Eugenia Insigna era in ansia. Un’ansia profonda.
«Credimi, Siever, non ho più dormito bene da quando l’hai portata fuori in aereo.» La sua voce degenerò in quello che, in una donna dal carattere meno fermo, avrebbe potuto essere descritto quasi come un piagnucolio. «Ha fatto un volo attraverso lo spazio aperto, è arrivata fino all’oceano, è rientrata dopo il crepuscolo… non le è bastato? Perché non la fermi?»
«Perché io non la fermo?» disse Siever Genarr lentamente, quasi stesse assaporando la domanda. «Perché non la fermo? Eugenia, ormai non siamo più in grado di fermare Marlene.»
«Questo è assurdo, Siever. È vigliaccheria, quasi. Ti nascondi dietro Marlene… vorresti farmi credere che è onnipotente.»
«Non è vero, forse? Sei sua madre. Ordinale di stare nella Cupola.»
Eugenia serrò le labbra. «Ha quindici anni. Non mi piace essere tirannica con lei.»
«Al contrario. Ti piacerebbe moltissimo. Ma se proverai a comportarti in modo dispotico, Marlene ti guarderà con quei suoi occhi straordinari e dirà qualcosa tipo: "Mamma, ti senti in colpa per avermi privata di mio padre, quindi hai l’impressione che l’universo stia cospirando contro di te per punirti privandoti di tua figlia, e questa non è altro che sciocca superstizione".»
Eugenia corrugò la fronte. «Siever, è la cosa più stupida che abbia mai sentito. Non penso e non provo niente del genere, nella maniera più assoluta.»
«Certo, lo so. Stavo solo inventando qualcosa. Ma Marlene non inventerà nulla. Noterà le contrazioni del tuo pollice o il movimento della tua scapola o qualcos’altro, e capirà cos’è che ti disturba, che ti preoccupa, e te lo dirà, e sarà così vero, così vergognoso, che tu cercherai di difenderti in qualche modo, e alla fine cederai, l’accontenterai, piuttosto che permetterle di continuare a mettere a nudo la tua psiche strato dopo strato.»
«Non dirmi che è quello che è successo a te.»
«Non proprio. In fondo è affezionata a me, e io ho cercato di essere molto diplomatico con lei. Ma se dovessi contrariarla, tremo al pensiero di quello che mi accadrà, so già che sarà un’esperienza orribile. Senti, sono riuscito a guadagnare tempo, a trattenerla momentaneamente. Non negarmi questo merito. Voleva uscire subito dopo il viaggio in aereo. E io l’ho convinta ad aspettare fino alla fine del mese.»
«Come hai fatto?»
«Ricorrendo a un ragionamento estremamente cavilioso, te l’assicuro. È dicembre. Le ho detto che tra tre settimane inizierà il nuovo anno, almeno se ci basiamo sul calendario standard terrestre, e le ho chiesto: "E se festeggiassimo il 2237 facendolo coincidere con l’inizio della nuova era di esplorazione e colonizzazione di Eritro? Sarebbe il modo migliore per festeggiarlo, non credi?" Perché sai, Marlene vede la sua uscita sul pianeta sotto questa luce… come l’inizio di una nuova era. Il che peggiora la situazione.»
«Perché?»
«Perché non lo considera un capriccio personale, bensì qualcosa di importanza vitale per Rotor, o addirittura per l’umanità, forse. Soddisfare un piacere personale e definirlo un nobile contributo al benessere generale è il massimo per un essere umano. Giustifica qualsiasi cosa. Io l’ho fatto, e anche tu, e tutti quanti. Pitt lo fa, più di chiunque altro. Probabilmente si è convinto di respirare solo per fornire anidride carbonica alla flora rotoriana.»
«Così, sfruttando la megalomania di Marlene, l’hai fatta aspettare.»
«Sì, e abbiamo ancora un settimana di tempo per vedere se qualcosa le farà cambiare idea. Comunque, non si è lasciata ingannare dalle mie argomentazioni. Ha accettato di aspettare, però ha detto: "Trattenendomi, pensi di conquistarti almeno in piccola parte l’affetto di mia madre, vero, zio Siever? Per te l’arrivo dell’anno nuovo non ha nessuna importanza, si vede benissimo".»
«È stata sgarbata e crudele, Siever.»
«Ha solo detto la verità, Eugenia. Anche la verità è crudele, a volte.»
Eugenia distolse lo sguardo. «Il mio affetto? Che posso dire…»
Genarr si affrettò a intervenire. «No, non c’è bisogno di parlare. In passato ti ho detto che ti amavo, e mi accorgo che invecchiando non è cambiato nulla, in pratica. Ma è un problema mio. Non mi hai mai trattato in modo ingiusto, scorretto. Non mi hai mai illuso. E se sono così sciocco da non riuscire ad accettare un no come risposta, la cosa non ti riguarda, no?»
«La tua felicità mi riguarda, in ogni caso.»
«Questo è molto importante.» Genarr abbozzò un sorriso. «Molto meglio di niente.»
Eugenia abbassò gli occhi e preferì cambiare argomento, riprendendo a parlare della figlia. «Ma, Siever, se Marlene ha capito il tuo scopo, perché ha accettato di rimandare l’uscita?»
«Non ti piacerà, Eugenia, ma è meglio che ti dica la verità. Marlene ha detto: "Aspetterò fino al nuovo anno, zio Siever, perché forse questo farà piacere alla mamma, e io sono dalla tua parte".»
«Ha detto questo?»
«Non tenerne conto, non prendertela con lei, ti prego. Evidentemente, l’ho incantata col mio fascino e il mio comportamento brillante, e Marlene pensa di farti un favore.»
«È una paraninfa» osservò Eugenia, incerta se essere seccata o divertita.
«In effetti ho pensato che se tu riuscissi a mostrare un certo interesse nei miei confronti, potremmo approfittarne per convincerla a fare qualsiasi cosa perché Marlene crederebbe di appoggiare ulteriormente la mia causa in questo modo… Solo che dovrebbe essere un interesse autentico altrimenti se ne accorgerebbe. E se fosse un interesse autentico, non sarebbe necessario per lei sacrificarsi… Capisci?»
«Capisco che se non fosse per la perspicacia di Marlene, dovrei guardarmi dalla tua mente machiavellica» rispose Eugenia.
«Colto in flagrante, Eugenia.»
«Be’, perché non facciamo la cosa più ovvia? La teniamo rinchiusa e alla fine la riportiamo su Rotor col razzonavetta.»
«Legandole mani e piedi, immagino. A parte il fatto che secondo me non saremmo capaci di fare una cosa simile, diciamo che adesso capisco il punto di vista di Marlene. Comincio a pensare alla colonizzazione di Eritro… un mondo intero a nostra disposizione.»
«E pieno di batteri che respireremo e che entreranno nel nostro cibo e nella nostra acqua.» Eugenia fece una smorfia.
«E allora? In parte, li respiriamo, li beviamo e li mangiamo anche qui. Non possiamo isolare completamente la Cupola. E se è per questo, anche su Rotor respiriamo dei batteri, li beviamo e li mangiamo.»
«Sì, però ci siamo adattati ai microorganismi di Rotor. Questi sono alieni.»
«E meno pericolosi, quindi. La mancanza di adattamento è reciproca, se vale per noi vale anche per loro. A quanto pare, non possono assolutamente parassitare l’uomo. Saranno innocui come granelli di polvere.»
«Non dimenticare il Morbo.»
«Certo, quello è il vero problema, che esiste in ogni caso… anche in una situazione semplice come l’uscita di Marlene dalla Cupola. Naturalmente, prenderemo delle precauzioni.»
«Che genere di precauzioni?»
«Marlene indosserà una tuta protettiva, innanzitutto. Poi, io la seguirò. Fungerò da canarino.»
«Da «canarino»? Che significa?»
«Era un metodo che usavano sulla Terra alcuni secoli fa. I minatori scendevano nelle miniere portando con sé dei canarini… sai, quei piccoli uccelli gialli. Se l’aria diventava tossica, il canarino ne risentiva prima degli uomini e moriva, e gli uomini capivano che c’era pericolo e uscivano dalla miniera. In altre parole, se comincerò a comportarmi in modo strano, ci riporteranno dentro tutti e due senza perdere un attimo.»
«Ma se Marlene dovesse essere colpita prima di te?»
«No, non penso che accadrà. Marlene si sente immune. Lo ha detto tante volte che ho cominciato a crederle.»
Eugenia Insigna non aveva mai atteso l’arrivo del nuovo anno concentrandosi in modo così penoso sul calendario. Non aveva avuto motivo di farlo, prima. Del resto, il calendario era una reliquia del passato, qualcosa di estraneo.
Sulla Terra, l’anno iniziava segnando le stagioni, e le festività collegate alle stagioni… mezza estate, il solstizio d’inverno, la semina, il raccolto… coi loro nomi particolari.
Crile le aveva spiegato gli aspetti complicati e oscuri del calendario col suo fare cupo e solenne; era un argomento che gli piaceva moltissimo, come tutte le cose che gli ricordavano la Terra. Eugenia lo aveva ascoltato con un misto di entusiasmo e di apprensione; con entusiasmo, perché voleva essere partecipe del suo interesse, dato che avrebbe potuto rafforzare la loro unione; con apprensione, perché temeva che il suo interesse per la Terra potesse allontanarlo da lei… come poi era successo.
Strano che avvertisse ancora quella fitta dolorosa… ma, era più tenue adesso? In realtà, le sembrava di non ricordare la faccia di Crile, di rammentare solo il ricordo ormai. Permaneva solo il ricordo di un ricordo, adesso, tra lei e Siever Genarr?
Eppure, era il ricordo di un ricordo a tenere legato Rotor al calendario. Rotor non aveva mai avuto stagioni. Aveva l’anno, naturalmente, perché (come tutte le Colonie del sistema TerraLuna, escludendo quindi solo quelle poche Colonie che ruotavano attorno a Marte o che erano in fase di costruzione nella fascia degli asteroidi) accompagnava la Terra nel suo viaggio intorno al Sole. Ma senza stagioni, l’anno non aveva nessun significato. E tuttavia, continuava a esistere, coi mesi e le settimane che lo formavano.
Rotor aveva anche il giorno, un giorno artificiale di ventiquattr’ore, durante il quale la luce solare veniva lasciata entrare per dodici ore e bloccata per le altre dodici. Rotor avrebbe potuto scegliere una durata diversa, ma aveva adottato il giorno terrestre diviso in ventiquattr’ore di sessanta minuti, coi minuti di sessanta secondi. (I giorni e le notti almeno avevano una durata uniforme di dodici ore.)
Occasionalmente sulle Colonie si era parlato di adottare un sistema diverso: numerare semplicemente i giorni e raggrupparli in decine e multipli di dieci. Quindi: decagiorni, ettogiorni, chilogiorni. E come sottomultipli: decigiorni, centigiorni, milligiorni. Ma in realtà era impossibile.
Le Colonie non potevano introdurre ognuna un proprio sistema, perché per le comunicazioni e i commerci sarebbe stato il caos. E l’unico sistema unificato possibile era quello della Terra, dove viveva ancora il novantanove per cento dell’umanità, e, alla quale, la tradizione legava tuttora il restante un per cento. Il ricordo faceva sì che Rotor e tutte le Colonie seguissero un calendario che per loro non aveva alcun valore intrinseco.
Ma adesso Rotor aveva lasciato il Sistema Solare, era un mondo isolato, solo. Non esistevano più il giorno o il mese o l’anno in senso terrestre. Non era nemmeno la luce del sole a separare il giorno dalla notte, perché la luce diurna di Rotor era artificiale, splendeva per dodici ore, poi si spegneva per altre dodici. La brusca precisione del passaggio non era interrotta neppure dall’oscuramento e dallo schiarimento graduale che avrebbe potuto simulare il crepuscolo e l’alba. Sembrava un particolare superfluo. E nell’ambito di quella divisione gli individui tenevano accesa la luce e la spegnevano a seconda dei loro capricci e delle loro esigenze, ma contavano i giorni in base al tempo della Colonia… che era quello della Terra.
Perfino nella Cupola di Eritro, dove c’erano un giorno e una notte naturali che venivano usati indifferentemente come riferimento dalla gente che si trovava lì, nei calcoli e nei conteggi ufficiali si adottava il giorno della Colonia, che non corrispondeva a quello locale, che era ancora legato a quello della Terra (il ricordo di un ricordo).
Adesso il movimento per l’abbandono del giorno come unità di misura fondamentale del tempo si stava rafforzando. Eugenia sapeva che Pitt era favorevole all’adozione del sistema decimale, eppure perfino Pitt esitava a proporla, temendo di suscitare un’opposizione accanita.
Ma forse le cose erano destinate a cambiare. L’insieme disordinato e tradizionale delle settimane e dei mesi sembrava meno importante. Le festività tradizionali venivano ignorate con maggior frequenza. Eugenia, nel suo lavoro di astronoma, usava i giorni come unica unità significativa. Un giorno il vecchio calendario sarebbe morto, e nel futuro remoto sarebbero stati introdotti sicuramente nuovi metodi per misurare il tempo… un calendario galattico standard, forse.
Ma adesso Eugenia si ritrovava a guardare quanto tempo mancava all’inizio del nuovo anno, un anno che iniziava arbitrariamente. Sulla Terra, almeno, l’anno nuovo iniziava nel periodo di un solstizio… solstizio d’inverno nell’emisfero settentrionale, solstizio d’estate in quello meridionale. Esisteva un rapporto con l’orbita della Terra attorno al Sole, rapporto che solo gli astronomi ricordavano in modo chiaro su Rotor.
Ma adesso, anche se Eugenia era un’astronoma, l’unica cosa che caratterizzasse l’anno nuovo era l’imminente impresa di Marlene che si accingeva a uscire sulla superficie di Eritro… e quella data era stata scelta da Siever Genarr solo perché comportava un rinvio plausibile, ed Eugenia l’aveva accettata solo perché si stava interessando con uno zelo eccessivo dei sogni avventurosi di un’adolescente.
Eugenia smise di seguire il corso involuto dei propri pensieri, tornando al presente, e si accorse che Marlene la stava fissando con aria solenne. (Quando era entrata così piano? O Eugenia era talmente immersa nelle proprie riflessioni da non avere sentito i passi?)
«Ciao, Marlene» disse Eugenia, quasi in un sussurro.
«Non sei felice, mamma» fece la ragazza con serietà.
«Non c’è bisogno di essere un mostro di perspicacia per capirlo. Sei sempre decisa a uscire?»
«Sì. Decisissima.»
«Perché, Marlene? Perché? Non puoi spiegarmi in modo che capisca?»
«No, perché tu non vuoi capire. Mi sta chiamando.»
«Ti sta chiamando, cosa?»
«Eritro. Vuole che vada là fuori.» Il viso solitamente cupo di Marlene sembrò illuminarsi di una felicità furtiva.
Eugenia esplose. «Quando parli così, Marlene, ho proprio l’impressione che tu sia già stata contagiata da… da…»
«Dal Morbo? No. Zio Siever mi ha appena fatto fare un’altra analisi cerebrale. Gli ho detto che non era necessario, ma lui ha risposto che ci servivano questi dati prima di uscire. Sono perfettamente normale.»
«Non ci si può fidare completamente delle analisi cerebrali» commentò Eugenia accigliata.
«Nemmeno delle paure di una madre» replicò Marlene. Poi, in tono più concilinate: «Mamma, ti prego… Lo so che vuoi guadagnare tempo, ma non sono disposta a rimandare. Zio Siever ha promesso. Anche se pioverà, anche se ci sarà cattivo tempo, io uscirò. In questo periodo dell’anno, non ci sono mai perturbazioni violente o temperature proibitive. Non ci sono quasi mai, qui. È un mondo meraviglioso».
«Ma è desolato… morto. A parte i germi» ribatté astiosa Eugenia.
«Ma un giorno diffonderemo la vita su questo mondo.» Marlene distolse lo sguardo, l’espressione sognante. «Ne sono sicura.»
«La tutaE è una tuta normalissima» spiegò Siever Genarr. «Non è pressurizzata. Non è una tuta da immersione né una tuta spaziale. Ha un casco, una riserva d’aria compressa che può essere rigenerata, e un piccolo scambiatore di calore che mantiene la temperatura a un livello piacevole. Ed è ermetica, naturalmente.»
«Mi andrà bene?» chiese Marlene, guardando con una smorfia di disgusto l’involucro di pseudotessuto piuttosto spesso.
«Be’, non sarai elegante» rispose Genarr, gli occhi raggianti. «Non è un indumento elegante, è pratico.»
«Non mi interessa la bellezza, zio Siever» disse Marlene, il tono leggermente esasperato. «Ma non voglio sguazzarci dentro. Se intralcia i movimenti, non vale la pena di metterla.»
Eugenia, che stava osservando la scena un po’ pallida, intervenne. «La tuta è necessaria per proteggerti, Marlene. Non m’importa se è troppo larga.»
«Ma non deve essere scomoda, no, mamma? Se per caso mi andasse bene, mi proteggerebbe ugualmente.»
«Questa ti andrà abbastanza bene» disse Genarr. «È la migliore che siamo riusciti a trovare. Sai, abbiamo solo tute di taglia grande, per adulti.» Si girò verso Eugenia. «Non le usiamo molto oggigiorno. Per un certo periodo, dopo che il Morbo è cessato, abbiamo compiuto delle esplorazioni, però ormai conosciamo abbastanza i dintorni della Cupola e, le rare volte che usciamo, di solito usiamo i veicoliE, mezzi di trasporto chiusi.»
«Vorrei che usaste un veicoloE anche adesso.»
«No!» esclamò Marlene, mostrando di non gradire il suggerimento. «Sono già uscita su un veicolo. Questa volta voglio camminare. Voglio… sentire il terreno sotto i piedi.»
«Sei pazza» disse Eugenia, contrariata.
Marlene replicò immediatamente. «Dovresti smetterla di insinuare…»
«Dov’è finito il tuo acume intuitivo? Non mi riferivo al Morbo. Intendevo dire semplicemente che sei pazza, matta, nel senso… Oh, Marlene, stai facendo impazzire anche me… Siever? Se queste tute sono vecchie, come fai a sapere che non perderanno?»
«Le abbiamo controllate, Eugenia. Ti assicuro che non sono difettose. Tieni presente che esco anch’io con lei, e che anch’io indosserò una tuta.»
Eugenia stava cercando chiaramente tutte le obiezioni possibili. «E se tutt’a un tratto doveste aver voglia di… doveste…?»
«Orinare? È questo che vuoi dire? È un problema risolvibile, anche se sarebbe una seccatura. Comunque, non capiterà. Abbiamo vuotato la vescica tutti e due e saremo a posto per parecchie ore… almeno, dovremmo. E non ci allontaneremo molto, così in caso di emergenza potremo rientrare nella Cupola. Be’, meglio che andiamo, adesso, Eugenia. Le condizioni all’esterno sono buone, e dovremmo approfittarne… Su, Marlene, lascia che ti aiuti a infilare la tuta.»
«Piantala con quell’aria entusiasta» sbottò brusca Eugenia.
«Perché? Se devo essere sincero, anch’io ho voglia di uscire. Vedi, a un certo punto la Cupola diventa quasi una prigione… si ha questa sensazione. Forse se uscissimo tutti più spesso, la gente riuscirebbe a sopportare dei turni più lunghi nella Cupola… Ecco fatto, Marlene. Manca solo il casco.»
Marlene esitò. «Un attimo, zio Siever» disse. Si avvicinò alla madre, tendendo il braccio coperto dall’indumento voluminoso.
Eugenia la fissò con un’espressione afflitta.
«Mamma, te lo ripeto, non agitarti, per favore. Ti voglio bene… e non lo farei, non ti procurerei tutta questa apprensione, solo per soddisfare me stessa. Se lo faccio, è solo perché so che non mi accadrà nulla e che tu non devi preoccuparti. Scommetto che anche tu vorresti infilare una tuta e uscire per non perdermi di vista un solo istante, ma non devi farlo.»
«Perché non devo, Marlene? Se ti succederà qualcosa e non sarò accanto a te ad aiutarti, non me lo perdonerò mai!»
«Ma non mi accadrà nulla. E anche se dovesse succedermi qualcosa, tu cosa potresti fare? E poi, dato che hai così paura di Eritro, è probabile che la tua mente sia esposta a qualsiasi tipo di effetto abnorme. E se il Morbo dovesse colpire te, invece? Come credi che mi sentirei, io?»
«Ha ragione, Eugenia» disse Genarr. «Ci sarò io con lei, e la cosa migliore che tu possa fare è rimanere qui e rimanere calma. Tutte le tuteE sono dotate di radio. Marlene ed io saremo in contatto tra noi, e con la Cupola. Ti prometto che se si comporterà in modo strano, se noterò anche il minimo particolare anomalo, la farò rientrare subito. E se non mi sentirò perfettamente normale, tornerò subito qui, portando Marlene con me.»
Eugenia scosse la testa, per nulla consolata, mentre prima Marlene e poi Genarr indossavano il casco.
Erano accanto al compartimento stagno principale della Cupola, ed Eugenia osservò l’operazione. Conosceva benissimo il procedimento… chi non lo conosceva non poteva considerarsi un vero colono.
Controllo e regolazione della pressione, per assicurarsi che ci fosse un lieve passaggio d’aria dalla Cupola all’esterno, mai nella direzione opposta… Controlli computerizzati continui per accertarsi che non ci fossero perdite…
Poi il portello interno si aprì. Genarr entrò nella camera e chiamò Marlene con un cenno. La ragazza lo seguì, e la porta si chiuse. Quando non li vide più, Eugenia provò un tuffo al cuore.
Osservando gli strumenti, seppe esattamente quando il portello esterno si aprì e si richiuse. Poi l’oloschermo si accese, mostrando due figure in tuta sulla superficie spoglia di Eritro.
Uno dei tecnici porse un piccolo auricolare a Eugenia, che lo inserì nell’orecchio destro. Quindi le piazzarono di fronte un microfono sempre di dimensioni ridotte.
Una voce all’orecchio disse: «Contatto radio»… e subito si udì la voce familiare di Marlene. «Mi senti, mamma?»
«Sì, cara» rispose Eugenia. La sua voce le sembrava strana, fredda.
«Siamo fuori, ed è meraviglioso. È proprio bellissimo.»
«Sì, cara» ripeté Eugenia, sentendosi frastornata, smarrita, chiedendosi se sua figlia sarebbe ancora stata sana di mente una volta rientrata.
Siever Genarr posò il piede sulla superficie di Eritro provando quasi una sensazione di felicità. La parete curva della Cupola s’innalzava dietro di lui, ma Genarr le volse le spalle, perché una vista così «aliena» avrebbe guastato il sapore del mondo.
Sapore? Una parola strana riferita a Eritro… in quel momento non aveva senso. Genarr era dietro la barriera protettiva del casco, respirava l’aria della Cupola, o almeno l’aria depurata e condizionata nella Cupola. Non poteva sentire l’odore del pianeta, e nemmeno il sapore, chiuso in quel rifugio.
Eppure c’era qualcosa che gli trasmetteva una strana felicità. I suoi scarponi scricchiolarono sul terreno. Anche se non era rocciosa, la superficie di Eritro era piuttosto ghiaiosa, e tra la ghiaia c’era… il terreno… Genarr non poteva definirlo che così. Naturalmente, c’erano acqua e aria in abbondanza per sgretolare lo strato roccioso primordiale e, forse, i procarioti, presenti ovunque a trilioni, avevano dato il loro contributo lavorando pazientemente nel corso dei millenni.
Il terreno era morbido. Il giorno prima era piovuto… era scesa la pioggerella costante di Eritro, o almeno di quella parte di Eritro. Il terreno era ancora leggermente umido, e Genarr immaginò i granelli di sabbia e di argilla, avvolti nel loro sottile strato d’acqua rinnovato. In quello strato d’acqua, le cellule procariotiche vivevano felici, crogiolandosi nell’energia di Nemesis, trasformando proteine semplici in proteine complesse, mentre altri procarioti, indifferenti all’energia solare, sfruttavano invece il contenuto energetico dei resti dei procarioti che a trilioni morivano di attimo in attimo.
Marlene era al suo fianco. Stava guardando in su, e Genarr le disse garbato: «Non fissare Nemesis, Marlene».
La voce della ragazza gli risuonò naturale all’orecchio. Il tono non era minimamente teso, o apprensivo. Anzi, esprimeva una gioia pacata. «Sto guardando le nuvole, zio Siever.»
Genarr alzò lo sguardo verso il cielo scuro dove, socchiudendo un po’ gli occhi, si scorgeva un lieve luccichio gialloverdognolo. Sullo sfondo, i pennacchi delle nuvole non temporalesche che riflettevano la luce di Nemesis in un fulgore arancione.
Regnava una quiete arcana su Eritro. Non c’era nulla che producesse un suono. Non c’erano forme di vita che cantassero, ruggissero, ringhiassero, muggissero, pigolassero, cinguettassero, gracchiassero. Non c’erano foglie che stormissero, né insetti che ronzassero. Durante i rari temporali, magari si sentiva il rombo del tuono, o il sibilo del vento contro qualche masso… se il vento soffiava abbastanza forte. Ma in una giornata calma e tranquilla come quella, regnava il silenzio.
Genarr parlò, solo per assicurarsi che si trattasse davvero di silenzio e non di un attacco improvviso di sordità. (In realtà, non poteva essere diventato sordo, dal momento che sentiva il debole raspio del proprio respiro.)
«Stai bene, Marlene?»
«Meravigliosamente. C’è un ruscello laggiù.» E Marlene affrettò il passo, abbozzando quasi una corsa goffa, impedita com’era dalla tuta.
«Attenta, Marlene. Scivolerai.»
«Farò attenzione.» Naturalmente, anche se Marlene si stava allontanando, la sua voce mantenne la stessa intensità dato che si propagava grazie a un fascio di onde radio.
La voce di Eugenia Insigna risuonò di colpo all’orecchio di Genarr. «Perché Marlene sta correndo, Siever?» E un istante dopo: «Perché stai correndo, Marlene?».
Marlene non si scomodò a rispondere, ma Genarr disse: «Vuole solo guardare un ruscello di fronte a noi, Eugenia».
«Sta bene?»
«Certo. È bello l’esterno… una bellezza strana, misteriosa. Dopo un po’ non sembra nemmeno così spoglio… ricorda più che altro un quadro astratto.»
«Lascia perdere la critica artistica, Siever. Non lasciarla allontanare da te.»
«Non preoccuparti. Sono sempre in contatto con lei. Anche adesso sente quello che diciamo, e se non risponde è perché non vuole essere disturbata inutilmente. Eugenia, rilassati. Marlene si sta divertendo. Non fare la guastafeste.»
Genarr era convintissimo che Marlene si stesse divertendo. Si divertiva anche lui.
Marlene stava risalendo il ruscello, correndo lungo la sponda. Genarr non aveva una gran fretta di seguirla. "Si diverta pure" pensò.
La Cupola era stata costruita su un affioramento roccioso, ma in quella direzione la zona era attraversata da una serie di torrentelli che a una trentina di chilometri di distanza confluivano in un fiume piuttosto grande… fiume che poi sfociava nel mare.
I ruscelli erano graditi, naturalmente. Erano la riserva idrica della Cupola, che provvedeva a togliere i procarioti presenti nell’acqua (a «ucciderli», per usare un termine più appropriato). Agli inizi della storia della Cupola, alcuni biologi si erano opposti all’uccisione dei procarioti, ma la cosa era assurda. Quei microorganismi erano talmente numerosi e prolifici che, anche eliminandoli per depurare l’acqua, era impossibile decimare la specie. Poi, quando era scoppiato il Morbo, era nata un’ostilità vaga ma intensa nei confronti di Eritro, e nessuno si era più preoccupato della sorte dei procarioti.
Naturalmente, adesso che apparentemente il Morbo non rappresentava più una minaccia, forse ci sarebbe stata una nuova ondata di sentimenti umanitari ("biotari", un aggettivo più appropriato, secondo Genarr). Genarr condivideva quei sentimenti, ma bisognava pensare anche alle riserve idriche della Cupola.
Immerso nei propri pensieri, Genarr non stava più guardando Marlene, e lo strillo improvviso di Eugenia lo assordò. «Marlene! Marlene! Siever, cosa sta facendo?»
Genarr alzò lo sguardo, e stava per rassicurarla automaticamente, dicendole che andava tutto bene, quando scorse Marlene.
Per un attimo, non capì più cosa stesse facendo. Rimase a fissarla nella luce rosata di Nemesis.
Poi comprese. Marlene stava sganciando il casco, lo stava togliendo… E adesso stava cercando di sfilarsi il resto della tutaE.
Genarr doveva impedirglielo!
Provò a gridare, a chiamarla, ma per l’orrore provocato dall’emergenza improvvisa gli mancò la voce. Cercò di correre da lei, ma le sue gambe sembravano di piombo, in pratica non rispondevano ai comandi urgenti che lui inviava.
Aveva l’impressione di essere prigioniero di un incubo, dove stavano accadendo cose terribili e lui non poteva fare nulla per impedire che accadessero. O forse la sua mente, in quel frangente carico di tensione, si stava dissociando dal corpo.
"È il Morbo, che mi sta colpendo?" si chiese Genarr, in preda al panico. "E se è il Morbo, cosa succederà adesso a Marlene, che si sta esponendo alla luce di Nemesis e all’aria di Eritro?"