò con la caposala, che gli assicurò che le condizioni di Sandra non erano cambiate e lo informò che però la paziente aveva saltato la cena.

Quando riattaccò, Angela andò da lui e gli chiese di dare un’occhiata alle copie dei fogli di accettazione che aveva preso a Burlington.

«Non m’interessa», rispose lui.

«Grazie. Sai che è una cosa. importante per me.»

«Sono troppo preoccupato per pensare a questa roba.»

«Io ho avuto il tempo e le energie per ascoltare i tuoi problemi. Potresti almeno restituirmi la cortesia.»

«Non credo proprio che le due cose siano paragonabili.»

«Come puoi dire una cosa del genere? Lo sai quanto sono sconvolta per questa faccenda di Hodges.»

«Non ti voglio incoraggiare. Penso di essere stato chiaro, al riguardo.»

«Oh, sì, sei stato chiarissimo: quello che è importante per te è importante, quello che è importante per me, non lo è.»

«Con tutto quello che sta succedendo, trovo davvero sorprendente che tu sia ancora fissata su Hodges. Dai priorità alle cose sbagliate. Mentre tu te ne andavi a Burlington a giocare al detective, io ero qui a portare gli antibiotici a nostra figlia, mentre la sua migliore amica sta morendo in ospedale.»

«Non riesco a credere a quello che stai dicendo!»

«E, come se tutto questo non bastasse, mi vieni a dire che Wadley minaccia di licenziarti. Tutto perché per te è così importante andare a Burlington. Ti posso dire questo: se ti licenziano, per noi sarà il disastro economico e questo è niente rispetto al pericolo in cui ci metti continuando queste indagini.»

«Pensi di essere tanto razionale», gridò Angela. «Ma ti stai solo prendendo in giro. Pensi che i problemi si risolvano negando la loro esistenza. Sei tu che dai priorità alle cose sbagliate, non aiutandomi quando ho bisogno del tuo sostegno. Per quanto riguarda Nikki, forse non si sarebbe ammalata se tu non le avessi permesso di fare visita a Caroline prima di sapere che cosa aveva quella povera bambina.»

«Questo non è giusto!» urlò a sua volta David, poi si trattenne. Si riteneva razionale ed era fiero di non perdere mai le staffe.

Il problema fu che più lui si tratteneva, più Angela dava sfogo alle emozioni e più lei faceva così, più David si chiudeva in se stesso. Il risultato fu che alle undici erano tutti e due esausti e decisero che David avrebbe dormito nella stanza degli ospiti.

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