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Sabato 23 ottobre


Preoccupato com’era per Mary Ann Schiller, David si alzò all’alba e sgattaiolò fuori senza svegliare nessuno. Attraversò il ponte sul Roaring proprio mentre il sole faceva capolino a oriente e si godette la pedalata nell’aria frizzantina, abbracciando con lo sguardo i campi e i rami ricoperti di brina.

Le condizioni di Mary Ann erano stazionarie, ed era comparsa una forte diarrea, curata tempestivamente dal personale dell’unità di terapia intensiva. David riesaminò fin dall’inizio quel caso e non gli vennero nuove idee, allora si decise a telefonare a un suo ex professore, sicuro di non disturbarlo perché sapeva che abitualmente si alzava di buon’ora. Incuriosito dal caso di Mary Ann, il professore si offrì di partire immediatamente per Bartlet e David ne fu commosso.

Mentre lo aspettava, passò in rassegna i pazienti ricoverati e li trovò tutti bene, compreso Jonathan Eakins. Avrebbe potuto dimetterlo, ma volle essere prudente, considerata la sua cardiopatia, e decise di tenerlo un altro giorno in ospedale.

Quando il professore arrivò, ascoltò attentamente le spiegazioni dettagliate di David, come se fosse ancora un suo allievo durante il tirocinio, poi visitò Mary Ann, ma non scoprì nulla di nuovo.

David lo accompagnò all’auto e tornò a casa. Quel sabato non avrebbe giocato a pallacanestro, non aveva voglia di confrontarsi con l’aggressività e la competitività di Kevin.

Trovò Angela e Nikki che stavano facendo colazione e decise di dedicarsi alla casa. Scese in cantina, tirò via i nastri di plastica messi dalla polizia e portò di sopra i doppi vetri, passando dalla scala che dava direttamente sul cortile posteriore.

Quando Nikki ebbe terminato i suoi esercizi respiratori, lo raggiunse e, con aria complice, gli domandò: «Quand’è che facciamo…»

Lui si portò l’indice alle labbra, accennando con la testa verso la finestra della cucina, da cui Angela avrebbe potuto sentire e disse: «Appena abbiamo finito». Aveva terminato di applicare i doppi vetri a tutto il primo piano e disse a Nikki che doveva mettere via i telai vuoti.

Lei lo aiutò volentieri e, dopo pochi minuti, i telai erano tutti accatastati di fianco alle scale della cantina, nello stesso punto dove stavano prima i doppi vetri. Poi padre e figlia annunciarono ad Angela che sarebbero andati a fare compere in città e balzarono ognuno sulla propria bicicletta.

Angela li guardò allontanarsi, contenta di vederli così allegri, ma già dopo qualche minuto cominciò a sentirsi a disagio, da sola in quella grande casa. Ogni scricchiolio la faceva sobbalzare e non riusciva a concentrarsi sul libro che stava leggendo. Si alzò, chiuse a chiave tutte le porte e, nell’entrare in cucina, non poté fare a meno di immaginare le pareti coperte di sangue.

«Non posso continuare a vivere così», disse ad alta voce. «Ma che cosa devo fare?»

Sfiorò il piano del tavolo, chiedendosi se le gambe avrebbero ancora reagito al Luminol, adesso che le aveva strofinate vigorosamente con il disinfettante più potente che aveva trovato dal signor Staley. No, non le piaceva l’idea di un assassino in libertà, però sapeva anche che David aveva ragione nel dire che era pericoloso ficcare il naso in quell’omicidio. Si mise a sfogliare l’elenco telefonico alla voce «investigatori privati». Trovò parecchie ditte di vigilanza, ma anche qualche investigatore, fra cui un certo Phil Calhoun, a Rutland, cittadina che si trovava poco lontano da Bartlet.

Senza pensarci due volte, Angela compose il numero e le rispose una voce d’uomo rauca e decisa. Quasi balbettando, disse che voleva che si indagasse su un caso di omicidio.

«Interessante», commentò Calhoun.

Angela cercò d’immaginarsi come fosse la persona che stava all’altra estremità del filo. A giudicare dalla voce, doveva essere un uomo robusto, dalla spalle larghe, con i capelli scuri e magari anche i baffi.

«Ci potremmo incontrare», gli propose.

«Vuole che venga io lì o preferisce venire lei?»

Angela ci pensò per un attimo. Non voleva che David scoprisse che cosa stava combinando, non ancora.

«Verrò io.»

«Allora l’aspetto», disse Calhoun, dopo averle spiegato come arrivare da lui.

Angela scrisse un biglietto per David e Nikki, in cui annunciava di essere andata a fare la spesa, e corse via.

Trovò facilmente la casa di Calhoun, che fungeva da studio e da abitazione. Nel vialetto d’ingresso era parcheggiato un camioncino semicabinato con la rastrelliera per il fucile dietro la cabina. Sul paraurti posteriore c’era un adesivo: QUESTO VEICOLO È SALITO SUL MONTE WASHINGTON.

Calhoun non corrispondeva affatto all’immagine romantica dell’investigatore privato che si era fatta Angela. Era sì alto e robusto, ma eccessivamente sovrappeso e inoltre era più anziano di quanto la voce rivelasse. Il viso aveva un colorito terreo, ma gli occhi erano vivaci. Una camicia scozzese, un paio di pantaloni da lavoro retti da bretelle e un berretto da baseball con il nome di una ditta scritto sulla visiera, costituivano il suo semplice abbigliamento.

«Le dà fastidio se fumo?» chiese ad Angela, dopo averla fatta accomodare su un divano piuttosto liso e avere preso in mano una scatola di sigari.

«Siamo a casa sua», rispose lei.

«Allora, questo omicidio?»

Angela riassunse i fatti di cui era a conoscenza.

«Mi pare un caso interessante», commentò Calhoun. «Sarei felice di occuparmene, con compenso orario. Se vuole sapere qualcosa di me, sono un poliziotto statale in pensione, vedovo. Ha domande da farmi?»

Angela lo soppesò. Era un tipo laconico, come quasi tutti gli abitanti del New England, e pareva schietto, cosa che lei apprezzò. Oltre a questo, non aveva modo di giudicarlo o di valutare la sua competenza.

«Come mai ha lasciato la polizia?» gli chiese.

«Pensionamento obbligatorio.»

«Ha mai seguito un caso di omicidio?»

«Non da civile.»

«Che genere di casi segue, di solito?»

«Problemi matrimoniali, furti nei negozi… quel genere di cose.»

«Pensa che saprebbe cavarsela con questo caso?»

«Non c’è dubbio», affermò Calhoun. «Io sono cresciuto in una cittadina del Vermont molto simile a Bartlet. Ho familiarità con l’ambiente, conosco persino alcune delle persone che ci vivono. So come sono le rivalità che covano per anni sotto la cenere e com’è la mentalità della gente. Sono l’uomo adatto per questo lavoro, perché posso porre domande senza farmi notare.»

Durante il breve viaggio di ritorno a casa, Angela continuò a chiedersi se avesse fatto bene a ingaggiare Phil Calhoun e quando e come l’avrebbe detto a David.

A casa trovò Nikki da sola perché David aveva fatto un salto in ospedale, e le chiese come mai non avevano chiamato Alice.

«Papà ha detto che sarebbe tornato subito e che probabilmente tu saresti arrivata prima di lui», rispose la bimba.

Angela non era d’accordo che sua figlia rimanesse sola in quella casa, anche per poco tempo, e considerando incauto il comportamento di David si rassicurò di avere fatto bene a ingaggiare l’investigatore privato.

Mandò Nikki a controllare che tutte le porte fossero chiuse a chiave e intanto le preparo uno spuntino. Quando David tornò a casa, lo prese in disparte e discusse con lui sul fatto che aveva lasciato Nikki da sola. Lui dapprima rimase sulla difensiva, poi promise che in futuro non lo avrebbe più fatto.

Padre e figlia si misero di nuovo a tramare qualcosa insieme, ma Angela non ci fece caso, presa com’era dalla preparazione della cena. Il sabato pomeriggio si divertiva a sfogliare libri di cucina e a sbizzarrirsi in qualche piatto particolare, per rifarsi della fretta con cui doveva cucinare per il resto della settimana.

Scese in cantina per prendere degli ossi di vitello dal congelatore e, fatto qualche gradino, si rese conto che era la prima volta che andava là sotto da quando c’era stata la polizia. Si accorse di essere un po’ nervosa e fu quasi sul punto di tornare indietro per chiedere a David di accompagnarla, ma non volle rendersi ridicola e proseguì.

Vide con piacere che il luogo in cui era stato trovato il cadavere di Hodges non era più visibile, perché era nascosto dai telai vuoti dei doppi vetri. Stava per aprire il freezer, quando udì un rumore provenire proprio da sotto la scala. Si girò e vide con orrore che i telai si stavano muovendo. Sbatté le palpebre, sperando che fosse la sua immaginazione, ma i telai si mossero ancora di più, fino a cadere a terra con un rumore assordante.

Angela cercò di gridare, ma dalla gola non le uscì alcun suono. Cercò di muoversi, ma si sentiva le gambe paralizzate. Riuscì finalmente a fare qualche passo ma, prima ancora di riuscire a raggiungere i primi gradini, dal sottoscala uscì il viso parzialmente scheletrito di Hodges, poi l’uomo tutto intero, che si guardò intorno, come disorientato, quindi le si avvicinò tendendo le mani.

Il terrore mise ad Angela le ali ai piedi, ma prima che lei raggiungesse la scala, Hodges l’afferrò per un polso.

Questo servì a sbloccarle la voce. Gridando, Angela cercò di divincolarsi, ma poi vide uscire dal sottoscala un altro essere mostruoso più piccolo, ma con un volto identico. In quel momento si accorse che Hodges stava ridendo.

Non le rimase che fissare ammutolita David e Nikki che si toglievano le loro maschere di gomma, ridendo come forsennati.

Dapprima Angela provò imbarazzo, ma poi l’umiliazione lasciò posto alla collera. Non ci trovava niente da ridere in quello scherzo. Spinse da parte David e corse su per le scale.

Padre e figlia continuarono a ridere, ma ben presto le loro risate si attenuarono, a mano a mano che si rendevano conto di quanto l’avevano spaventata.

«Pensi che sia davvero arrabbiata?» chiese Nikki al padre.

«Temo di sì. Meglio andare su e parlarle.»

Angela si rifiutò persino di guardarli, mentre si dava da fare in cucina.

«Ma ci dispiace», ripeté David per la terza volta.

«A tutti e due», insistette Nikki. Entrambi dovevano sforzarsi di reprimere qualche risatina.

«Eravamo sicuri che non ci saresti cascata, nemmeno per un attimo», tornò alla carica David. «Davvero! Pensavamo che te ne saresti accorta subito, era talmente evidente!»

«Ma sì, mamma. Sabato prossimo è Halloween. Saranno i nostri costumi per Halloween. Ne abbiamo fatto fare uno anche per te.»

«Potete buttarlo subito nella spazzatura», replicò Angela.

Nikki ci rimase proprio male e gli occhi le si riempirono di lacrime.

A quel punto la collera di Angela venne meno. «Su, non prendertela», consolò la figlia, abbracciandola. «Lo so che ho avuto una reazione sproporzionata, ma mi sono spaventata davvero. E non penso che sia uno scherzo divertente.»


Phil Calhoun non vedeva l’ora di buttarsi nel caso più interessante che gli fosse mai capitato. Così, a metà pomeriggio, si diresse a Bartlet, dove parcheggiò il camioncino accanto alla biblioteca ed entrò con passo deciso nella stazione di polizia.

«Wayne c’è?» chiese all’agente di servizio e questi gli indicò il corridoio.

Calhoun lo percorse fino all’ufficio di Robertson che, appena lo vide, lo invitò a entrare e a sedersi.

«Lavori fino a tardi anche di sabato», osservò Calhoun, offrendogli un sigaro. «Ci dev’essere un sacco da fare, qui a Bartlet.»

«Mi tocca riempire una montagna di maledette scartoffie e ogni anno è peggio.»

Calhoun annuì, poi con tono casuale aggiunse: «Ho letto sul giornale che è saltato fuori il vecchio Hodges».

«Sì, ha fatto un po’ di scalpore, ma adesso è morto un’altra volta, finalmente! Era un rompicoglioni.»

«Come mai?»

La faccia di Robertson diventò rossa quando sciorinò nuovamente la sua litania contro il dottor Dennis Hodges.

«Da quello che sento, non era l’uomo più popolare della città», commentò Calhoun e si sentì rispondere da una risata sarcastica. «Vi date molto da fare su questo caso?» domandò poi, con l’aria di pensare ad altro.

«Bah! Quando è scomparso abbiamo fatto vedere che andavamo in giro di qua e di là, tanto per dare l’impressione di fare qualcosa. Non gliene importava niente a nessuno, nemmeno a sua moglie. Praticamente la sua ex moglie, si era già trasferita a Boston prima che lui scomparisse.»

«E adesso? Il Boston Globe ha detto che la polizia di Stato sta investigando.»

«Anche loro fanno soltanto finta di darsi da fare. Il medico legale ha chiamato il pubblico ministero, che ha mandato una giovane assistente a controllare. Quest’assistente ha chiamato la polizia di Stato, che a sua volta ha mandato sul posto qualche tecnico della scientifica. Ma poi mi ha telefonato un tenente della polizia di Stato e io gli ho detto che non valeva la pena che sprecassero il loro tempo e che ci avremmo pensato noi. E come tu sai anche meglio di me, la polizia di Stato prende l’imbeccata da noi locali, quando si tratta di un caso come questo, a meno che non ci siano pressioni da qualche parte, come l’ufficio del pubblico ministero o qualche uomo politico. Diavolo, hanno casi ben più urgenti a cui badare e noi pure. E poi, sono trascorsi otto mesi, la pista è fredda, ormai»

«In questo periodo a che cosa state lavorando?» domandò ancora Calhoun.

«C’è stata rata serie di stupri e aggressioni nel parcheggio dell’ ospedale,»

«Non siete riusciti a pizzicare lo stupratore?»

«Ancora no.»

Calhoun uscì dalla stazione di polizia e si avviò lungo Main Street, fermandosi alla libreria. Jane Weincoop, la proprietaria, era stata amica di sua moglie e appena lo vide lo invitò nel proprio ufficio. Lui le disse che passava di lì per caso e, dopo che ebbero parlato per un po’ del più e del meno, riuscì a portare la conversazione su Dennis Hodges.

«La scoperta del cadavere ha destato sensazione a Bartlet, non c’è che dire», ammise Jane.

«Ho sentito che non era un tipo molto popolare. Chi è che ce l’aveva con lui, in particolare?»

Jane soppesò il suo interlocutore con lo sguardo, poi gli chiese se si trattasse di una domanda professionale o personale.

«Pura curiosità», rispose lui, «ma apprezzerei molto che tenessi per te le mie domande.»

Mezz’ora dopo, Calhoun era di nuovo in Main Street e stringeva in mano un elenco di più di venti persone che, per un motivo o per l’altro, non avevano avuto Hodges in simpatia. L’elenco comprendeva il presidente della banca, il proprietario della stazione della Mobil vicino all’interstatale, il ritardato che in città svolgeva lavoretti vari, il capo della polizia, alcuni negozianti e mezza dozzina di medici.

Calhoun era stupito dalla lunghezza della lista, ma non dispiaciuto: essendo pagato a ore, avrebbe guadagnato di più.

In Main Street c’era una farmacia, dove entrò a fare quattro chiacchiere con il farmacista, Harley Strombell, fratello di un suo ex collega. Anche Harley, come Jane, capì subito che le sue domande avevano uno scopo professionale, ma promise di essere discreto. Aggiunse qualche altro nome alla lista che Calhoun aveva già in mano, fra cui il proprio, quello di Ned Banks, proprietario della fabbrica di stampelle, quelli di Harold Traynor e di Helen Beaton.

«Perché Hodges non le piaceva?» domandò Calhoun.

«Una questione personale», rispose il farmacista e raccontò di quando Hodges, senza il minimo preavviso e senza una spiegazione, gli aveva fatto chiudere la piccola succursale della farmacia che gestiva all’ interno dell’ ospedale.

«Capisco che fosse necessario per l’espansione dell’ospedale avere la propria farmacia», aggiunse. «Ma Hodges ha gestito la cosa proprio male.»

Nel lasciare la farmacia, Calhoun si domandò di quanto si sarebbe ancora allungata quella lista, prima che potesse cominciare a circoscrivere le sue indagini su poche persone veramente sospette. Era arrivato a venticinque nomi e doveva ancora attivare altri contatti utili.

Dal momento che i negozi stavano chiudendo, si diresse all’Iron Horse Inn, il ristorante preferito di sua moglie, dove aveva festeggiato con lei anniversari di matrimonio e compleanni. Appena vi mise piede, si sentì sommergere da piacevoli ricordi.

Carleton Harris, il barista, lo riconobbe subito e gli versò un bicchierino di whisky, poi si riempì un boccale di birra per brindare insieme.

«Stai lavorando a qualcosa d’interessante in questo periodo?» gli domandò dopo avere bevuto.

«Penso di sì», rispose Calhoun, chinandosi sul bancone. Carleton fece istintivamente la stessa cosa.


Mentre si preparavano per andare a letto, Angela non disse una sola parola a David ed evitò persino di guardarlo. Lui, però, non sopportava i musi lunghi e cercò di chiarire le cose.

«L’ho capito che sei ancora arrabbiata con me per lo scherzo delle maschere», le disse. «Non potremmo parlarne?»

«Che cosa ti fa pensare che sia arrabbiata?»

«Dai, Angela. Mi stai rifilando la punizione del silenzio da quando Nikki è andata a letto.»

«Sono stata male nel vederti fare una cosa simile, quando sapevi benissimo come sono rimasta sconvolta per quel cadavere. Pensavo che fossi più sensibile.»

«Ti ho detto che mi dispiace. Non avrei mai pensato che ti saresti spaventata così tanto e poi non era solo uno scherzo per divertirsi. L’ho fatto per Nikki.»

«Che cosa vuoi dire?»

«Con gli incubi che aveva, ho pensato di aiutarla a superare questo momento con un po’ di humour. Era un trucco per farla scendere di nuovo in cantina senza che avesse paura e ha funzionato: era talmente eccitata all’idea di farti una sorpresa che non ha avuto paura.»

«Potevi almeno avvertirmi.»

«Ripeto: non pensavo che ti saresti spaventata così e poi, era la cospirazione alle tue spalle a divertire Nikki.»

Angela capì che David era colto dai rimorsi e la sua collera svanì del tutto. Appoggiò lo spazzolino e gli andò vicino, abbracciandolo. «Mi dispiace di avere reagito in quel modo», mormorò. «Devo essere stressata. Ti amo.»

«Anch’io ti amo. Avrei potuto dirtelo e tu avresti potuto far finta di non saperlo, ma non ci ho pensato. Ultimamente sono distratto e stressato, anch’io. Mary Ann Schiller sta per morire, lo so.»

«Suvvia, non si può mai esserne sicuri.»

«Non so che cosa fare», ammise David, e poi raccontò alla moglie del suo ex professore che era venuto espressamente da Boston e che non aveva scoperto niente.

«Sei ancora depresso?»

«Sì. Stamattina mi sono svegliato alle quattro e un quarto e non sono più riuscito a dormire. Continuo a pensare che ci sia qualcosa che mi sfugge nei miei pazienti; forse sono colpiti da un virus sconosciuto, ma è come se avessi le mani legate. È frustrante dover pensare a Kelley e al CMV ogni volta che ordino un’analisi di laboratorio o un consulto e dover fare in fretta quando visito i pazienti in ambulatorio.»

«Sei costretto a visitare più pazienti?» domandò Angela, mentre dal bagno passavano in camera da letto.

David annuì. «Il CMV fa forti pressioni su di me tramite Kelley e così devo smettere di parlare con i miei pazienti e rispondere alle loro domande. Non è difficile farlo, perché per noi medici è facile trattarli dall’alto in basso, ma a me non piace. Molti indizi per arrivare alla diagnosi giusta vengono proprio dai commenti spontanei che i pazienti fanno quando passiamo un po’ di tempo con loro.»

«Devo confessarti una cosa», disse Angela all’improvviso.

«Di che cosa stai parlando?»

«Anch’io oggi ho fatto qualcosa di cui avrei dovuto parlarti, prima di farla.»

«Che cosa?»

Scivolando sotto le coperte, Angela rivelò a David di avere ingaggiato Calhoun per indagare sull’omicidio di Hodges.

David la fissò, poi distolse lo sguardo senza dire niente e lei capì che era in collera.

«Ho seguito il tuo suggerimento; mi hai detto che era pericoloso indagare per conto mio», gli disse. «Ora ci pensa un professionista.»

«Che cosa lo rende un professionista?»

«È un poliziotto in pensione.»

«Speravo che avresti smesso con gli isterismi, riguardo all’affare Hodges. Assoldare un investigatore! È buttare soldi al vento.»

«No, se per me è importante», ribatté Angela. «E dovrebbe essere importante anche per te, se vuoi che io continui a vivere in questa casa.»

David sospirò, spense la luce sul proprio comodino e si tenne il più lontano possibile dalla moglie.

Lei sapeva che avrebbe dovuto avvertirlo prima di fare un passo simile. Sospirò anche lei e spense la luce. Forse non aveva agito nel modo giusto, ma restava convinta che ingaggiare Calhoun era stata una buona idea.

Si era appena spenta la luce, quando sentirono diversi colpi piuttosto forti, seguiti dall’abbaiare furioso di Rusty.

Entrambi riaccesero le lampade e si alzarono, poi corsero in corridoio, dove David accese la luce. Rusty era in cima alle scale e guardava verso il piano terreno immerso nell’ombra, ringhiando con tutta la ferocia di cui era capace.

«Hai controllato che tutte le porte fossero chiuse a chiave?» domandò Angela al marito.

«Sì», rispose lui e si avvicinò a Rusty. Lo accarezzò sulla testa e gli chiese: «Che cosa c’è, cucciolone?»

Rusty scese le scale e si mise ad abbaiare verso la porta d’ingresso. Mentre Angela rimaneva affacciata alla ringhiera, al piano di sopra, David scese e aprì la porta.

«Sta’ attento», lo ammonì lei.

«Perché non metti una di quelle maschere di Halloween?» le disse David. «Chiunque sia, si spaventerà a morte.»

«Smettila di scherzare, non c’è niente di divertente.»

David uscì sulla veranda, tenendo Rusty per il collare. Il cielo era punteggiato di stelle e il quarto di luna era sufficiente a illuminare lo spazio intorno alla casa, almeno fino alla strada. Non c’era niente di strano.

David si voltò per rientrare in casa e notò che sulla porta era stato inchiodato un biglietto scritto a macchina: PENSATE AI FATTI VOSTRI. DIMENTICATE HODGES.

Quando ritornò di sopra, lo mostrò ad Angela che disse: «Lo porterò alla polizia».

«Nemmeno per sogno! Magari viene proprio da lì», replicò lui. Tornò a letto e spense la luce, mentre Rusty si diresse verso la camera di Nikki, che per fortuna non si era svegliata.

Dopo pochi minuti il trillo del telefono li fece sobbalzare. Rispose David. Angela lo vide incupirsi a mano a mano che ascoltava.

«Mary Ann Schiller ha avuto un altro attacco epilettico ed è morta», le riferì lui dopo avere riattaccato, poi sollevò una mano e si coprì gli occhi. Angela gli si avvicinò e lo abbracciò, sapeva che stava piangendo in silenzio.

«Mi chiedo se questo renda le cose più facili», mormorò lui asciugandosi gli occhi. Quindi cominciò a vestirsi.

Angela lo accompagnò alla porta sul retro, che poi chiuse di nuovo a chiave. Ritornando in cucina, vide con gli occhi della mente la fluorescenza del Luminol sulle pareti. Rabbrividì. Non le piaceva rimanere sola in quella casa enorme, di notte, senza David.


Appena arrivato in ospedale, David incontrò il marito di Mary Ann, il figlio adolescente e qualche altro parente. Tutti lo ringraziarono per gli sforzi fatti.

«È rimasta con noi più a lungo di quanto avesse previsto il dottor Mieslich», disse Donald, il marito. Aveva gli occhi rossi e i capelli scomposti. «Aveva persino ripreso il lavoro alla biblioteca.»

David gli assicurò che Mary Ann non aveva sofferto, ma dovette ammettere di non conoscere la causa degli attacchi epilettici.

«Non se li aspettava?» gli domandò Donald.

«Per niente, specialmente considerando che la risonanza magnetica era normale», spiegò lui e poi, spinto da un impulso del momento, contravvenne agli ordini di Kelley e domandò se la famiglia autorizzava l’autopsia.

«Non lo so», disse Donald, guardando gli altri che sembravano anche loro indecisi.

«Pensateci e domani me lo farete sapere. Terremo il corpo qui.»

Lasciato il reparto di terapia intensiva, David non aveva voglia di andare a casa. Arrivò fino alla stanza delle infermiere del secondo piano e diede un’occhiata alla cartella clinica di Jonathan Eakins. Una delle infermiere di notte gli disse allora che Jonathan era sveglio e stava guardando la televisione.

David arrivò fino alla sua camera e cacciò dentro la testa. «Tutto a posto?» gli domandò.

«Che dottore sgobbone!» lo accolse Jonathan con un sorriso. «Dovrebbe stare a vivere qui!»

«Come vanno gli ingranaggi del suo cuore, regolari?»

«Precisi come un orologio. Quando me ne posso andare a casa?»

«Probabilmente oggi. Vedo che le hanno cambiato il letto.»

«Eh, sì. Non sono riusciti ad aggiustare quell’altro. Grazie per averci pensato di persona. Prima i miei reclami non li aveva ascoltati nessuno.»

«Non è niente, ci vediamo domani.»

Salito in macchina, David mise in moto, ma non ingranò la marcia. Gli erano morti tre pazienti in una settimana e non poteva fare a meno di porsi delle domande sulla propria competenza. Forse, se avessero avuto un altro medico, quei tre sarebbero stati ancora vivi.

Si riscosse, dicendosi che non poteva rimanere tutta la notte nel parcheggio a rimuginare, poi ingranò la marcia e si diresse verso casa. Dal vialetto vide che c’era una luce accesa e se ne stupì. Mentre parcheggiava, apparve sulla soglia sua moglie.

«Stai bene?» gli chiese mentre richiudeva alle sue spalle la porta posteriore.

«Sto meglio. Come mai sei ancora alzata?» David appese il cappotto nello stanzino posteriore e le fece cenno di precederlo in cucina.

«Non riuscivo a dormire, sapendo che tu eri fuori», gli rispose lei. «Non dopo il biglietto che hanno inchiodato alla nostra porta e ho pensato che, se tu devi uscire nel cuore della notte, come adesso, voglio avere una rivoltella.»

David la prese per mano e la fece fermare. «Non ci sarà nessuna rivoltella in casa nostra», le disse. «Le conosci anche tu le statistiche sugli incidenti dovuti alle armi da fuoco in case dove ci sono bambini.»

«Quelle statistiche non si riferiscono alle famiglie di medici con un figlio unico e intelligente come Nikki», obiettò Angela. «E poi mi assumo io la responsabilità di farle conoscere bene l’arma e di metterla in guardia.»

David le lasciò andare il braccio e si diresse su per le scale. «Non ho né l’energia né la forza emotiva per mettermi a discutere con te.»

«Bene», commentò lei.

David fece una doccia e, quando s’infilò a letto, vide che sua moglie era sveglissima, proprio come lui.

«Ieri sera, dopo cena, mi hai detto che vorresti potermi aiutare, ti ricordi?» le domandò.

«Certo.»

«Un’ora fa ho chiesto alla famiglia Schiller se autorizzano l’autopsia. Me lo faranno sapere domani.»

«Purtroppo non dipende dalla famiglia. L’ospedale non fa autopsie sui pazienti del CMV.»

«Ma io ho un’altra idea: potresti fare l’autopsia tu stessa.»

Lei ci pensò. «Forse potrei. Domani è domenica e il laboratorio rimane chiuso, tranne per le emergenze.»

«È proprio quello che pensavo.»

«Potrei venire in ospedale con te e parlare con la famiglia.» L’idea sembrava ad Angela sempre più allettante.

«Se tu potessi scoprire la ragione per cui Mary Ann è morta, credo che mi sentirei molto meglio», le disse David.

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