21 Analisi cerebrale


XLV

«Mi dispiace» disse Siever Genarr, guardando madre e figlia con un’espressione che già di per sé era di scusa. «Avevo detto a Marlene che il mio lavoro non era molto impegnativo, e subito dopo, in pratica, c’è stata una specie di piccola crisi della nostra rete energetica, e ho dovuto rimandare questo colloquio. Comunque, la crisi è finita, e adesso sappiamo che non era nulla di serio. Sono perdonato?»

«Certo, Siever» rispose Eugenia Insigna, chiaramente agitata. «Non dico che siano stati tre giorni tranquilli, però. Sento che più stiamo qui più aumenta il pericolo per Marlene.»

«Io non ho affatto paura di Eritro, zio Siever» intervenne Marlene.

«E io penso che Pitt non possa fare nulla contro di noi su Rotor» disse la madre. «Lo sa, altrimenti non ci avrebbe mandate qui.»

«E io cercherò di fare il mediatore onesto e di soddisfare tutte e due» disse Genarr. «Anche se Pitt non può fare quello che gli pare apertamente, indirettamente può fare parecchie cose, quindi, Eugenia, non devi permettere che questa tua paura di Eritro ti porti a sottovalutare la determinazione e l’ingegnosità di Pitt, perché è pericoloso. Tanto per cominciare, se ritorni su Rotor, violerai la sua ordinanza, e Pitt può farti imprigionare o mandarti in esilio su Nuova Rotor, o perfino rispedirti qui.

"In quanto a Eritro, certo, non bisogna neppure sottovalutare il pericolo del Morbo, anche se sembra che sia cessato nella sua forma virulenta iniziale. Non sei l’unica a non volere esporre Marlene a dei rischi, Eugenia. Sono riluttante quanto te.»

E Marlene mormorò esasperata: «Non c’è nessun rischio».

Sua madre disse: «Siever, non credo che dovremmo continuare questa discussione in presenza di Marlene».

«Ti sbagli. Voglio che sia presente anche lei, invece. Ho la sensazione che Marlene sappia meglio di noi cosa dovrebbe fare. È lei la custode della sua mente, e noi dobbiamo interferire il meno possibile.»

Eugenia si lasciò sfuggire una specie di gemito gutturale, ma Genarr proseguì, con una sfumatura quasi spietata nella voce. «Voglio che partecipi a questa discussione perché può fornire elementi preziosi. Voglio la sua opinione.»

«Ma la conosci la sua opinione. Lei vuole uscire all’esterno, e tu stai dicendo che dobbiamo lasciarle fare quello che vuole perché in qualche modo lei è magica» replicò Eugenia.

«Nessuno ha parlato di magia, o di lasciarla uscire tranquillamente. Io proporrei di fare degli esperimenti, con tutte le debite precauzioni.»

«In che modo?»

«Tanto per cominciare, vorrei un’analisi cerebrale.» Genarr si rivolse alla ragazza. «Capisci che è necessario, Marlene? Hai qualche obiezione?»

Marlene corrugò leggermente la fronte. «Ho fatto delle analisi cerebrali. Tutti le hanno fatte. Senza analisi cerebrale non puoi iniziare la scuola. Ogni volta che si fa una visita medica…»

«Lo so» l’interruppe garbato Genarr. «In questi ultimi tre giorni sono riuscito a combinare qualcosa, nonostante tutto. E ho qui» e posò la mano su un fascio di tabulati sulla sinistra della scrivania «la computerizzazione di tutte le analisi cerebrali che hai fatto.»

«Ma non stai dicendo tutto, zio Siever» osservò Marlene, calma.

«Ah!» esclamò Eugenia, con un accenno di esultanza. «Cosa nasconde, Marlene?»

«È un po’ agitato per me. Non crede fino in fondo nel mio senso di sicurezza, nella mia incolumità. È incerto.»

«Com’è possibile, Marlene?» chiese Genarr. «Sono sicurissimo della tua incolumità.»

Ma Marlene ebbe un’illuminazione improvvisa e disse raggiante: «Secondo me, è per questo che hai aspettato tre giorni, zio Siever. Hai provato a convincere te stesso, ti sei imposto una sicurezza fittizia, perché io non notassi la tua incertezza. Ma non ha funzionato. La vedo ugualmente».

«Se si vede, Marlene, è soltanto perché sei molto importante per me, talmente importante che anche il minimo rischio mi disturba» spiegò Genarr.

Eugenia intervenne rabbiosa. «Se anche il minimo rischio ti disturba, cosa credi che provi, io, che sono sua madre? Così, visto che eri incerto, ti sei procurato quelle analisi cerebrali, violando la privacy medica di Marlene.»

«Dovevo informarmi. E l’ho fatto. Sono insufficienti.»

«Insufficienti? In che senso?»

«Poco dopo la nascita della Cupola, quando il Morbo imperversava, abbiamo messo a punto un analizzatore cerebrale più preciso e un programma più efficiente per l’interpretazione dei dati. Queste apparecchiature sono rimaste sempre su Eritro. Dal momento che intendeva nascondere a tutti i costi l’esistenza del Morbo, Pitt non ha voluto che su Rotor apparisse all’improvviso un nuovo analizzatore cerebrale perfezionato. Avrebbe potuto suscitare degli interrogativi inopportuni, delle dicerie imbarazzanti. Assurdo, secondo me, ma anche in questo caso Pitt ha ottenuto ciò che voleva. Quindi, Marlene, non sei mai stata esaminata in modo accurato, e io voglio un controllo col nostro analizzatore.»

Marlene arretrò. «No.»

Sul volto di Eugenia apparve un’espressione speranzosa. «Perché no, Marlene?»

«Perché quando zio Siever l’ha detto… la sua incertezza è aumentata di colpo.»

«No, non è…» Genarr s’interruppe, alzò le braccia, e le lasciò ricadere, rassegnato. «Bah, tanto, a che serve? Marlene, cara, se all’improvviso ti sono sembrato preoccupato, è perché abbiamo bisogno di un’analisi cerebrale della massima precisione da usare come modello di normalità mentale. Così, se il contatto con Eritro dovesse provocare la minima alterazione mentale, non riscontrabile altrimenti, né osservandoti né parlandoti, l’analisi cerebrale ci permetterà di individuarla ugualmente. Be’, non appena parlo di un’analisi cerebrale di precisione, penso alla possibilità di scoprire appunto qualche cambiamento impercettibile… e questa idea suscita automaticamente un senso di preoccupazione. Ecco cosa vedi. Sentiamo, Marlene, quant’è grande la mia incertezza?»

«Non molto, però è presente. Il guaio è che so solo che sei incerto. Non sono in grado di cogliere il perché. Forse questa analisi cerebrale speciale è pericolosa.»

«Impossibile. È stata usata tante… Marlene, tu sai che Eritro non ti danneggerà. Non sai anche che l’analisi cerebrale non ti danneggerà?»

«No.»

«Sai che ti danneggerà?»

Una pausa, poi Marlene rispose riluttante: «No».

«Sei sicura riguardo a Eritro, e non sei sicura riguardo all’analisi cerebrale… Com’è possibile?»

«Non lo so. So solo che Eritro non mi danneggerà, ma non so se l’analisi cerebrale sia in grado di nuocermi.»

Sul volto di Genarr apparve un sorriso. Non ci volevano doti particolari per capire che quel sorriso esprimeva un sollievo enorme.

«Perché questo ti fa sentire meglio, zio Siever?» domandò Marlene.

«Perché se tu stessi inventando questa tua capacità intuitiva, per darti importanza o per qualche illusione fantastica o per romanticismo, la sfoggeresti sempre, in qualsiasi circostanza. Invece, no. Fai delle scelte. Sai certe cose, e certe altre non le sai. Per questo, sono molto più propenso a crederti quando sostieni di essere certa che Eritro non ti danneggerà, e non ho più paura che l’analisi cerebrale possa rivelare qualcosa di allarmante.»

Marlene si girò verso la madre. «Ha ragione, mamma. Si sente molto meglio, e anch’io. È evidente. Non capisci anche tu?»

«Quello che capisco non ha importanza» rispose Eugenia. «Io non mi sento meglio.»

«Oh, mamma» mormorò Marlene. Poi, alzando la voce, si rivolse a Genarr. «Farò l’analisi.»


XLVI

«Non mi sorprende» sussurrò Siever Genarr.

Stava osservando i grafici intricati, quasi floreali, del computer che scorrevano lentamente, colorati. Eugenia Insigna, al suo fianco, fissava senza comprendere.

«Non ti sorprende, cosa, Siever?» chiese.

«Non sono in grado di darti una spiegazione precisa perché non conosco bene il linguaggio specialistico. E se dovesse spiegarlo Ranay D’Aubisson, la nostra esperta locale del settore, nessuno dei due capirebbe. Comunque, Ranay mi ha fatto notare questo…»

«Sembra un guscio di chiocciola.»

«Risalta grazie al colore. Stando a Ranay, è un indice di complessità, piuttosto che una indicazione diretta di forma fisica. Questa parte è atipica. In genere, non si trova nei cervelli.»

Le labbra di Eugenia tremarono. «Intendi dire che Marlene è già stata colpita?»

«No, assolutamente. Ho detto atipica, non anormale. Non credo sia il caso di spiegare la differenza a una scienziata come te. Devi ammettere che Marlene è diversa. In un certo senso, sono contento che ci sia la chiocciola. Se il suo cervello fosse completamente tipico, dovremmo chiederci: "Perché Marlene è così, allora? Da dove viene la sua percettività? È un’abile simulazione, o siamo degli sciocchi?".»

«Ma come fai a sapere che non è qualcosa di… di…»

«Patologico? Impossibile. Abbiamo tutte le sue analisi cerebrali, dall’infanzia in poi. Questa atipicità è sempre stata presente.»

«Non mi hanno detto nulla. Non me ne hanno mai parlato…»

«Naturale. Quelle vecchie analisi erano piuttosto primitive e non si vedeva, almeno non in maniera tale da balzare agli occhi. Ma adesso che abbiamo questa analisi dettagliata e siamo in grado di vedere chiaramente questo particolare, possiamo esaminare le analisi precedenti e individuarlo. Cosa che Ranay ha già fatto. Credimi, Eugenia, questa tecnica avanzata di analisi cerebrale dovrebbe essere usata anche su Rotor. Pitt ha fatto male a sopprimerla; è stata una delle sue mosse più stupide. È costosa, naturalmente.»

«Pagherò» mormorò Eugenia.

«Non essere sciocca. La spesa è a carico della Cupola. Dopo tutto, questo potrebbe aiutarci a risolvere il mistero del Morbo. Almeno, sarà la spiegazione che darò se dovessero fare domande. Bene, siamo a posto. Il cervello di Marlene è stato registrato con una precisione senza precedenti. Se dovesse subire qualche alterazione, anche minima, si vedrà subito sullo schermo.»

«Non hai idea di quanto sia spaventoso, questo» disse Eugenia.

«Sai, ti capisco. Ma Marlene è così fiduciosa che non posso fare a meno di essere d’accordo con lei. Sono convinto che questo forte senso di sicurezza abbia un fondamento logico.»

«Com’è possibile?»

Genarr indicò il guscio di chiocciola. «Tu non hai questo, e nemmeno io, quindi nessuno dei due è in grado di stabilire da dove provenga il senso di sicurezza di Marlene. Però lei è sicura, quindi dobbiamo lasciarla uscire sulla superficie.»

«Perché dobbiamo esporla a questo rischio? Puoi spiegarmelo?»

«Per due motivi. Primo, Marlene sembra molto decisa, e ho la sensazione che prima o poi otterrà quel che vuole, se è tanto decisa. In tal caso, tanto vale accogliere la sua richiesta di buon grado e mandarla fuori, dato che non riusciremo a trattenerla a lungo. Secondo, è possibile che in questo modo scopriamo qualcosa sul Morbo… non so cosa, però anche un piccolissimo indizio che consenta di ricavare altri dati sul Morbo sarà preziosissimo.»

«Non quanto la mente di mia figlia.»

«La mente di Marlene sarà al sicuro. Tanto per cominciare, anche se ho fiducia in Marlene e credo che non ci siano rischi, farò il possibile per ridurli al minimo, per amor tuo. Innanzitutto, non la lasceremo uscire per un po’. Posso sorvolare Eritro insieme a lei, per esempio. Vedrà laghi e pianure, colline, canyon. Potremmo arrivare addirittura fino al mare. È un mondo che possiede una bellezza spoglia, l’ho visto una volta, ma è brullo, sterile. Marlene non vedrà nessuna forma di vita. Ci sono solo i procarioti nell’acqua, che naturalmente sono invisibili. Può darsi che questa desolazione uniforme le ispiri un senso di ripugnanza, può darsi che Marlene perda completamente interesse per l’esterno. Comunque, se vorrà ancora uscire, se vorrà sentire ugualmente il suolo di Eritro sotto i piedi, faremo in modo che indossi una tutaE.»

«Cosa sarebbe una tutaE?»

«Una tuta protettiva adatta a Eritro. È semplice… è una specie di tuta spaziale, solo che non è pressurizzata perché all’esterno non c’è il vuoto. È fatta di plastica e di tessuto, è leggerissima e non intralcia i movimenti. Il casco con lo schermo protettivo per gli infrarossi è un po’ più massiccio, e ci sono una riserva d’aria artificiale e un dispositivo per la ventilazione. In conclusione, la persona che indossa una tutaE non è esposta all’ambiente esterno di Eritro. Inoltre, ci sarà qualcuno con Marlene.»

«Chi? Non l’affiderei a nessuno, mi fiderei solo di me stessa.»

Genarr sorrise. «Saresti la compagna meno adatta. Non sai nulla di Eritro, e hai paura del pianeta. Non ti permetterei mai di andare là fuori. Ascolta, l’unica persona affidabile non sei tu… sono io.»

«Tu?» Eugenia lo fissò a bocca aperta.

«Perché no? Qui non c’è nessuno che conosca Eritro meglio di me, e se Marlene è immune al Morbo, sono immune anch’io. In dieci anni su Eritro, non ho mai avvertito il minimo disturbo. E soprattutto, so pilotare un mezzo aereo, il che significa che non avremo bisogno di un pilota. Senza contare che, se uscirò con Marlene, potrò osservarla attentamente. Se noterò la minima traccia di anormalità nel suo comportamento, la riporterò nella Cupola perché venga esaminata con l’analizzatore cerebrale in un battibaleno.»

«Quando sarà ormai troppo tardi, naturalmente.»

«No. Non necessariamente. Se pensi che il Morbo colpisca sempre con la massima intensità quando si manifesta, ti sbagli. Non è così. Ci sono stati dei casi leggeri, anche molto leggeri, e le persone colpite in modo lieve possono condurre un’esistenza abbastanza normale. Ma a Marlene non accadrà nulla. Ne sono sicuro.»

Eugenia rimase seduta in silenzio, l’aria sparuta e indifesa.

Istintivamente, Genarr la cinse col braccio. «Su, Eugenia, dimentica tutto per una settimana. Ti prometto che Marlene non uscirà per almeno sette giorni… magari anche di più, se riuscirò a indebolire la sua determinazione mostrandole Eritro dall’aria. E durante il volo si troverà in un ambiente chiuso, a bordo dell’aereo, e sarà al sicuro come qui nella Cupola. E adesso sai che ti dico… sei un’astronoma, no?»

Eugenia lo guardò e disse fiacca: «Certo, lo sai benissimo».

«Il che significa che non guardi mai le stelle. Gli astronomi non lo fanno mai. Guardano solo i loro strumenti. Adesso è scesa la notte sulla Cupola; raggiungiamo la sala d’osservazione e ammiriamo il cielo. La notte è limpidissima, e guardare le stelle è l’ideale per sentirsi tranquilli e in pace. Fidati di me.»

XLVII

Era vero. Gli astronomi non guardavano le stelle. Non era necessario. Un astronomo, tramite il computer opportunamente programmato, dava istruzioni ai telescopi, agli obiettivi e allo spettroscopio.

Gli strumenti svolgevano il lavoro, le analisi, le simulazioni grafiche. L’astronomo si limitava a fare le domande, poi studiava le risposte. Per questo, non c’era bisogno di guardare le stelle.

Del resto, come si faceva a osservare le stelle rimanendo oziosi, passivi? rifletté Eugenia. Un astronomo poteva farlo? La vista delle stelle avrebbe dovuto provocare subito un senso di inquietudine nell’astronomo. C’era del lavoro che lo attendeva, c’erano delle domande da porre, dei misteri da risolvere, e dopo un po’, sicuramente, l’astronomo sarebbe tornato in laboratorio e avrebbe messo in funzione qualche apparecchiatura, distraendosi con la lettura di un romanzo o guardando uno spettacolo olovisivo.

Eugenia disse queste cose all’amico, mentre Genarr girava per l’ufficio assicurandosi di non avere lasciato nulla in sospeso prima di uscire. (Siever controllava sempre che tutto fosse a posto, ricordò Eugenia, pensando alla loro gioventù. Una caratteristica che lei aveva trovato irritante allora, ma forse avrebbe dovuto ammirarla. Siever aveva tante virtù, rifletté, e Crile d’altra parte…) Eugenia bloccò spietatamente i propri pensieri e li deviò in un’altra direzione.

Genarr stava dicendo: «Se devo essere sincero, nemmeno io uso molto spesso la sala d’osservazione. Sembra sempre che ci sia qualcos’altro da fare. E quando vado là, quasi sempre mi ritrovo solo. Sarà piacevole andarci in compagnia. Su, vieni!».

La guidò fino a un piccolo ascensore. Era la prima volta che Eugenia prendeva un ascensore nella Cupola, e per un attimo le parve di essere di nuovo su Rotor… solo che non avvertì alcun cambiamento dell’attrazione pseudogravitazionale, e non si sentì spingere leggermente contro una parete per l’effetto Coriolis, cosa che sarebbe successa su Rotor.

«Eccoci» annunciò Genarr, invitandola con un cenno a uscire. Eugenia lasciò la cabina, incuriosita, entrando in una sala vuota, e quasi subito arretrò.

«Siamo esposti?» chiese.

«Esposti?» ripeté Genarr, perplesso. «Ah, intendi dire, siamo a contatto con l’atmosfera di Eritro? No, no. Non temere. Ci troviamo in una semisfera di vetro diamantato antigraffio. Un meteorite lo sfonderebbe, naturalmente, ma i cieli di Eritro sono praticamente privi di meteoriti. Questo tipo di vetro esiste anche su Rotor, però» e a questo punto nella sua voce affiorò una nota di orgoglio «il nostro è di qualità migliore, e là non hanno vetrate di queste dimensioni.»

«Vi trattano bene quaggiù» commentò Eugenia, toccando adagio il vetro per assicurarsi che ci fosse davvero.

«Devono trattarci bene, se vogliono che la gente continui a venire qui» disse Genarr. Poi tornò a parlare della semisfera. «Certo, a volte piove, ma quando piove la visibilità è limitata comunque dalle nubi. E quando il cielo schiarisce, la bolla si asciuga in fretta. Rimane un residuo, e durante il giorno, una miscela detergente speciale pulisce la bolla. Siediti, Eugenia.»

Eugenia prese posto su una sedia morbida, comoda, che si inclinò quasi spontaneamente e le permise di ritrovarsi con lo sguardo rivolto verso l’alto. Sentì il lieve sibilo di un’altra sedia che si spostava sotto il peso di Genarr. Poi le piccole luci di servizio, che proiettavano un chiarore sufficiente a rivelare la presenza e la posizione delle sedie e dei tavolini della sala, si spensero. Nell’oscurità di un mondo disabitato, il cielo, sereno e scuro come velluto nero, si riempì di scintille.

Eugenia soffocò un’esclamazione. Sapeva com’era il cielo in teoria. L’aveva visto in tanti modi… mappe, carte, simulazioni, fotografie… ma mai nel suo aspetto reale. Senza accorgersene, non cercò di invividuare le cose interessanti, le particolarità sconcertanti, non si concentrò sui lati misteriosi che l’avrebbero spinta a mettersi subito al lavoro. Non guardò nessun corpo celeste, bensì i disegni che formavano.

Nella preistoria, pensò, era stato lo studio di quei disegni, di quelle strutture composte, non lo studio delle stelle in sé, a dare agli antichi le costellazioni, a segnare la nascita dell’astronomia.

Genarr aveva ragione. Un senso di pace l’avvolse, come un velo impalpabile.

Dopo un po’, quasi trasognata, disse: «Grazie, Siever».

«Perché mi ringrazi?»

«Per esserti offerto di accompagnare Marlene. Perché rischi la tua mente per mia figlia.»

«Non rischio la mente. Non ci accadrà nulla. E poi, provo un… un sentimento paterno per lei. In fin dei conti, Eugenia, ci conosciamo da parecchio tempo, e io ho… ho sempre avuto… molta stima di te.»

«Lo so» disse Eugenia, cominciando ad avvertire un senso di colpa. Aveva sempre saputo cosa provasse Genarr… lui non riusciva a nasconderlo. Prima di conoscere Crile, la reazione di Eugenia era stata di rassegnazione, in seguito era subentrata l’irritazione. «Se qualche volta dovessi aver ferito i tuoi sentimenti, Siever, mi spiace davvero.»

«Oh, non dirlo nemmeno» fece Genarr sottovoce. Poi seguì un lungo silenzio, la pace era sempre più intensa, ed Eugenia si augurò di cuore che non arrivasse nessuno a infrangere quella strana parentesi di serenità che l’avvinceva.

A un certo punto, Genarr disse: «Ho una mia teoria, sai? Credo di sapere perché la gente non frequenta la sala d’osservazione, qui… o su Rotor. Non hai mai notato che anche quella di Rotor non è molto frequentata?».

«A Marlene piaceva andare lassù ogni tanto» rispose Eugenia. «Mi ha spiegato che di solito era sola. Nell’ultimo anno, più o meno, diceva che le piaceva osservare Eritro. Avrei dovuto ascoltarla con maggiore attenzione…»

«Marlene è insolita… Secondo me, la cosa che da fastidio alla maggior parte della gente e le impedisce di venire quassù è quella.»

«Cosa?» domandò Eugenia.

«Là… Guarda.» Genarr stava indicando un punto del cielo, ma nell’oscurità Eugenia non vedeva il suo braccio. «Quella stella molto luminosa… la più luminosa.»

«Vuoi dire il Sole… il nostro Sole… il Sole del Sistema Solare…»

«Sì. È un intruso. Se non fosse per quella stella così luminosa, questo cielo sarebbe quasi identico al cielo visto dalla Terra. Alfa Centauri è in una posizione piuttosto anomala e Sirio è leggermente spostata, ma non ci faremmo caso. A parte queste cose, il cielo che vedi sarebbe quello osservato dai Sumeri cinquemila anni fa. Se non fosse per il Sole.»

«E tu pensi che il Sole tenga lontane le persone dalla sala d’osservazione?»

«Sì, può darsi che sia un fenomeno inconscio, però la vista del Sole le turba, secondo me. Si tende a pensare che il Sole sia lontano, lontanissimo, irraggiungibile, che appartenga quasi a un altro universo. Invece, eccolo là, in cielo, luminoso, che si impone alla nostra attenzione, che suscita in noi sensi di colpa per averlo abbandonato.»

«Ma allora, perché i bambini e gli adolescenti non frequentano la sala d’osservazione? In pratica, loro non sanno nulla del Sole e del Sistema Solare.»

«Noi adulti diamo un esempio negativo. Quando saremo morti noi, quando per tutti i rotoriani che verranno dopo il Sistema Solare sarà soltanto un’espressione, nient’altro che parole, Rotor si sentirà di nuovo padrone di questo cielo, e questo posto sarà affollato… se esisterà ancora.»

«Pensi che non esisterà più?»

«Non possiamo prevedere il futuro, Eugenia.»

«Finora, sembra che prosperiamo, che ci stiamo sviluppando.»

«Già, è vero… Ma è quella stella luminosa, l’intruso, che mi preoccupa.»

«Il nostro vecchio Sole. Che può farci? Non può raggiungerci.»

«Certo che può» replicò Genarr, fissando l’astro scintillante nella parte occidentale del cielo. «Quelli che abbiamo lasciato alle nostre spalle, sulla Terra e sulle Colonie, scopriranno Nemesis prima o poi. Forse l’hanno già scoperta. E forse hanno l’iperassistenza. Secondo me, devono aver messo a punto l’iperassistenza poco dopo la nostra partenza. La nostra scomparsa improvvisa deve averli stimolati parecchio.»

«Siamo partiti quattordici anni fa. Perché non sono già qui?»

«Forse li spaventa il pensiero di un viaggio di due anni. Sanno che Rotor ha tentato, ma non sanno che il tentativo ha avuto successo. Forse pensano che i resti di Rotor siano sparsi nello spazio dal Sole a Nemesis.»

«A noi il coraggio di tentare non è mancato.»

«No, non lo avevamo il coraggio. Credi che Rotor avrebbe tentato se non ci fosse stato Pitt? È stato Pitt a trascinarci, e dubito che ci sia un altro Pitt sulle Colonie o sulla Terra. Lo sai che Pitt non mi piace. Non approvo i suoi metodi, la sua morale, o la sua mancanza di senso morale, la sua tortuosità, non approvo la sua capacità di essere freddo e spietato, che ha dimostrato di possedere mandando qui una ragazza come Marlene nella speranza di danneggiarla seriamente… eppure, se guardiamo i risultati, può darsi che Pitt passi alla storia come un grand’uomo.»

«Un grande capo» lo corresse Eugenia. «Tu sei un grand’uomo, Siever. C’è una differenza netta.»

Seguirono altri attimi di silenzio, finché Genarr non disse sottovoce: «Aspetto sempre che ci seguano, che arrivino qui. È questa la mia più grande paura, e sembra che si accentui quando vedo l’intruso che brilla in cielo. Ormai sono quattordici anni che abbiamo lasciato il Sistema Solare. Cos’hanno fatto loro in questi quattordici anni? Non te lo sei mai chiesto, Eugenia?».

«Mai» rispose lei, semiaddormentata. «Le mie preoccupazioni sono più immediate.»


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