Siever Genarr aprì gli occhi lentamente e batté le palpebre alla luce. Dapprima stentò un po’ a mettere a fuoco le immagini e non riuscì a distinguere cosa occupasse il suo campo visivo.
Lentamente, i contorni diventarono nitidi, e Genarr riconobbe Ranay D’Aubisson, Primo Neurofisico della Cupola.
Genarr disse debolmente: «Marlene?».
La D’Aubisson aveva un’espressione arcigna. «Pare che la ragazza stia bene. Adesso sono preoccupata per lei, Comandante.»
Un senso di timore pervase Genarr, e Genarr cercò di soffocarlo col suo umorismo nero. «Devo essere più grave di quel che pensavo se l’Angelo del Morbo è qui.»
Poi, visto che Ranay non diceva nulla, Genarr chiese brusco: «Lo sono?».
La D’Aubisson parve animarsi. Alta e ossuta, si chinò su di lui, e le piccole grinze attorno ai suoi occhi azzurri penetranti si fecero più pronunciate mentre lo fissava socchiudendo le palpebre.
«Come si sente?» domandò, invece di rispondere.
«Stanco. Stanchissimo. A parte questo, sto… bene?» Genarr pronunciò l’ultima parola variando il tono, e ripetendo così la domanda di prima.
«Ha dormito cinque ore.» La D’Aubisson continuava a essere evasiva.
Genarr gemette. «Sono stanco ugualmente. E devo andare in bagno» disse, cominciando a drizzarsi a sedere con fatica.
A un cenno di Ranay, un giovanotto si affrettò ad accorrere. Con deferenza, mise la mano sotto il gomito di Genarr, che lo allontanò indignato.
Ranay D’Aubisson disse: «La prego, si lasci aiutare. Non abbiamo ancora fatto una diagnosi».
Quando fu tornato a letto, dieci minuti dopo, Genarr disse mesto: «Niente diagnosi. Avete eseguito l’analisi cerebrale?».
«Certo. Immediatamente.»
Ranay si strinse nelle spalle. «Non abbiamo trovato nulla di serio, ma lei dormiva. Ne faremo un’altra da sveglio. E dobbiamo compiere altre osservazioni.»
«Perché? L’analisi cerebrale non basta?»
La D’Aubisson aggrottò le ciglia grige. «Lei pensa che basti?»
«Non giochiamo. Dove vuoi arrivare? Parla chiaro. Non sono un bambino.»
La D’Aubisson sospirò. «I casi di Morbo che abbiamo avuto mostravano delle caratteristiche interessanti all’analisi cerebrale, però non abbiamo mai potuto confrontarle con la situazione clinica preesistente perché nessuna delle persone colpite era stata analizzata prima dell’insorgere del male. Quando è entrato in vigore un programma di analisi cerebrale per tutti gli occupanti della Cupola, non ci sono più stati casi certi di Morbo. Lo sapeva?»
«Non tendermi dei tranelli» disse Genarr stizzito. «Certo che lo sapevo. Pensi che la mia memoria non funzioni più? Da quel che hai detto, deduco… sì, sono ancora capace di dedurre, visto?… deduco che, anche se avete i dati di una mia analisi precedente e avete potuto confrontarli con l’analisi cerebrale appena fatta, non avete trovato nulla di significativo. È così?»
«È evidente che non presenta nessuna anomalia di rilievo, però potremmo trovarci di fronte a una situazione subclinica.»
«Non trovando nulla?»
«Una alterazione impercettibile può sfuggire, se non la si cerca in modo specifico. In fin dei conti, lei è svenuto, e di solito non è soggetto a perdite di conoscenza, Comandante.»
«Fate un’altra analisi, adesso che sono sveglio, e se avrò qualcosa di talmente impercettibile da sfuggire al vostro esame, me lo terrò e sopravviverò. Ma parlami di Marlene. Sei sicura che stia bene?»
«Ho detto che pare che stia bene, Comandante. La ragazza non ha rivelato alcuna anomalia comportamentale. Non è svenuta.»
«Ed è nella Cupola, sana e salva?»
«Sì, è stata lei ha riportarla qui, appena prima che svenisse. Non ricorda?»
Genarr arrossì e borbottò qualcosa.
L’espressione della D’Aubisson si fece sardonica. «Perché non ci dice esattamente quello che ricorda, eh, Comandante? Ci racconti tutto. Anche un particolare qualsiasi potrebbe essere importante.»
Il disagio di Siever Genarr aumentò, mentre si sforzava di ricordare. Gli sembrava di concentrarsi su un episodio successo molto tempo prima, nebuloso… come se stesse cercando di ricordare un sogno.
«Marlene stava togliendosi la tutaE… Vero?»
«Verissimo. È rientrata senza tuta, e abbiamo dovuto mandare qualcuno a recuperarla.»
«Be’, naturalmente, ho provato a fermarla, quando ho visto cosa stava facendo. Ricordo che la dottoressa Insigna ha gridato, che è stata lei a mettermi in guardia. Marlene era lontana da me, accanto al ruscello. Ho provato a chiamarla, ma per lo shock non sono riuscito a parlare all’inizio. Ho cercato di raggiungerla subito, di… di…»
«Correre da lei» suggerì Ranay.
«Sì. Ma… ma…»
«Si è accorto di non riuscire a correre. Era quasi paralizzato. Giusto?»
Genarr annuì. «Sì. Più o meno. Ho provato a correre, ma… hai mai avuto uno di quegli incubi in cui sei inseguito da qualcuno e vuoi fuggire però non riesci a muoverti?»
«Sì. Li hanno tutti. Di solito capita quando si hanno le braccia o le gambe aggrovigliate nelle coperte.»
«Sembrava proprio un sogno. Alla fine, mi è tornata la voce e ho gridato, ma senza la tutaE Marlene non poteva sentirmi, sicuramente.»
«Si sentiva sul punto di svenire?»
«No. Solo impotente, confuso. Come se non valesse nemmeno la pena di provare a correre. Poi Marlene mi ha visto ed è corsa da me. Deve aver capito che ero in difficoltà.»
«La ragazza a quanto pare era perfettamente in grado di correre. Giusto?»
«Mah… credo. Mi ha raggiunto, mi sembra. Poi… Sarò sincero, Ranay. Non ricordo quel che è successo dopo.»
«Siete rientrati nella Cupola insieme» disse calma la D’Aubisson. «La ragazza la sosteneva, Comandante. E una volta nella Cupola lei è svenuto e adesso… è qui a letto.»
«E tu pensi che abbia il Morbo.»
«Penso che le sia successo qualcosa di anormale, però non riesco a trovare nulla nella sua analisi cerebrale, e sono perplessa. Ora sa tutto.»
«È stato lo shock di vedere Marlene in pericolo. Per togliersi la tutaE, doveva avere…» Genarr si interruppe di colpo.
«Contratto il Morbo? È così?»
«È quel che ho pensato.»
«Pare che la ragazza stia bene. Vuole dormire ancora un po’?»
«No. Sono sveglio. Procedi con l’altra analisi cerebrale, e fai in modo che risulti negativa, perché mi sento molto meglio adesso che mi sono tolto questo peso. E poi mi occuperò del mio lavoro, arpia.»
«Anche se l’analisi cerebrale apparentemente è normale, lei rimarrà a letto per almeno ventiquattr’ore, Comandante. In osservazione.»
Genarr eruppe in un gemito melodrammatico. «Non puoi farlo. Non posso starmene qui a fissare il soffitto per ventiquattr’ore.»
«Non dovrà fissare il soffitto. Le metteremo un sostegno, così potrà leggere un libro o guardare l’olovisione. Potrà anche ricevere un paio di visite.»
«Immagino che anche i visitatori mi osserveranno.»
«Può darsi che vengano interrogati circa il suo comportamento… non ci sarebbe nulla di strano. E adesso, andiamo a prendere l’analizzatore cerebrale.» Ranay D’Aubisson si voltò, poi tornò a girarsi accennando un sorrisetto. «È possibilissimo che lei stia bene, Comandante. Le sue reazioni mi sembrano normali. Ma dobbiamo essere sicuri, no?»
Genarr bofonchiò e, quando Ranay D’Aubisson gli volse di nuovo le spalle e si allontanò, salutò la sua uscita con una smorfia. Anche quella era una reazione normale, decise.
Quando riaprì gli occhi, Genarr vide Eugenia Insigna che lo fissava con aria triste.
Sorpreso, si drizzò a sedere. «Eugenia!»
Lei gli sorrise, ma il suo sguardo rimase triste.
«Hanno detto che potevo entrare, Siever. Hanno detto che stavi bene.»
Genarr si sentì sollevato. Sapeva di star bene, ma era bello sentire che qualcun altro confermava la sua opinione.
Disse in tono spavaldo: «Certo che sto bene. Analisi cerebrale normale… addormentato, sveglio, sempre. Ma come sta Marlene?».
«Anche la sua analisi è perfettamente normale» rispose Eugenia, ma la sua espressione non mutò.
«Come vedi, sono stato il suo canarino, come avevo promesso. Il fenomeno, di qualunque cosa si sia trattato, ha colpito prima me.» Dopo di che, Genarr si fece serio. Non era il momento di scherzare. «Eugenia… non so proprio come giustificarmi. Innanzitutto non stavo osservando Marlene, e poi ero troppo paralizzato dall’orrore per intervenire. Ho fallito completamente, e dire che ti avevo assicurato che non ci sarebbero stati problemi, che avrei badato io a Marlene. Francamente, non ho scuse.»
Eugenia stava scuotendo la testa. «No, Siever. Non è stata colpa tua. Sono contenta che ti abbia riportato alla Cupola.»
«Non è stata colpa mia?» Genarr era frastornato. Certo che era stata colpa sua.
«No, assolutamente. C’è qualcosa di molto peggiore del gesto sciocco di Marlene o della tua incapacità di reagire… molto peggiore, ne sono certa.»
Genarr raggelò. Qualcosa di molto peggiore? E cosa? «Cosa stai cercando di dirmi?»
Si girò verso di lei, scoprendosi, lasciando penzolare le gambe dal letto. Poi, quando si accorse di avere le gambe nude e di non essere per nulla presentabile in camicia da notte, si affrettò ad avvolgersi nella coperta leggera.
«Eugenia, siediti e dimmi tutto, per favore. Marlene sta bene? Mi stai nascondendo qualcosa?»
Eugenia si sedette e guardò Genarr seria. «Sta bene, dicono. L’analisi cerebrale è normalissima. Stando a quelli che sono al corrente dell’esistenza del Morbo, non c’è nessun sintomo.»
«Be’, allora perché te ne stai lì con quella faccia, come se fosse la fine del mondo?»
«Penso che sia la fine del mondo, Siever… di questo mondo.»
«Che significa?»
«Non so spiegarlo. Non riesco a trovare un filo logico. Devi parlare con Marlene per capire. Proseguirà per la sua strada, Siever. Non è turbata per quel che ha fatto. Sostiene di non potere esplorare Eritro nella maniera giusta con la tutaE addosso… di non poterlo sentire bene, per usare la sua espressione… quindi non ha più intenzione di mettere la tuta.»
«In tal caso, non uscirà.»
«Oh, ma Marlene dice che uscirà, invece. Ed è sicurissima. Uscirà tutte le volte che vorrà, dice. E da sola. Le rincresce di averti permesso di accompagnarla. Vedi, non è insensibile nei tuoi confronti. Quello che ti è successo, l’ha sconvolta. Ed è contenta di essere intervenuta in tempo. Davvero, aveva le lacrime agli occhi quando ha parlato di quello che sarebbe potuto accadere se non ti avesse riportato in tempo alla Cupola.»
«E il mio incidente non la fa sentire insicura?»
«No. È questa la parte più strana. Ora Marlene non ha il minimo dubbio… tu eri in pericolo, qualsiasi persona sarebbe stata in pericolo. Ma lei no. È talmente sicura, Siever, che…» Eugenia scosse la testa, poi mormorò: «Non so proprio cosa fare».
«Marlene è così di natura, Eugenia. Dovresti saperlo meglio di me.»
«Ma non è mai stata tanto sicura. Sembra che sappia che non possiamo fermarla.»
«Forse possiamo. Le parlerò, e se vorrà spuntarla ad ogni costo la rispedirò su Rotor… e subito. Ero dalla sua parte, ma dopo quello che mi è capitato là fuori, temo che dovrò essere inflessibile con lei.»
«Ma non lo farai.»
«Perché no? Per via di Pitt?»
«No. Intendo dire che non lo farai e basta.»
Genarr fissò Eugenia, poi rise imbarazzato. «Via, Marlene non mi ha incantato fino a questo punto. Mi sentirò anche una specie di zio buono, ma non sono così buono da permetterle di andare incontro al pericolo. Ci sono dei limiti, e vedrai che saprò farli rispettare.» S’interruppe un istante, e riprese con aria mesta: «A quanto pare, le nostre posizioni si sono invertite. Prima, tu insistevi perché la fermassi e io dicevo che non era possibile. Adesso la situazione si è rovesciata».
«Perché l’incidente all’esterno della Cupola ti ha spaventato, e l’esperienza successiva mi ha spavehtata.»
«Quale esperienza successiva, Eugenia?»
«Quando Marlene è rientrata, ho provato a porre dei limiti. Le ho detto: "Signorina, non osare parlarmi così altrimenti, oltre a non uscire più dalla Cupola, non potrai nemmeno uscire dalla tua stanza. Ti chiuderò a chiave, ti legherò, se necessario, e torneremo su Rotor col primo razzo". Vedi, ero abbastanza furiosa da minacciarla.»
«Be’, lei che ha fatto? Scommetto che non è scoppiata a piangere. Avrà digrignato i denti e ti avrà sfidata. Giusto?»
«No. Non sono nemmeno riuscita a dire tutto, perché a un certo punto ho cominciato a battere i denti e non sono più stata capace di parlare. E mi ha assalito un senso di nausea.»
Genarr corrugò la fronte. «Intendi dire che, secondo te, Marlene possiede qualche strano potere ipnotico che può impedirci di ostacolarla? Mi pare impossibile. Non hai mai notato niente del genere in lei prima d’ora?»
«Certo che no. E non l’ho notato nemmeno adesso. Lei non c’entra. Dovevo avere una gran brutta cera mentre la stavo minacciando, e Marlene si è spaventata, era molto preoccupata. Non avrebbe reagito così, se fosse stata lei a provocare la cosa. E quando eravate fuori e lei si stava togliendo la tuta, non ti stava nemmeno guardando. Ti volgeva le spalle. Lo so perché stavo osservando. Eppure non sei riuscito a fare nulla per fermarla, e quando si è accorta che eri in difficoltà è corsa ad aiutarti. No, non può essere stata lei a causare apposta l’incidente, altrimenti non avrebbe avuto quella reazione.»
«Ma allora…»
«Non ho finito. Dopo averla minacciata, o meglio, dopo aver cercato inutilmente di minacciarla, non ho più avuto il coraggio di dirle nulla, a parte cose del tutto superficiali, però l’ho tenuta d’occhio, con discrezione. A un certo punto, si è rivolta a una delle tue guardie… sono dappertutto…»
«In teoria, la Cupola è una base militare» borbottò Genarr. «Le guardie si limitano a mantenere l’ordine, danno una mano in caso di bisogno…»
«Oh, certo» osservò Eugenia, con una punta di disprezzo. «Servono a Janus Pitt per sorvegliarvi e tenervi in pugno… ma lasciamo perdere. Marlene e la guardia hanno parlato per un po’, sembrava una discussione piuttosto animata. Quando Marlene se n’è andata, mi sono avvicinata alla guardia e gli ho chiesto di cosa avessero discusso. Era restio a parlare, ma ho insistito. Ha detto che Marlene voleva una specie di lasciapassare per uscire e rientrare nella Cupola liberamente. "E lei cosa ha risposto?" gli ho chiesto. E la guardia: "Le ho detto che doveva rivolgersi all’ufficio del Comandante per il lasciapassare, ma che comunque avrei cercato di aiutarla". Io mi sono indignata. "Aiutarla? Come sarebbe a dire? Come ha potuto offrirsi di aiutarla?" gli ho chiesto. E lui: "Signora, dovevo pur fare qualcosa. Ogni volta che ho provato a dirle che non si poteva, mi sono sentito male".»
Genarr ascoltò impassibile. «Intendi dire che è qualcosa che Marlene fa inconsciamente, che chi osa contraddirla sta male, e che lei non si rende conto di provocare questi incidenti?»
«No. Non vedo come possa entrarci Marlene. Se fosse una sua capacità inconscia, si sarebbe manifestata anche su Rotor, e invece là non è mai successo nulla. E una contrarietà qualsiasi non basta. Ieri sera, a cena, voleva prendere una seconda porzione di dolce e io, dimenticando che era meglio non contrariarla, le ho detto: "No, Marlene!". Si vedeva che era arrabbiatissima, però si è calmata, non ha insistito, e io non ho avvertito il minimo effetto spiacevole, te lo assicuro. No, secondo me, non si può ostacolarla solo riguardo Eritro.»
«E perché mai dovrebbe essere così, Eugenia? Ho l’impressione che tu abbia qualche idea. Se fossi Marlene, ti leggerei come un libro aperto e capirei, ma dato che non sono Marlene, è necessario che tu me lo dica.»
«Non penso proprio che sia Marlene a fare queste cose. È… il pianeta stesso.»
«Il pianeta?!»
«Sì, Eritro! Il pianeta. Sta controllando Marlene. Altrimenti, perché dovrebbe sentirsi tanto sicura di essere immune al Morbo, di non correre nessun pericolo? E controlla anche noi altri. Sei stato male quando hai cercato di fermarla. Io pure. La guardia, idem. Agli inizi della colonizzazione, quando è sorta la Cupola, molte persone hanno riportato dei danni perché il pianeta si è sentito invaso e ha reagito producendo il Morbo. Poi, quando vi siete accontentati di rimanere nella Cupola, ha smesso di reagire e il Morbo è cessato. Tutti i particolari quadrano perfettamente, no?»
«Dunque, pensi che il pianeta voglia Marlene là fuori, sulla sua superficie?»
«A quanto pare, sì.»
«Ma perché?»
«Non lo so. Non ho la pretesa di capire. Ti sto solo dicendo come dev’essere la situazione.»
La voce di Genarr si addolcì. «Eugenia, il pianeta non può fare nulla, e senz’altro lo sai. È un blocco di roccia e di metallo. Il tuo è un atteggiamento mistico.»
«No, Siever. Non sbagliarti, non far finta che io sia una sciocca. Sono una scienziata di prim’ordine, e non c’è niente di mistico nel mio modo di pensare. Dicendo «pianeta», non mi riferisco alla roccia e al metallo. Intendo dire che sul pianeta c’è qualche forma di vita diffusa e potente.»
«Dovrebbe essere invisibile, allora. Questo è un mondo brullo, sterile, dove non c’è traccia di vita a parte i procarioti, figuriamoci se può esserci l’intelligenza.»
«Che ne sai di questo mondo che definisci sterile, eh? È stato esplorato a fondo, in ogni angolo?»
Lentamente, Siever Genarr scosse la testa. «Eugenia, ti stai lasciando prendere dall’isteria» disse, il tono quasi supplichevole.
«Davvero, Siever? Pensaci, e dimmi se riesci a trovare un’altra spiegazione. Dai retta a me… la forma di vita di questo pianeta, quale che sia, non ci vuole. Siamo condannati. E non riesco a immaginare… cosa voglia da Marlene» concluse Eugenia, con voce tremula.