Silenzio!
A Marlene piaceva moltissimo… soprattutto perché poteva romperlo se solo lo desiderava. Si chinò a raccogliere un sassolino e lo gettò contro una roccia. Un lieve tonfo, poi il sassolino cadde sul terreno e si fermò.
Poiché aveva lasciato la Cupola con gli indumenti che avrebbe indossato su Rotor, era perfettamente libera.
Si era allontanata dalla Cupola avviandosi direttamente verso il ruscello, senza nemmeno soffermarsi a controllare i punti di riferimento.
Le ultime parole di sua madre erano state una implorazione piuttosto debole… «Ti prego, Marlene, ricorda che hai detto che rimarrai in vista della Cupola.»
Marlene aveva sorriso un istante, ma non aveva prestato attenzione. Forse sarebbe rimasta nei paraggi, o forse no. Non intendeva lasciarsi imporre restrizioni, indipendentemente dalle promesse che era stata costretta a fare per il quieto vivere. In fin dei conti, aveva con sé un ricetrasmettitore di segnali. Avrebbero potuto localizzarla in qualsiasi momento. E lei avrebbe potuto servirsi dell’apparecchio per individuare la direzione della Cupola.
Se avesse avuto un incidente, se fosse caduta o si fosse fatta male in qualche modo, avrebbero potuto soccorrerla.
Se l’avesse colpita un meteorite… be’, sarebbe morta. Non ci sarebbe stato nulla da fare, anche se fosse stata vicino alla Cupola. Anche col pensiero inquietante dei meteoriti, era tutto così meraviglioso e tranquillo su Eritro.
Su Rotor, sempre rumore.
Dovunque si andasse, l’aria vibrava di onde sonore che martellavano i timpani stanchi. Sulla Terra doveva essere anche peggio… otto miliardi di esseri umani, trilioni di animali, tempeste, scrosci d’acqua dal mare e dal cielo. Una volta aveva provato ad ascoltare una registrazione intitolata Rumori della Terra, era trasalita, e si era stancata quasi subito.
Ma lì su Eritro c’era un silenzio meraviglioso.
Giunse al ruscello. L’acqua le scorreva accanto gorgogliando. Marlene raccolse un ciottolo dentellato e lo gettò nell’acqua, e si sentì un tonfo leggero. I suoni non erano proibiti su Eritro; erano semplicemente distribuiti con parsimonia come ornamenti occasionali che servivano a rendere più prezioso il silenzio circostante.
Batté il piede sul fondo argilloso della sponda. Di nuovo un lieve tonfo, e un’impronta vaga. Si chinò, chiuse la mano a coppa, prese un po’ d’acqua, e la versò sul terreno di fronte a sé. Il terreno si inumidì e diventò più scuro in certi punti… chiazze cremisi sullo sfondo rosa. Versò altra acqua, poi premette il piede destro con forza. Quando alzò la scarpa, c’era un’impronta più profonda.
C’erano delle rocce sparse qua e là nel ruscello, e Marlene le usò come appoggi per guadare.
Quindi proseguì, camminando spedita, dondolando le braccia, respirando a fondo. Sapeva che lì la percentuale di ossigeno era più bassa rispetto a Rotor. Se avesse corso, si sarebbe stancata in fretta, ma non aveva nessuna voglia di correre.
Correndo, non avrebbe potuto gustare con calma il suo mondo.
Voleva guardare ogni cosa!
Si voltò. La Cupola era ancora visibile, soprattutto la bolla che ospitava gli strumenti astronomici. Marlene si irritò. Non era abbastanza lontana. Voleva poter girare su se stessa e vedere l’orizzonte come un cerchio perfetto anche se irregolare, ininterrotto, senza alcun segno della presenza umana (a parte lei).
Doveva chiamare la Cupola? Dire a sua madre che sarebbe sparita per un po’? No, avrebbero solo litigato. Tanto, ricevevano la sua portante, e avrebbero capito che era viva, stava bene, e si stava muovendo nella zona. Se l’avessero chiamata, li avrebbe ignorati, decise Marlene. Oh, sì! Dovevano lasciarla in pace.
I suoi occhi si stavano abituando al rosa di Nemesis e del terreno tutt’intorno. Non era solo rosa. C’erano cento sfumature… porpora, arancione, quasi giallo in certi punti. Col tempo, con il progressivo adattamento, quel mondo sarebbe diventato una nuova tavolozza di colori per Marlene, variegata come Rotor, ma più riposante.
Cosa sarebbe successo se un giorno gli uomini si fossero insediati su Eritro, introducendo la vita, costruendo città? Lo avrebbero rovinato? O avrebbero tenuto presente l’esempio della Terra e si sarebbero comportati in modo diverso, prendendo quel mondo intatto e trasformandolo in qualcosa che si avvicinasse al loro ideale, ai loro desideri?
Ai desideri di chi?
Ecco il problema. Non tutti avrebbero avuto le stesse idee, e avrebbero litigato, perseguendo fini inconciliabili. Sarebbe stato meglio che Eritro rimanesse deserto?
Ma sarebbe stato giusto, dal momento che gli uomini avrebbero potuto goderselo tanto? Marlene non voleva lasciarlo, questo era certo. Su Eritro provava un senso di calore. Non sapeva perché, ma si sentiva più a suo agio lì che su Rotor.
Era qualche vago ricordo atavico della Terra? I suoi geni sentivano il richiamo di un mondo enorme e sterminato, un desiderio intenso che una minuscola città artificiale che ruotava nello spazio non poteva soddisfare? Com’era possibile? La Terra era diversissima da Eritro a parte le dimensioni. E se la Terra era nei suoi geni, perché non era nei geni di ogni essere umano?
Ma una spiegazione doveva esserci. Marlene scosse la testa quasi volesse liberarsi la mente, e prese a volteggiare come se si trovasse in mezzo a uno spazio infinito. Strano che Eritro non sembrasse spoglio, sterile. Su Rotor, si vedevano acri di cereali e frutteti, una caligine verde e ambra, e l’irregolarità rettilinea delle strutture umane. Lì su Eritro, invece, si vedeva soltanto il terreno ondulato, disseminato di rocce di ogni dimensione che sembravano sparse alla rinfusa da qualche mano gigantesca… strane forme cupe e silenziose, e in mezzo e attorno scorrevano rigagnoli e ruscelletti. E non c’era vita, se si escludevano le miriadi di minuscole cellule simili a germi che rifornivano l’atmosfera di ossigeno grazie all’energia della luce rossa di Nemesis.
E Nemesis, come qualsiasi nana rossa, avrebbe continuato a emettere la propria energia con parsimonia per un paio di centinaia di miliardi di anni, facendo in modo che Eritro e i suoi piccoli procarioti rimanessero al caldo e tranquilli durante tutto quel periodo. Il Sole della Terra e altre stelle luminose ancor più giovani sarebbero morte, ma Nemesis avrebbe continuato a brillare immutata, Eritro avrebbe ruotato intorno a Megas immutato, e anche l’esistenza dei procarioti sarebbe andata avanti fondamentalmente immutata.
Gli esseri umani non avevano il diritto di scendere su quel mondo immutato e di cambiarlo. Però se fosse stata sola su Eritro, Marlene avrebbe avuto bisogno di cibo… e di compagnia.
Poteva tornare alla Cupola di tanto in tanto, per le provviste, o per soddisfare il suo bisogno di contatti umani, continuando però a trascorrere la maggior parte del tempo sola con Eritro. Ma gli altri non l’avrebbero seguita? Come poteva impedirglielo? E anche se fossero stati in pochi, non avrebbero rovinato l’eden? Non lo stava già rovinando lei… anche lei da sola?
«No!» gridò Marlene. Gridò perché era smaniosa di vedere se sarebbe riuscita a far vibrare l’atmosfera aliena e a costringerla a trasmetterle delle parole.
Sentì la propria voce, ma il terreno piatto soffocò qualsiasi eco. Il grido si spense non appena fu uscito dalle sue labbra.
Marlene ruotò ancora su se stessa. La Cupola era un’ombra indistinta all’orizzonte. Si poteva quasi ignorarla… quasi. Marlene non voleva vederla affatto. Voleva vedere solo se stessa ed Eritro.
Udì il lieve sospiro del vento, e capì che stava soffiando più forte. Non abbastanza forte da sentirsi. E la temperatura non era scesa, né era sgradevole.
Solo un lieve "Ahhhhh…"
Marlene lo imitò allegra. «Ahhhhhh…»
Alzò lo sguardo al cielo, incuriosita. Le previsioni del tempo avevano detto che la giornata sarebbe stata serena. Era possibile che su Eritro scoppiassero all’improvviso dei temporali? Il vento sarebbe aumentato sempre più, fino a diventare sferzante? Le nubi sarebbero sfrecciate nel cielo, e sarebbe scesa la pioggia prima che lei potesse tornare alla Cupola?
Che sciocchezza! Un pensiero sciocco come quello dei meteoriti. Certo che pioveva su Eritro, ma adesso c’erano soltanto alcune nuvolette rosa sopra di lei. Si muovevano pigre sullo sfondo scuro e sgombro del cielo. Sembrava che non ci fosse nessun temporale in vista.
«Ahhhhh» mormorò il vento. «Ahhhhh eeeee…»
Un doppio suono. Marlene corrugò la fronte. Cosa poteva produrre quel suono? Il vento da solo, no di certo. Avrebbe dovuto incontrare un ostacolo e superarlo per modulare il proprio sibilo. E lì attorno non c’erano ostacoli.
«Ahhhhh eeeee ehhhh…»
Un triplo suono, adesso. Con l’accento sul secondo suono.
Marlene si guardò intorno, perplessa. Non capiva da dove provenisse. Se si sentiva quel suono, doveva esserci qualcosa che vibrava, eppure lei non vedeva nulla, non percepiva nulla.
Eritro sembrava deserto e silenzioso. Non poteva produrre alcun suono.
«Ahhhhh eeeee ehhhh…»
Di nuovo. Più chiaro. Aveva l’impressione che fosse nella sua testa, e a quel pensiero ebbe un tuffo al cuore, rabbrividì. Le venne la pelle d’oca, sulle braccia… se ne accorse senza bisogno di guardare.
No, la sua testa non poteva avere nulla che non andasse. Nulla!
Rimase in attesa, ed eccolo di nuovo. Più forte. Ancor più chiaro. Il tono più deciso, tutt’a un tratto… come se stesse imparando e migliorando.
Imparando? Imparando, cosa?
E a malincuore, molto a malincuore, Marlene pensò: "È come se qualcuno incapace di pronunciare le consonanti stesse cercando di pronunciare il mio nome…"
Quasi fosse un segnale, o quasi quel pensiero avesse liberato una nuova scarica di energia, o acuito la sua immaginazione, Marlene sentì…
«Mahhh leee nehhh.»
D’istinto, senza rendersene conto, portò le mani alle orecchie e le coprì.
"Marlene" pensò.
E un attimo dopo il suono si sforzò di imitarla. «Mahrleeneh.»
Poi, di nuovo, più sciolto, quasi con naturalezza. «Marlene.»
Marlene rabbrividì, e riconobbe la voce. Era Aurinel, Aurinel di Rotor, che non aveva più visto dal giorno in cui, su Rotor, gli aveva detto che la Terra sarebbe stata distrutta. Non aveva quasi più pensato a lui in seguito… ma le rare volte che aveva pensato ad Aurinel, aveva sofferto, sempre.
Perché sentiva la sua voce se lui non era lì… o qualunque voce, se lì non c’era nulla?
«Marlene.»
Marlene si arrese. Era il Morbo… nonostante fosse stata così sicura che non l’avrebbe colpita.
Cominciò a correre alla cieca, verso la Cupola, senza fermarsi a cercarla con lo sguardo.
Stava urlando, e non lo sapeva.
Erano intervenuti. Avevano sentito che all’improvviso si stava avvicinando di corsa. Due guardie in tutaE erano uscite subito e l’avevano sentita urlare.
Ma le urla erano cessate prima che la raggiungessero. Marlene aveva anche rallentato e si era fermata… prima di accorgersi della loro presenza, apparentemente.
Quando le guardie erano arrivate accanto a lei, le aveva guardate tranquilla e le aveva lasciate di stucco chiedendo: «Be’? Che c’è che non va?».
Nessuno aveva risposto. Una mano si era accostata al suo gomito e Marlene l’aveva respinta.
«Non toccatemi» aveva detto. «Verrò alla Cupola, se è questo che volete, ma posso camminare da sola.»
E si era avviata in silenzio con loro. Era molto padrona di sé.
Eugenia Insigna, le labbra secche e pallide, stava cercando di non mostrarsi sconvolta. «Cos’è successo là fuori, Marlene?»
Gli occhi scuri imperscrutabili, Marlene rispose: «Nulla. Proprio nulla».
«Non dire così. Stavi correndo e gridavi.»
«L’avrò anche fatto per un po’… ma solo per un po’. Vedi, c’era silenzio, un silenzio tale che a un certo punto ho avuto l’impressione di essere diventata sorda. Sai, un silenzio assoluto. Così ho pestato i piedi e ho corso solo per sentire il rumore, e ho gridato…»
«Solo per sentire il rumore?» Eugenia aggrottò le ciglia.
«Sì, mamma.»
«E ti aspetti che ci creda, Marlene? No, non ci credo. Abbiamo sentito le tue grida, e non erano le grida di chi vuole fare rumore e basta. Erano grida di terrore. Qualcosa ti aveva spaventata.»
«Te l’ho detto. Il silenzio. La paura della sordità.»
Eugenia si rivolse alla D’Aubisson. «Dottoressa, se non si sente nulla, proprio nulla, e si è abituati a sentire sempre qualcosa, non è possibile che le orecchie immaginino di udire qualcosa tanto per sentirsi utili?»
La D’Aubisson accennò un sorriso. «Si è espressa in modo colorito, ma è vero. La privazione sensoriale può provocare delle allucinazioni.»
«Ecco cosa mi ha disturbato, credo… Ma dopo avere sentito la mia voce e i miei passi mi sono calmata. Chiedetelo alle due guardie che sono venute a prendermi. Ero calmissima quando sono arrivate, e le ho seguite fino alla Cupola senza nessun problema… Chiediglielo, zio Siever.»
Genarr annuì. «Me l’hanno detto. E poi, anche noi abbiamo visto. Molto bene, allora. Tutto risolto.»
«Assolutamente!» sbottò Eugenia, ancora pallida… di paura, o di rabbia, o per entrambe le cose. «Marlene non uscirà più. L’esperimento è finito.»
«No, mamma» ribatté Marlene, offesa.
La D’Aubisson alzò la voce, quasi a prevenire un diverbio rabbioso tra madre e figlia. «L’esperimento non è finito, dottoressa Insigna. Non è il momento di decidere se uscirà ancora o meno. Dobbiamo ancora occuparci delle conseguenze di quel che è accaduto.»
«Cosa vorrebbe dire?» chiese Eugenia.
«Voglio dire, d’accordo parlare di voci immaginarie che si sentono perché l’orecchio non è abituato al silenzio… ma queste voci immaginarie possono essere collegate anche all’insorgenza di una certa instabilità mentale.»
Eugenia rimase esterrefatta.
«Ti riferisci al Morbo di Eritro?» disse Marlene.
«Non in particolare, Marlene» rispose Ranay D’Aubisson. «Non abbiamo alcuna prova. È solo una possibilità. Quindi ci occorre un’altra analisi cerebrale. Per il tuo bene.»
«No.»
«Non dire no» insisté la D’Aubisson. «È indispensabile. Non abbiamo scelta. Bisogna farlo.»
Marlene la guardò, meditabonda. «Tu speri che abbia il Morbo. Vuoi che abbia il Morbo.»
La dottoressa s’irrigidì, le si incrinò la voce. «Che assurdità. Come osi dire una cosa simile?»
Ma adesso era Genarr che stava fissando la D’Aubisson. «Ranay, abbiamo già discusso di questo piccolo particolare riguardo Marlene… e se lei dice che tu vuoi che abbia il Morbo, be’, devi esserti tradita in qualche modo. Sempre che Marlene parli seriamente e non lo stia dicendo solo per paura o per rabbia.»
«Parlo seriamente» confermò Marlene. «Era tutta speranzosa e eccitata poco fa.»
«Be’, Ranay?» chiese Genarr, un po’ gelido. «È vero?»
«Capisco a cosa si riferisce la ragazza» rispose la D’Aubisson, aggrottando le ciglia. «Sono anni che non studio un caso di Morbo in fase avanzata. E in passato, quando la Cupola era stata appena costruita ed era ancora una struttura primitiva, in pratica mi mancavano gli strumenti adeguati per studiarlo. Professionalmente, mi piacerebbe moltissimo poter studiare in modo approfondito un caso di Morbo con le tecniche e le strumentazioni moderne, per scoprire, forse, la vera causa, la vera cura, il vero metodo preventivo. Sì, è una prospettiva eccitante. È eccitazione professionale quello che questa signorina, incapace di leggere il pensiero e senza esperienza in certe cose, interpreta come semplice gioia. Non è semplice.»
«Non sarà semplice… però è qualcosa di malvagio» replicò Marlene. «Su questo non mi sbaglio.»
«Ti sbagli… Dobbiamo fare l’analisi cerebrale, e la faremo.»
«No» disse Marlene, urlando quasi. «Dovrete costringermi o darmi dei sedativi, e allora non sarà valida.»
Eugenia intervenne, con voce tremula. «Non voglio che si faccia nulla se lei non è d’accordo.»
«Il fatto che sia d’accordo o meno non ha proprio nessuna…» iniziò la D’Aubisson, poi barcollò all’indietro portandosi una mano all’addome.
«Che succede?» chiese automaticamente Genarr.
Poi, senza attendere una risposta, mentre Eugenia accompagnava la dottoressa a un divano e la convinceva a sdraiarsi, Genarr si rivolse alla ragazza. «Marlene, accetta il test.»
«No. Lei dirà che ho il Morbo.»
«Non lo dirà. Te lo garantisco. Non lo dirà, a meno che tu non abbia davvero il Morbo.»
«Non ce l’ho.»
«Ne sono sicuro, e l’analisi cerebrale lo dimostrerà. Fidati di me, Marlene. Ti prego.»
Marlene lanciò un’occhiata alla D’Aubisson, quindi tornò a guardare Genarr. «E potrò uscire ancora su Eritro?»
«Certo. Tutte le volte che vorrai. Se sei normale… e tu sei sicura di essere normale, vero?»
«Sicurissima.»
«Allora l’analisi cerebrale lo dimostrerà.»
«Sì, ma lei dirà che non posso uscire.»
«Tua madre?»
«E la dottoressa.»
«No. Non oseranno fermarti. Su, adesso di’ che farai l’analisi cerebrale, eh?»
«D’accordo. Farò come vuole lei.»
Ranay D’Aubisson si alzò in piedi a fatica.
La dottoressa studiò attentamente l’analisi computerizzata mentre Genarr osservava.
«Un’analisi strana» mormorò la D’Aubisson.
«Lo sapevamo fin dall’inizio» disse Genarr. «È una ragazza strana. Il punto è… non c’è nessun cambiamento?»
«Nessuno.»
«Sembri delusa.»
«Non ricominciamo, Comandante. C’è una certa delusione professionale. Mi piacerebbe studiare la malattia.»
«Come ti senti?»
«Gliel’ho appena detto…»
«Intendo dire, fisicamente. Hai avuto uno strano malore, ieri.»
«Non è stato un malore. Era tensione nervosa. Non capita spesso che mi accusino di volere che qualcuno sia gravemente ammalato… e che gli altri a quanto pare ci credano.»
«Cos’è successo? Una indigestione?»
«Può darsi. Dolori addominali, in ogni caso. E vertigini.»
«Ti succede spesso, Ranay?»
«No» rispose brusca la dottoressa. «Ed è altrettanto raro che mi accusino di scorrettezza professionale.»
«Era solo una ragazza eccitabile. Perché prendersela tanto?»
«Le spiace se cambiamo argomento? Dall’analisi cerebrale non risulta alcun cambiamento. Se prima la ragazza era normale, è normale anche adesso.»
«In tal caso, qual è il tuo parere professionale? Può continuare a esplorare Eritro?»
«Dal momento che apparentemente non ha contratto nulla, non ho motivo di proibirglielo.»
«Sei disposta a non limitarti a questo e a mandarla all’esterno?»
La D’Aubisson assunse un atteggiamento ostile. «Sa che sono stata dal Commissario Pitt…» Non sembrava una domanda.
«Sì, lo so» disse Genarr.
«Mi ha chiesto di dirigere un nuovo progetto per lo studio del Morbo di Eritro, e ci sarà uno stanziamento considerevole per finanziarlo.»
«Penso che sia una buona idea, e che abbia fatto bene a scegliere te come capo del progetto.»
«Grazie. Comunque, non mi ha nominata Comandante della Cupola al suo posto. Quindi, sta a lei, Comandante, decidere se Marlene Fisher può avere il permesso di uscire sulla superficie di Eritro. Io mi limiterò a sottoporla a un’analisi cerebrale se ci saranno segni di anormalità.»
«Ho intenzione di darle il permesso di esplorare liberamente Eritro a suo piacimento. Posso contare sul tuo appoggio?»
«Dal momento che ho espresso la mia opinione professionale e le ho detto che la ragazza non ha il Morbo, io non farò nulla per ostacolarla, Comandante, però dovrà essere lei, lei solo, a dare l’ordine. E se sarà necessario mettere qualcosa per iscritto, dovrà essere lei a firmare.»
«Ma tu non cercherai ti fermarmi.»
«Non ho motivo di farlo.»
Il pranzo era terminato, e in sottofondo si sentiva una musica sommessa. Siever Genarr, che durante il pasto aveva parlato di altre cose, vista l’inquietudine di Eugenia, infine disse: «Le parole sono le parole di Ranay D’Aubisson, ma dietro c’è la forza di Janus Pitt, si sente che è stato lui a dettarle».
L’espressione di Eugenia si fece ancor più ansiosa. «Lo pensi davvero?»
«Sì… e dovresti pensarlo anche tu. Conosci Janus meglio di me. Peccato. Ranay è una scienziata in gamba, ha una mente profonda, è una brava persona, però è ambiziosa… come tutti, del resto… quindi è corruttibile. Vuole davvero passare alla storia come la debellatrice del Morbo di Eritro.»
«E per riuscirci, sarebbe disposta a mettere a repentaglio Marlene?»
«Non nel senso che voglia farlo, o che sia smaniosa di farlo… disposta nel senso… be’, sì, se non c’è altro sistema.»
«Ma qualche altro sistema dev’esserci. Mandare Marlene incontro al pericolo, come una qualsiasi cavia… è mostruoso.»
«Non dal suo punto di vista… sicuramente, non da quello di Pitt. Vale senz’altro la pena di perdere una mente, se serve a liberare un mondo e a renderlo abitabile per milioni di persone. È crudele considerare il problema in questi termini, ma le generazioni future potrebbero fare di Ranay un’eroina proprio per la sua crudeltà, ed essere d’accordo con lei che valeva la pena di perdere una mente, o anche mille… se necessario.»
«Già, la mente di qualcun altro, però.»
«Naturale. Nel corso della storia, gli esseri umani sono sempre stati pronti a sacrificare gli altri. Pitt non esiterebbe di certo. Non sei d’accordo?»
«Riguardo Pitt? Sì, eccome» rispose Eugenia, energica. «E pensare che ho lavorato con lui in tutti questi anni.»
«Quindi puoi immaginare il suo atteggiamento moralistico in un caso del genere. "Il massimo bene per il massimo numero", direbbe. Ranay ammette di avere parlato con lui durante la sua recente visita su Rotor, e sono sicurissimo che Pitt le avrà detto proprio questo… magari usando altre parole ma lasciando inalterata la sostanza.»
«E cosa direbbe Pitt se il Morbo distruggesse Marlene e rimanesse un mistero insoluto?» fece amara Eugenia. «Cosa direbbe se la vita di mia figlia venisse rovinata inutilmente? E cosa direbbe la D’Aubisson?»
«La dottoressa sarebbe infelice, ne sono certo.»
«Perché non scoprirebbe nessuna cura e non diventerebbe famosa?»
«Naturalmente, però sarebbe infelice anche per la sorte di Marlene… e si sentirebbe in colpa, suppongo. Non è un mostro. In quanto a Pitt…»
«Lui è un mostro.»
«Be’, non proprio… ma è di vedute limitate. Vede solo i suoi piani per il futuro di Rotor. Se qualcosa dovesse andare storto, dal nostro punto di vista, indubbiamente Pitt si dirà che in ogni caso Marlene avrebbe intralciato i suoi piani… quindi, poco male per Rotor. E avrà la coscienza tranquilla.»
Eugenia scosse leggermente la testa. «Vorrei che ci sbagliassimo, che Pitt e la D’Aubisson non fossero colpevoli di certe cose.»
«Anch’io lo vorrei, ma mi fido di Marlene e della sua capacità di leggere il linguaggio del corpo. Se Marlene sostiene che Ranay era felice all’idea di poter studiare un caso di Morbo, io mi fido del suo giudizio.»
«La D’Aubisson ha detto che era felice per ragioni professionali» replicò Eugenia. «Se devo essere sincera, posso anche capirla. In fin dei conti, anch’io sono una scienziata.»
«Certo.» Il volto non propriamente bello di Genarr s’increspò in un sorriso. «Tu hai lasciato il Sistema Solare e hai affrontato un viaggio senza precedenti, di anni luce, per acquisire nuove conoscenze astronomiche, pur sapendo che quel viaggio avrebbe potuto essere fatale a tutti i rotoriani.»
«Molto improbabile, a mio avviso.»
«Abbastanza improbabile da spingerti a rischiare la vita di tua figlia, una bambina di un anno. Avresti potuto lasciarla a tuo marito, così sarebbe stata al sicuro, anche se in questo modo non l’avresti più rivista. Invece, l’hai esposta al pericolo, e non per il bene di Rotor… l’hai fatto per te stessa.»
«Smettila, Siever. Stai dicendo delle cose crudeli.»
«Sto solo cercando di dimostrarti che, con un po’ di ingegnosità, è possibile considerare da due punti di vista completamente opposti quasi qualsiasi cosa. Sì, Ranay parla di piacere professionale, però Marlene ha detto che l’atteggiamento della dottoressa era malvagio e, come ti ripeto, mi fido del giudizio di tua figlia.»
«Allora, suppongo che sia ansiosa di fare uscire di nuovo Marlene» disse Eugenia, mentre gli angoli della sua bocca si piegavano all’ingiù.
«Credo di sì, però è abbastanza cauta da insistere che sia io a dare l’ordine, e ha suggerito addirittura di metterlo per iscritto. Se dovesse andare storto qualcosa, vuole assicurarsi che la responsabilità ricada su di me. Comincia a ragionare come Pitt. Il nostro caro Janus è contagioso.»
«In tal caso, Siever, non devi mandar fuori Marlene. Perché fare il gioco di Pitt?»
«Al contrario, Eugenia. Non è affatto semplice. Noi dobbiamo mandarla fuori.»
«Cosa?»
«Non c’è alternativa. E non c’è nessun pericolo per Marlene. Vedi, mi sono convinto adesso… avevi ragione quando hai parlato dell’esistenza di una forma di vita planetaria in grado di influenzarci. Hai fatto notare che io ho sperimentato l’effetto deleterio di quella influenza, come te, come la guardia… e è sempre successo quando qualcuno ha cercato di contrastare Marlene. È successo anche a Ranay, ho visto benissimo. Quando ha provato a costringerla a sottoporsi all’analisi cerebrale, Ranay si è piegata in due, stava malissimo. Quando ho persuaso Marlene ad accettare l’analisi cerebrale, Ranay si è sentita subito meglio.»
«Be’, appunto, Siever… Se sul pianeta c’è una forma di vita maligna…»
«No, aspetta, Eugenia. Io non ho detto che questa forma di vita è maligna. Anche se ha provocato il Morbo, come pensi tu, il Morbo poi è cessato. Perché ci siamo accontentati di rimanere nella Cupola, secondo la tua teoria… ma se questa forma di vita fosse davvero maligna, ci avrebbe sterminati e non avrebbe accettato questa specie di compromesso civile.»
«Non credo sia saggio basarsi sulle azioni di una forma di vita completamente aliena per dedurre i suoi sentimenti o le sue intenzioni. Quello che pensa potrebbe esulare completamente dalla nostra comprensione.»
«Sono d’accordo. Però questa forma di vita aliena non sta danneggiando Marlene. Tutto quel che ha fatto è servito a proteggere Marlene, a difenderla da qualsiasi interferenza.»
«Allora, perché Marlene era spaventata, perché si è messa a correre verso la Cupola urlando? Non credo assolutamente alla storia che ha raccontato… Marlene non stava solo cercando di fare rumore perché il silenzio la innervosiva.»
«In effetti, è poco credibile. Ma il panico è scomparso in fretta. Quando i soccorritori l’hanno raggiunta, Marlene sembrava perfettamente normale. La forma di vita l’avrà spaventata in qualche modo, immagino… se è improbabile che noi riusciamo a capirla è altrettanto improbabile che la forma di vita riesca a capire noi, suppongo… però, quando si è accorta della reazione di Marlene, è intervenuta subito e l’ha calmata. Questo spiegherebbe l’accaduto e dimostrerebbe, ancora una volta, la natura benevola di questa forma di vita.»
Eugenia stava aggrottando le ciglia. «Il guaio è, Siever, che tu hai il vizio terribile di pensare bene di tutti… e di tutto. Non posso fidarmi della tua interpretazione.»
«Fiducia o no, ti accorgerai che non possiamo ostacolare Marlene in nessun modo. Farà quel che vuole, e chi proverà a ostacolarla si ritroverà a boccheggiare per il dolore o privo di sensi.»
«Ma… cos’è questa forma di vita?» chiese Eugenia.
«Non lo so.»
«E cosa vuole da Marlene? Ecco la cosa che mi spaventa di più…»
Genarr scosse la testa. «Non lo so, Eugenia.»
E rimasero a fissarsi, impotenti.