CAPITOLO IX

Teseo simulò una difesa, com’era necessario. In effetti, essendo gli etruschi dei grandi guerrieri, poté rendere il tentativo molto vigoroso, senza d’altronde correre il pericolo di riuscire a fuggire.

Un ufficiale in carrozza, dalle vesti e dall’armatura splendide, era seguito da una dozzina di uomini a piedi. Lasciò la carrozza in un angolo della strada, con uno schiavo a tenere i cavalli, e guidò sei uomini verso Teseo. Gli altri svanirono, e l’acheo pensò che avessero preso una via traversa, per tagliargli poi la ritirata, sbucandogli alle spalle.

Una dozzina di vicoli e di porte oscure si aprivano, invitanti, come se volessero tentarlo a scegliere la più sicura via di fuga, ma Teseo rimase immobile, in attesa. Tre armigeri avanzarono, tenendo levati gli scudi, e impugnando le spade.

In attesa, Teseo guardò di nuovo Arianna. Uno degli schiavi era pronto ad aiutarla a risalire sul palanchino. Ma lei era in piedi nel fango, accanto al suo veicolo, e stringeva ancora tra le braccia il piccolo corpo bruno, sporco di fango e di sangue. Gli occhi verdi della dea erano fissi su Teseo.

«Aspetta, schiavo!» Teseo colse il mormorio della sua voce. «Lasciami vedere come combatte il nordico.»

Lui combatté. La Stella Cadente si aprì un varco negli scudi degli etruschi, e la sua lama sottile sfavillò nell’aria, più volte. Un uomo, e poi un altro, caddero dietro la muraglia degli scudi.

Se avesse veramente cercato di fuggire, Teseo avrebbe dovuto approfittare del varco che gli veniva offerto, e dallo scompiglio che per un istante regnò tra le file degli etruschi. Ma lui rimase immobile, permettendo ai nemici di riorganizzarsi, e aspettò il prossimo assalto. E poi sentì di nuovo la voce di Arianna: «Prendete vivo il selvaggio, per i giochi!» La sua lama trovò il cuore di un uomo, dietro la seconda barriera. Alle sue spalle si era formato un altro cordone di uomini. E le due pareti di scudi si avvicinarono inesorabilmente tra loro, prendendolo in mezzo. Delle lame di bronzo raggiunsero Teseo, da entrambe le barriere, ma fu una mazza che giunse sopra di lui, e gli fece perdere i sensi.


Con la bocca amara e la testa che gli pulsava dolorosamente, Teseo riprese i sensi in una segreta, il cui fetore era più penetrante di quello della strada. Si trattava di un pozzo quadrato, profondo venti piedi. Le pareti erano di pietra liscia, ed era impossibile pensare di scalarle. Da una grata, in alto, filtrava una luce grigia e fioca.

La debole luce rivelò i suoi cinque compagni, che grugnivano e russavano sul pavimento di pietra. Erano tutti dei criminali condannati, e lo scoprì aspettando i giochi con loro. Uno schiavo che era stato indiscreto con la moglie del suo padrone. Un cuoco di palazzo che si era ubriacato, e aveva bruciato l’arrosto. Un carpentiere disoccupato, che aveva rubato del pane. Due mercanti che avevano trascurato di pagare alcuni balzelli all’Oscuro. Erano tutti disperati, come se fossero già morti.

Il pozzo non era un luogo piacevole. L’acqua filtrava dalle pareti, e formava grosse pozzanghere sul pavimento poroso. Non esistevano sistemazioni igieniche. Del pane mal cotto e della carne rancida venivano gettati dalla grata, a certi intervalli. Il tempo era segnato dal quotidiano chiarore che appariva in alto, e dal buio che sostituiva la luce grigia.

I giorni trascorrevano, e Teseo capì che il cibo scarso e la triste sistemazione stavano indebolendo anche i muscoli d’acciaio di Gothung. Il suo corpo era rigido, e indolenzito, a causa delle lunghe ore trascorse sul pavimento nudo e duro; la monotonia era una coltre che gli ottenebrava la mente.

Per occupare le monotone giornate, cominciò a speculare sulle possibilità di una fuga… anche se per ottenere quella dura prigionia lui aveva messo in palio la vita.

«È impossibile,» gli assicurò il cuoco. «Da trecento anni, nessun uomo è mai riuscito a fuggire dalle segrete di Minosse. Siamo nudi. Non ci gettano neppure un osso, che possa servirci come strumento o come arma. Le pareti sono di solida pietra, e sotto c’è solo la roccia viva. Soltanto una mosca potrebbe raggiungere la grata. E solo una mosca potrebbe passare tra le sbarre… e la grata di bronzo è chiusa grazie all’incantesimo di uno stregone!»

«Eppure,» insisté Teseo, «io credo che sarebbe possibile fuggire, anche da un pozzo del genere… se fosse necessario!»

Contarono i giorni, fino alla luna di Minosse, quando sarebbero iniziati i giochi. Nessuno parlò loro, attraverso la grata. Anche quando il carpentiere morì, dopo avere tossito per giorni e giorni, le guardie ignorarono il loro richiamo. Il corpo si coprì di muffa, e marcì in un angolo, aggiungendo altro fetore all’ambiente.

Finalmente arrivò il giorno destinato. La grata fu aperta, e dei lacci sibilarono, e li presero uno per uno. Teseo rimase fermo, in piedi sotto la grata, in attesa, mentre gli altri si nascondevano mugolando di terrore. Ma egli fu comunque l’ultimo a essere preso. La corda sibilò sotto le sue braccia, e lo issò verso l’alto. Dei sacerdoti di Minosse, dai neri mantelli, lo trascinarono lungo un cupo corridoio di pietra. Una porta si aprì, lasciando entrare un fiotto di luce accecante. Delle lance lo spinsero, ed egli avanzò, uscendo sotto il sole bruciante.

Il caldo asciutto gli ridonò vita, scaldò il suo corpo nudo, irrigidito com’era dalla pietra umida e dallo sporco. L’aria pulita gli fece l’effetto di un prezioso tonico. Per un istante, gli parve sufficiente essere uscito dal pozzo, e dimenticò che quello doveva essere il momento per il quale aveva combattuto e sognato, e per il quale aveva subito la terribile onta della prigionia.

Debole per la fame e gli stenti patiti, rimase in piedi sotto il sole, e vacillò, mentre la mente gli si ottenebrava. Ci volle un po’ di tempo, prima che riuscisse a distinguere qualcosa. Ma sentì sotto i suoi piedi della sabbia calda e asciutta, mentre tutt’intorno a lui, invisibile ma vibrante nell’aria, si avvertiva un vasto brusio, il mormorio di una grande folla. Più lontano, da qualche parte, un toro stava muggendo. E le sue narici fiutarono l’odore dolciastro del sangue.

Bruscamente, alle sue spalle, dei corni di bronzo suonarono una poderosa fanfara, e la voce secca di un araldo diede inizio a una monotona cantilena:

«Quest’uomo, chiamato Gothung il Normanno, entra ora nei sacri giochi ciclici, per conquistare il trono di Minosse. Che venga perciò sottoposto alle nove prove, per sondare la volontà dell’Oscuro nei suoi tre aspetti.

«Perché l’Oscuro è una divinità dai tre aspetti, toro e uomo e dio. E se tutti e tre gli aspetti dell’Oscuro favoriranno la candidatura di quest’uomo, allora egli sarà posto sul sacro trono di Minosse, e avrà in sposa la Madre di Tutti, Cibele, che alberga in Arianna, figlia di Minosse, e regnerà su Creta come reggente dell’Oscuro. E Minosse andrà nel Labirinto, a incontrare la divinità che l’ha rinnegato. Ma se l’Oscuro non mostrerà il suo favore a quest’uomo, anche sotto uso soltanto dei suoi aspetti, allora egli dovrà morire, e la sua carcassa verrà gettata nel Labirinto, affinché l’Oscuro possa cibarsi della sua anima dannata.»

Quando l’araldo ebbe terminato il suo annuncio, Teseo riuscì a vedere distintamente. Si trovava nella stessa arena ovale che aveva visto insieme a Snish, dalla collina. La sabbia bianca era macchiata di sangue. Diecimila rappresentanti della migliore nobiltà di Ekoros affollavano gli spalti.

Con apprensione, Teseo cercò la splendente massa di bronzo di Talos. Perché il gigante di bronzo, avendolo incontrato quando era giunto sulla spiaggia, e avendo udito la sua menzogna sul temuto capitan Fuoco, avrebbe potuto… se davvero non era uno stupido… scoprire il travestimento di Gothung. Ma Talos non era in vista.

Speranzoso, allora, Teseo cercò con lo sguardo Snish. Dato che il piccolo mago non era venuto a dividere la sua prigionia, Teseo pensava che fosse riuscito a fuggire; e perciò avrebbe potuto essergli utile ancora. Ma Snish, lo sapeva, non aveva il coraggio di tentare un’impresa veramente rischiosa. Non si sorprese, perciò, quando non riuscì a vedere il piccolo babilonese.

Sopra il centro dell’arena vide una sezione di palchi coperti da grandi tende. E riuscì a scorgere dei visi noti. Vide il volto scuro, dal naso aquilino, di Amur l’Ittita, e il volto sottile dell’ammiraglio Phaistro. Riuscì perfino a cogliere il mormorio rauco dell’ittita:

«Mezzo talento, che il primo toro uccide il normanno!»

Gli occhi di Teseo cercarono allora Arianna. Lei sedeva in disparte, in un palco dalle tende bianche. Una bianca colomba era posata sulla sua spalla nuda. Il suo abito era del verde dei suoi occhi.

Lo stava fissando intensamente. Uno strano sorriso le curvava le labbra. Il suo capo fiammeggiante si chinò in un breve gesto, che pareva di viva soddisfazione. Rivolse un cenno agli schiavi che portavano le insegne di Amur, e che erano impegnati a registrare le scommesse.

«Tre talenti,» disse lei, piano, «che il normanno muore nelle prime tre prove.»

Teseo distolse lo sguardo, con uno sforzo, da quella visione di bellezza incredibile e insolente. Vide, alle sue spalle, un palco dalle tende nere. E il cuore gli balzò in petto, quando capì che finalmente stava guardando il temuto stregone che aveva governato Creta per venti generazioni.

Strano ma vero, Minosse non aveva l’aria né del mago né del sovrano. Era un ometto piccolo e grasso, e le mani, che teneva intrecciate sulla bianca veste di seta, erano piccole e grassocce, rosee e ben curate. Aveva il viso rotondo e rosso, e gli occhi erano piccoli, azzurri e allegri. Perfettamente bianchi, sottili come quelli di una donna, i suoi capelli erano lunghi, e acconciati secondo i dettami della moda. Le sue braccia grassocce e rosate erano cariche di braccialetti d’argento.

Teseo lo fissò di nuovo, sbalordito. Perché quell’uomo aveva l’aria del piccolo bottegaio, uno di quelli che rimangono sempre poveri, perché regalano dolci e frutta ai bambini e ai poveri. Non aveva l’aria del dio-stregone che teneva sotto il suo giogo crudele più di mezzo mondo. Ma, ciononostante, era lui quell’uomo.

Poi qualcosa sì mosse, sul fondo del palco, e Teseo vide un’altra figura. Un uomo magro e curvo, vestito completamente di nero, con un viso pallido e cadaverico, e occhi fondi e fiammeggianti. Il viso cadaverico, il corpo ricoperto di nero, tutto questo insieme dava l’impressione di una forza sinistra e spietata. Ecco uno che aveva l’aria del mago e dello stregone, e certamente lo era. Perché costui, pensò Teseo, doveva essere il temuto e infame Dedalo.

I due parlarono per qualche istante, nel palco. Teseo udì le loro voci. Quella di Minosse era dolce e acuta come quella di una donna. La voce dell’altro era sepolcrale, con sottofondi gelidi e rauchi che fecero rabbrividire profondamente Teseo.

Usarono la lingua segreta dei sacerdoti, cosicché Teseo non riuscì a capire. Ma dopo un istante Minosse chiamò con un cenno languido e gioviale uno degli schiavi, e disse, con la sua voce femminea:

«Punto nove talenti sul normanno… uno su ogni gioco, sulla sua vittoria.»

Allora Teseo tremò davvero. Quegli stregoni avevano già scoperto il suo travestimento? Stavano semplicemente giocando con lui? Altrimenti, perché Minosse avrebbe scommesso, con tanta calma, sulla perdita del suo impero, sulla catastrofe e la sconfitta, dopo venti generazioni e più di vittorie? Teseo guardò quel viso gioviale e bonario. Gli occhi azzurri di Minosse restituirono lo sguardo, e il sovrano gli rivolse un allegro cenno d’intesa.

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