13

Mercoledì 20 ottobre


Nonostante le proteste di Nikki, i suoi genitori la fecero rimanere a casa per un altro giorno. Considerato il brutto tempo e il fatto che stava ancora prendendo antibiotici, non volevano correre rischi. Dopo gli esercizi respiratori, l’auscultarono e furono piuttosto soddisfatti, quindi la lasciarono alle cure di Alice Doherty, che arrivò puntuale come sempre.

Nel salire in auto, David si lamentò di non poter andare in bicicletta. Non pioveva fortissimo, ma le nuvole erano basse e gonfie e dalla terra inzuppata d’acqua si levava una pesante nebbia.

Arrivarono in ospedale alle sette e mezzo. Angela si recò al laboratorio e David si diresse in corsia. Quando entrò nella stanza di John Tarlow, la trovò invasa da scale e teli che coprivano i mobili e il letto era vuoto. Quando andò a chiedere spiegazioni alla caposala, quest’ultima gli spiegò che il paziente era stato trasferito nella stanza 206.

«Come mai?» volle sapere David, sorpreso.

«Hanno voluto imbiancare la stanza. È venuta una squadra della manutenzione e ci hanno detto che dovevamo liberarla, così abbiamo spostato il signor Tarlow alla 206.»

«Che mancanza di riguardo verso il paziente!»

«Be’, non se la prenda con noi, vada a lamentarsi all’ufficio tecnico.»

Irritato, David seguì il consiglio di Janet e scese fino alla stanza del capufficio tecnico. Alla scrivania c’era un uomo più o meno della sua età che indossava una camicia da lavoro stropicciata di tela verde e calzoni della stessa stoffa. Aveva l’aria trasandata.

«Sì?» gli chiese Werner Van Slyke sollevando lo sguardo dalla propria agenda. Il viso e la voce erano completamente privi di emozione.

«Uno dei miei pazienti è stato fatto spostare dalla sua camera», disse David. «Vorrei sapere perché.»

«Se sta parlando della 216, la stanno imbiancando.»

«È evidente che la stanno imbiancando. Quello che non è evidente è il perché.»

«Abbiamo un calendario da seguire.»

«Calendario o non calendario», sbottò David, «non penso che i pazienti debbano essere disturbati, soprattutto quelli che stanno male, e i pazienti, se sono in ospedale, vuol dire che stanno male.»

«Parli con Helen Beaton se ha un problema», ribatté l’altro con la solita voce piatta e si rimise a guardare l’agenda.

Sconcertato dall’insolenza del suo interlocutore, David rimase qualche secondo sulla soglia, mentre Van Slyke continuava a ignorarlo. Alla fine si decise ad andarsene e, mentre ritornava al secondo piano, prese seriamente in considerazione la possibilità di parlarne con il direttore generale. Quando però entrò nella nuova stanza di John Tarlow si trovò a dover affrontare un problema ben più pressante: le condizioni del suo paziente erano peggiorate.

La diarrea e il vomito, che inizialmente si erano placati, ora erano ancora più violenti di prima e per di più John appariva intontito e apatico. David non capiva il perché di quei sintomi, dato che evidentemente non era disidratato, grazie alla fleboclisi.

Nonostante un esame accurato del paziente, non riuscì a trovare una spiegazione delle sue condizioni, in particolare di quelle mentali. L’unico dubbio che gli venne in mente fu che John potesse avere dimostrato un’eccessiva sensibilità al leggero sonnifero che aveva prescritto per lui, nel caso ne avesse avuto bisogno.

Nella stanza delle infermiere prese la sua cartella clinica e la consultò freneticamente, sperando di trovare fra i risultati delle analisi, arrivati nel frattempo dal laboratorio, una spiegazione e, di conseguenza, una soluzione. Dopo lo scontro del giorno precedente con Kelley era riluttante a chiedere un consulto, dato che sia l’oncologo sia lo specialista in malattie infettive non appartenevano al CMV.

Chiuse gli occhi e si sfregò le tempie, non sapendo che cosa fare. Purtroppo i risultati della coprocoltura, un test fondamentale, non erano ancora disponibili e lui non sapeva ancora se aveva a che fare con un batterio oppure no e, in caso positivo, con quale genere di batterio. Di buono c’era che, per ora, John non aveva la febbre.

Dalla cartella clinica risultava che il sonnifero gli era stato effettivamente somministrato; David, allora, lo cancellò dalle prescrizioni e richiese un’altra coprocoltura e un altro conteggio dei globuli rossi. Chiese inoltre che la temperatura di John venisse controllata ogni ora, con l’ordine esplicito di essere avvertito, se fosse salita oltre i livelli normali.


Completata l’ultima biopsia della giornata, Angela pulì il piccolo laboratorio accanto alla sala operatoria e si diresse verso la propria stanza. Aveva trascorso una mattinata proficua e piacevole e, fino a quel momento, era riuscita a evitare il dottor Wadley, anche se sapeva che prima o poi lo avrebbe incontrato e si preoccupava per come lui si sarebbe comportato.

Entrando nel suo ufficio, si accorse che la porta comunicante era socchiusa e cercò di chiuderla il più silenziosamente possibile.

«Angela!» la chiamò il dottor Wadley, facendola sobbalzare. «Venga, voglio mostrarle qualcosa di affascinante.»

Lei sospirò ed entrò. Wadley era seduto davanti al microscopio normale, non a quello didattico.

«Venga», ripeté, facendo un gesto con il braccio per sottolineare il suo invito, poi batté un dito sopra il microscopio. «Dia un’occhiata a questo vetrino.»

Lei avanzò guardinga, poi si fermò, esitante. Intuendo la sua riluttanza, Wadley si diede una piccola spinta, facendo allontanare la poltroncina dalla scrivania. Angela allora si avvicinò al microscopio e si chinò.

Prima che potesse guardarvi dentro, Wadley si spinse in avanti, l’afferrò alla vita e la fece sedere sul suo grembo, serrandole intorno le braccia.

«Presa!» gridò compiaciuto.

Angela strillò e cercò di divincolarsi. Aspettandosi un approccio più subdolo, era rimasta scioccata da quell’azione così diretta e violenta.

«Mi lasci andare!» gridò al massimo della collera, cercando di allentare la stretta per liberarsi.

«No, se prima non lascia che io le dica una cosa», replicò Wadley, ridacchiando.

Angela smise di lottare. Teneva gli occhi chiusi e si sentiva tanto umiliata quanto furibonda.

«Così va meglio», approvò Wadley. «Ci sono buone notizie. Per il viaggio è tutto sistemato. Ho già preso persino i biglietti e il mese prossimo parteciperemo al convegno di patologia a Miami.»

Angela riaprì gli occhi. «Meraviglioso!» esclamò, con il massimo sarcasmo che riuscì a infondere alla sua voce. «E ora mi lasci andare!»

Wadley allentò la stretta e Angela scattò in piedi, ma lui le afferrò il polso. «Sarà fantastico», continuò. «Il tempo sarà perfetto, a Miami è il periodo migliore dell’anno e potremo stare sulla spiaggia. Ho già fissato le nostre camere al Fontainbleau.»

«Mi lasci andare!» sibilò Angela a denti stretti.

«Ehi!» Wadley si chinò in avanti per guardarla più da vicino. «È pazza o che cosa? Mi spiace di averla spaventata, volevo solo farle una sorpresa.»

Quando lui le lasciò il polso, Angela si precipitò nel proprio ufficio, sbattendo la porta. Era fuori di sé dalla rabbia, mortificata, avvilita.

Rimase qualche minuto con il viso fra le mani, cercando di riprendere il controllo di sé. Quando sentì che la respirazione le era ritornata normale, afferrò il cappotto e uscì di corsa. Le avance sfrontate di Wadley erano servite se non altro a spingerla all’azione.

Quando arrivò all’ufficio di Cantor, dovette aspettare circa mezz’ora, dato che non aveva un appuntamento, e questo le servì per calmarsi ulteriormente e ripensare a tutta la vicenda. Si chiese se non avesse anche lei una parte di colpa, se non fosse stata troppo ingenua.

«Venga, venga», la invitò Cantor con giovialità, appena fu libero. Sgombrò per lei una sedia sommersa da riviste mediche e le offrì qualcosa da bere, che rifiutò, poi si sedette, incrociò le braccia e le chiese che cosa potesse fare per lei.

Ora che se lo ritrovava davanti, Angela fu assalita nuovamente dalle impressioni negative che aveva avuto la prima volta che lo aveva visto. Gli leggeva sul viso un sorrisetto malizioso, come se avesse già deciso che qualsiasi cosa covasse nella sua mente femminile non era importante.

«Non è facile parlarne», esordì Angela. «La prego di avere pazienza con me. Mi è stato difficile venire qua, ma non sapevo che altro fare.»

Cantor la incoraggiò a continuare.

«Sono qui perché sono stata oggetto di molestie sessuali da parte del dottor Wadley.»

Cantor appoggiò le mani sulla scrivania e si chinò in avanti. Ad Angela fece piacere vedere che almeno mostrava interesse, ma notò che il sorrisetto non era scomparso.

«Da quando va avanti?» le domandò.

«Probabilmente da quando sono arrivata», rispose lei, che avrebbe voluto aggiungere qualcosa per spiegarsi meglio, ma Cantor la interruppe.

«Come sarebbe a dire, probabilmente?» ripeté, sollevando le sopracciglia. «Vuol dire che non ne è sicura?»

«In principio non era una cosa evidente, pensavo che si comportasse come un insegnante particolarmente entusiasta, quasi paterno.» Angela proseguì, descrivendo ciò che era accaduto fin dall’inizio. «Approfittava di ogni occasione per starmi vicino e toccarmi. Mi confidava anche questioni personali relative alla sua famiglia, cosa che mi sembrava sconveniente.»

«Questo comportamento potrebbe rientrare nei limiti di un’amicizia o nel ruolo di guida che lui si è assunto», osservò Cantor.

«Sono d’accordo ed è per questo che gli ho permesso di continuare, ma adesso le cose sono cambiate.»

«In che modo?»

Angela gli descrisse l’episodio della mano sulla coscia, sentendosi particolarmente imbarazzata, poi quello in cui Wadley le aveva toccato il sedere e riferì anche di come avesse cominciato a chiamarla «tesoro».

«Personalmente non vedo niente di disdicevole nella parola ‘tesoro’», osservò Cantor. «Io la uso sempre con le ragazze qui all’Imaging Center.»

Angela lo fissò, chiedendosi come si sentissero quelle ragazze nei suoi confronti. Chiaramente si trovava nel posto sbagliato e non poteva aspettarsi comprensione da un uomo che considerava le donne in un modo ancora più arcaico del dottor Wadley. Comunque, finì di raccontare, arrivando all’episodio che era avvenuto quella stessa mattina.

«Non so che cosa dire di tutto questo», fu il parere di Cantor. «Il dottor Wadley le ha mai fatto capire che il suo lavoro dipende dai favori sessuali che è disposta a concedergli?»

Angela gemette fra sé, temendo che il concetto di molestie sessuali che aveva Cantor si limitasse a fatti fin troppo concreti. «No», rispose, «ma questa familiarità indesiderata travalica il limite dell’amicizia e dei normali rapporti di lavoro. Mi turba e mi rende difficile lavorare.»

«Forse lei sta esagerando. Il dottor Wadley è una persona molto espansiva…» Nel notare lo sguardo di Angela, Cantor si interruppe e aggiunse: «Be’, questa può essere una possibilità».

Lei si alzò e si sforzò di ringraziarlo.

«Di niente», rispose lui, alzandosi a sua volta. «Mi tenga informato. Intanto, le prometto che parlerò al dottor Wadley appena si presenterà l’occasione.»

Angela annuì e ritornò in laboratorio con la sensazione che la sua mossa non solo non sarebbe servita a niente, ma che anzi avrebbe peggiorato le cose.


Per tutto il pomeriggio David aveva fatto avanti e indietro dall’ambulatorio alla camera di John Tarlow, per poterlo tenere sotto controllo, ma sfortunatamente non c’erano stati miglioramenti. Quando passò da lui per l’ultima visita prima di andare a casa, notò che le condizioni mentali erano leggermente peggiorate: nello stato confusionale in cui si trovava, John riusciva a malapena a dire come si chiamava, ma non aveva la minima idea del mese e dell’anno.

La maggior parte delle analisi andavano bene, anche quella che doveva rivelare la presenza di batteri patologici. C’era soltanto una leggera diminuzione di globuli bianchi, che però David non sapeva come interpretare, dato che John soffriva di leucemia.

«Chiamatemi se subentra la febbre o se peggiorano i sintomi gastrointestinali», ordinò alle infermiere, prima di andarsene.

Mentre guidava verso casa in quella serata piovosa, molto più fredda delle precedenti, Angela mise al corrente il marito dell’ultima impresa di Wadley e dell’incontro con Cantor.

«Su Wadley ormai non avevo più speranze, è una bestia», commentò David, scuotendo la testa, «ma da Cantor mi sarei aspettato di più. Come capo del personale, deve tenere conto della legge, oltre che del prestigio dell’ospedale, e ormai c’è una sfilza di sentenze lunga così sulle molestie sessuali.»

«Non ci voglio pensare, stasera», disse Angela. «Tu, piuttosto, come stai? Hai pensato ancora a Marjorie?»

«Non ne ho avuto il tempo», le disse David, spiegandole dettagliatamente il caso di John Tarlow. «Il mio sesto senso mi fa suonare i campanelli di allarme, ma il guaio è che non so che cosa fare», concluse, «e mi limito a curare i sintomi.»

«Questo genere di cose mi conferma che ho fatto bene a scegliere patologia», commentò Angela.

David le raccontò anche l’incontro con Werner Van Slyke e della sua rudezza. «Questo ti dà l’idea della posizione dei medici all’interno di un ospedale», concluse. «Ormai il medico è solo un impiegato come gli altri.»

Nikki accolse con gioia i genitori. Si era annoiata quasi tutto il tempo, fin quando non era arrivato Arni a raccontarle del nuovo maestro, un uomo.

«È molto severo», rivelò Arni a David.

«Spero che sia un bravo insegnante», commentò lui, provando un dolore al pensiero di Marjorie.

Mentre Angela preparava la cena, David accompagnò a casa Arni e al ritorno dovette sorbirsi le lamentele di Nikki: secondo lei, nella stanza accanto alla sala da pranzo, dove avevano messo il televisore e ohe usavano come salottino di famiglia, faceva freddo.

David tastò il calorifero, che era bollente, e domandò alla figlia quale fosse il punto esatto della stanza in cui sentiva freddo.

«Sul divano.»

In effetti, stando seduti sul divano si sentiva uno spiffero gelido sulla nuca e David ammise che era venuto il momento di mettere i doppi vetri.

«Che cosa sono?» gli domandò Nikki.

Lui si lanciò in una dettagliata spiegazione sulla dispersione del calore, il risparmio energetico, i materiali isolanti, ma Angela dalla cucina gridò: «Così la confondi. Ha chiesto solo che cosa sono i doppi vetri, non puoi farglielo vedere?»

«Buona idea!» esclamò David. «Vieni, così intanto prendiamo un po’ di legna per il camino.»

«Non mi piace scendere lì sotto», protestò Nikki quando furono sulle scale che portavano in cantina.

«Perché?»

«Fa paura.»

«Su, non fare come la mamma. Ne basta una, in famiglia, di femmina isterica», scherzò David.

Appoggiate al sottoscala c’erano parecchi vetri incastrati nei loro telai e David ne prese uno per mostrarlo alla figlia.

«È una finestra», osservò lei delusa.

«Sì, ma non si apre. Intrappola l’aria fra questo vetro e quello della finestra vera e propria e quello strato d’aria fa da isolante.»

David, nel frattempo, si era accorto di una cosa che non aveva mai notato prima: la parete della rampa di scale, contro cui erano appoggiati i vetri, non era di granito come il resto della cantina, ma di blocchetti di cemento. Incuriosito, spostò tutti i vetri per metterla allo scoperto.

«Guarda», disse alla figlia, «questa parete non è come le altre, è stata fatta di recente, per chiudere il sottoscala.»

«E che cosa c’è nel sottoscala?» domandò Nikki.

«Chissà? Forse potremmo dare un’occhiata, magari c’è un tesoro.»

«Davvero?»

David prese la mazza con cui conficcava i cunei nella legna per dividerla in pezzi adatti a essere bruciati e stava per alzarla, quando sentì Angela che dall’alto chiedeva che cosa stessero combinando là sotto.

Dopo avere portato l’indice alle labbra perché Nikki non rivelasse la loro scoperta, rispose che sarebbero risaliti entro pochi minuti, con la legna per il camino.

«Io vado di sopra a farmi una doccia», disse Angela. «Poi ceniamo.»

«Meglio non farle sapere che stiamo demolendo la casa» sussurrò David e Nikki ridacchiò.

Dopo avere calcolato che la moglie doveva essere arrivata al piano di sopra, David calò la mazza contro la parete di blocchetti, aprendo un piccolo varco.

«Va’ su a prendere una pila», disse a Nikki. Dal sottoscala usciva un odore di muffa e di vecchio.

David diede altri colpi e venne via un intero blocchetto, in modo che, quando Nikki ritornò con la pila, lui poté guardar dentro.

Si sentì il cuore in gola e tirò via la testa talmente in fretta da sbucciarsi il collo contro il bordo ruvido dei blocchetti.

«Che cosa hai visto?» volle sapere Nikki.

«Non è un tesoro», rispose lui, con tono grave. «Credo sia meglio che tu vada a chiamare la mamma.»

Dopo che Nikki si fu allontanata, David continuò ad allargare il buco, togliendo altri blocchetti.

«Che cosa succede?» chiese Angela, scendendo le scale.

«Da’ un’occhiata.»

«Spero che non sia uno scherzo.»

«Non lo è.»

Angela si sporse nel sottoscala e le bastò un’occhiata per capire: «Mio Dio!» La voce echeggiò nello spazio ristretto.

«Che cos’è? Voglio vedere anch’io!» esclamò Nikki.

Angela tirò fuori la testa e guardò David. «È un cadavere», disse, «ed è evidente che è qui da tanto tempo.»

«Una persona?» domandò Nikki, incredula. «Posso guardare?»

«Va’ di sopra a preparare il fuoco», le consigliò il padre, passandole un ciocco da portare al piano superiore, poi prese lui stesso una bracciata di legna.

Mentre Angela telefonava alla polizia, lui e Nikki accesero il fuoco e la bimba lo tempestò di domande a cui lui non sapeva rispondere.

Dopo mezz’ora arrivarono due poliziotti.

«Sono Wayne Robertson», si presentò quello più piccolo, vestito in borghese e con in testa un berretto da baseball. «Sono il capo della polizia e questo è uno dei miei assistenti, Sherwin Morris.»

Sherwin si toccò il berretto. Alto e magro, portava l’uniforme e aveva con sé una grossa torcia elettrica.

«Non sono di servizio, ma Sherwin è passato a chiamarmi, dicendomi che si trattava di una cosa importante.»

«Vi ringrazio di essere venuti», disse Angela e insieme a David condusse i poliziotti in cantina, mentre Nikki rimaneva in cucina.

Robertson prese la pila e ficcò la testa nel buco.

«Che mi venga un accidente!» esclamò. «È il ciarlatano.» Poi si girò verso i Wilson. «Mi spiace che sia accaduto a voi. Riconosco la vittima nonostante le sue condizioni; si chiamava Dennis Hodges e questa casa era sua, come probabilmente saprete.»

Angela guardò David, sentendosi correre un brivido lungo la schiena.

«Adesso dobbiamo buttare giù il resto della parete per rimuovere il cadavere», continuò Robertson. «Vi spiace?»

«Non bisognerebbe chiamare un medico legale?» domandò Angela, sapendo che quella era la prassi, in caso di morte sospetta e quella lo era di certo.

Robertson la osservò per qualche secondo, cercando di pensare a qualcosa da dire. Non gli piaceva che gli dicessero come fare il suo lavoro, soprattutto se si trattava di una donna; il problema era che Angela aveva ragione e adesso lui non poteva ignorare la prassi.

«Dov’è il telefono?» domandò.

«In cucina», gli rispose lei.

Dovettero strapparlo a Nikki, che stava facendo telefonicamente la spola fra Caroline e Arni per raccontare loro i dettagli più eccitanti sulla scoperta di un cadavere nella cantina di casa sua.

Quando il medico legale fu chiamato, l’intera parete delle scale venne abbattuta e David procurò una prolunga per poterci vedere meglio. Il cadavere si era conservato abbastanza bene, ma nella parte inferiore della faccia erano allo scoperto le ossa delle mandibole e quasi tutti i denti. La parte superiore, invece, era intatta, con gli occhi orrendamente aperti e un solco coperto di muffa all’attaccatura dei capelli.

«Quella pila di roba là nell’angolo fa pensare a sacchetti di cemento vuoti», notò Robertson, puntandovi contro la luce della pila. «E lì c’è la cazzuola. Diavolo, si è portato tutto dentro con lui, forse si è trattato di un suicidio.»

David e Angela si guardarono, pensando la stessa cosa: o Robertson era l’investigatore peggiore del mondo, oppure era un appassionato di humour nero.

«Mi domando che cosa siano quelle carte», disse ancora Robertson, dirigendo la luce della torcia su un certo numero di fogli sparsi in fondo a quella tomba improvvisata.

«Sembrano fotocopie», osservò David.

«Ehi, guardate lì!» Robertson indirizzò il fascio di luce su un attrezzo parzialmente coperto dal cadavere, una specie di piede di porco piatto.

«Che cos’è?» domandò Davijd.

«Un palanchino, un attrezzo che può servire a scopi diversi, usato soprattutto per le demolizioni.»

Nikki chiamò dalla cucina, avvisando che era arrivato il medico legale, e Angela salì a riceverlo.

Il dottor Tracy Cornish era un uomo magro di media altezza, con gli occhiali dalla montatura di metallo, che portava una valigetta da medico in pelle nera, di vecchio tipo.

Angela si presentò e spiegò di essere una patologa. Quando domandò al dottor Cornish se avesse una specializzazione in medicina legale, lui rispose di no, spiegando che però lavorava da anni come medico legale del distretto e aveva perciò molta pratica.

«Gliel’ho chiesto perché io stessa sono molto interessata alla medicina legale», spiegò Angela, che non aveva avuto l’intenzione di metterlo in imbarazzo.

Quando fu portato davanti al cadavere, il dottor Cornish lo fissò a lungo. «Interessante», disse alla fine. «Lo stato di conservazione è particolarmente buono. Da quanto tempo era scomparso?»

«Da circa otto mesi», rispose Robertson.

«Che cosa può fare un luogo fresco e asciutto!» commentò il dottor Cornish. «Questo sottoscala ha funzionato come una dispensa. È asciutto anche iopo tutta questa pioggia.»

«Come mai quelle ossa in evidenza?» domandò David.

«Roditori, probabilmente», rispose lui, chinandosi ad aprire la valigetta.

David rabbrividì al pensiero dei topi che mangiavano carne umana, ma, gettando un’occhiata alla moglie, vide che lei era affascinata dall’indagine.

Il dottor Cornish prese parecchie foto, fra cui diversi primi piani molto ravvicinati, poi si infilò i guanti di gomma e tolse da quel sepolcro tutti gli oggetti in esso contenuti, chiudendoli in sacchetti di plastica. Quando prese i fogli di carta, tutti gli si affollarono intorno e lui si assicurò che nessuno li toccasse.

«Sono referti del Bartlet Community Hospital», osservò David.

«Scommetto che queste sono macchie di sangue», disse il dottor Cornish, indicando alcune larghe chiazze marroni. Mise tutti i fogli in un sacchetto che sigillò ed etichettò.

Una volta sistemati gli oggetti, prestò la sua attenzione al cadavere. Per prima cosa gli frugò le tasche e trovò immediatamente il portafogli con i soldi ancora dentro, oltre a un certo numero di carte di credito intestate a Dennis Hodges.

«Be’, non è stata una rapina», commentò Robertson.

Poi il dottor Cornish tolse al cadavere l’orologio, che funzionava ancora, segnando l’ora esatta.

«Qualche fabbrica di pile dovrebbe approfittarne per uno spot pubblicitario», fu il macabro commento di Robertson. Morris fu l’unico a ridere.

Quindi il medico legale prese un sacco molto più grande degli altri e chiese a Morris di aiutarlo a mettervi dentro il cadavere.

«Che cosa ne direbbe di chiudere prima le mani in sacchetti di plastica?» suggerì Angela.

Lui ci pensò sopra, disse che era una buona idea e la mise subito in pratica.

Un quarto d’ora dopo, i Wilson rimasero finalmente soli e, visto che a tutti e tre era passato l’appetito, si sistemarono nel salottino. Nikki accese il televisore, David ravvivò il fuoco e Angela si mise a leggere. Verso le otto, decisero comunque di mangiare qualcosa e si misero a tavola. Per allentare la tensione dovuta alla macabra scoperta, David provò a farci sopra qualche battuta, ma né Angela né Nikki l’apprezzarono.

Dopo gli esercizi respiratori andarono tutti a letto, ma Angela non riusciva a prender sonno. Non si era mai accorta di quanto fosse rumorosa quella casa, soprattutto in una notte di vento e di pioggia. Dalla canna fumaria della stanza si levava un sordo lamento e dalla cantina arrivava il rumore della caldaia.

Una serie improvvisa di colpi la fece balzare dal letto.

«Che cos’è?» sussurrò nervosa, scuotendo David.

«Che cosa?» chiese lui, mezzo addormentato.

Angela gli disse di ascoltare le i colpi si ripeterono. «Questo!» gridò.

«Sono le imposte che sbattono contro il muro. Per amor di Dio, calmati!»

Angela si sdraiò di nuovo, ma i suoi occhi rimasero spalancati. Aveva ancora meno sonno di quando si era coricata.

«Non mi piace quello che sta succedendo qui intorno», disse e sentì David gemere in segno di risposta.

«Sul serio», continuò. «Non riesco a credere che siano cambiate così tante cose in pochi giorni. Lo sentivo che stava per accadere qualcosa.»

«Ti riferisci in particolare al ritrovamento del cadavere di Hodges?»

«Mi riferisco a tutto quanto. Al tempo che è cambiato, alle molestie di Wadley, alla morte di Marjorie, alle piazzate di Kelley e adesso al cadavere in cantina.»

«Siamo stati efficienti», cercò di scherzare David. «Siamo riusciti a mettere insieme tutte le cose negative nello stesso momento.»

«Io parlo sul serio e…» Angela fu interrotta da uno strillo proveniente dalla stanza di Nikki.

In un attimo, lei e David si precipitarono dalla figlia e la trovarono seduta sul letto, con un’espressione imbambolata. Accanto a lei stava Rusty, che esprimeva la stessa confusione.

Si era trattato di un incubo, in cui c’era mostro in cantina. Angela e David si sedettero accanto a lei e cercarono di consolarla, poi decisero che la cosa migliore era di farla dormire con loro nel lettone. Nikki acconsentì e tutti e tre si diressero verso la camera da letto. Purtroppo David passò tutta la notte sul bordo del letto, perché invitare Nikki significava stare anche con Rusty.

Загрузка...