CAPITOLO X

Dei corni d’argento suonarono di nuovo, tra le mani di tre sacerdoti dalle vesti nere. E la voce secca dell’araldo ricominciò la sua cantilena:

«Per prima cosa lo sfidante provi la volontà dell’Oscuro nel suo aspetto di toro. I primi tre gradini sono tre tori selvaggi della Tessaglia, e le loro corna indicheranno la volontà dell’Oscuro.»

La sfida col toro, aveva appreso Teseo dalle storie che aveva udito, era il pericoloso sport nazionale di Creta. Gli atleti, di solito schiavi o prigionieri, dovevano esercitarsi per anni e anni. Spesso, in occasione meno solenni, quella stessa arena doveva essere stata dedicata a quello sport.

Un nero passaggio si aprì all’estremità dell’arena, e un grande toro nero ne uscì, fermandosi poderoso e torreggiante sulla sabbia bianca. Teneva alta la sua testa superba, e il sole risplendeva riflettendosi nelle sue lucide corna.

Nudo sulla sabbia rovente, Teseo trovò il modo di ricordare le pitture cretesi, che riproducevano le scene dei cimenti col toro. L’audace acrobata afferrava le corna del toro che lo caricava, e si sollevava con mossa aggraziata al di sopra dell’animale, servendosi di quel terribile sostegno. Desiderò per un istante di essere stato allenato a quell’arte pericolosa, ma così non era stato.

Il toro si fermò, rimase immobile per un istante, come se fosse rimasto stupito dalla visione degli spalti e delle migliaia di spettatori. Sollevò una nube di sabbia, grattando furiosamente il terreno con la zampa, e abbassò il capo, strofinando le corna sul terreno.

Poi i suoi occhi scoprirono la figura solitaria di Teseo, e l’animale caricò. Teseo lo attese, immobile. I suoi sensi, d’un tratto, riacquistarono una strana lucidità. Sentì il contatto dei granelli di sabbia sotto i suoi piedi, e il calore del sole, e le zampe vischiose di una mosca che gli camminava sul ventre.

Il tempo parve stranamente rallentato. Avvertì lo sguardo di ogni occhio, nella folla, e trovò perfino il tempo di lanciare un’occhiata ad Arianna. Lei si era piegata in avanti, nel suo palco dalle tende bianche, e lo fissava intensamente, con i suoi freddi occhi verdi. Pensò che lei aveva scommesso che il toro lo avrebbe ucciso, e le lanciò una sfida:

«Madre di Tutti, ricorda questo tuo figlio!»

Non c’era tempo per vedere la sua reazione, perché il toro era già su di lui. Trattenne il fiato, divaricò le gambe sulla sabbia rovente, e tese ogni muscolo del suo corpo…

O meglio, del corpo poderoso di Gothung. Imprecò mentalmente, sentendo che quel corpo era stanco e provato dalla prigionia, perché ciò che doveva fare richiedeva una prontezza fenomenale, e una forza integra, totale.

Teseo non era allenato per la difficile arte del salto del toro. Ma aveva viaggiato per la Tessaglìa. Aveva visto i selvaggi pastori di quella terra afferrare per le corna un toro che caricava, e rovesciarlo con un’abile mossa. Aveva tentato anche lui la stessa cosa.

Ci volle soltanto un istante. Una stretta forte, sulle corna ricurve. Uno strattone laterale. La spinta improvvisa di tutto il corpo poderoso contro la leva offerta dalle corna. Ma lui non aveva mai spinto una bestia così poderosa.

Sotto la calda pelle nera, i terribili muscoli opposero resistenza. Le corna si sollevarono, per colpirlo. Ogni muscolo dell’alto corpo di Gothung era teso nello sforzo sovrumano. Ma l’enorme testa si piegò. Il peso del toro completò l’opera, insieme alla spinta furiosa della carica. L’animale cadde, scalciando.

Teseo uscì dalla nube di polvere, e respirò di nuovo. Tremava violentemente. Malgrado il sole, era imperlato di un sudore gelido. In piedi, intento a osservare il toro, scaricandosi dalla tremenda tensione, udì delle voci levarsi, sul grande mormorio della folla.

«Ma non può sollevarne tre!…»

«Vedi, è già debole e trema…»

«Dieci a uno che il primo uomo lo uccide, se riesce a sfuggire ai tori.»

«Nessun uomo ha mai vinto, in mille anni!»

«Nessun uomo vincerà mai!»

Il toro riuscì a rimettersi in piedi. Rimase dov’era, a testa bassa, grattando la sabbia, e ansimando. Ma non lo caricò di nuovo. Dopo qualche tempo, i corni suonarono, e l’araldo gridò:

«Gothung il Normanno è sopravvissuto alla prima prova, ottenendo il favore dell’Oscuro nel suo aspetto di toro. Gothung ha scalato un gradino verso il trono di Minosse. Perciò, che egli tenti ora il secondo gradino.»


Un grande cancello si aprì, all’estremità opposta dell’arena. Degli abili saltatori di tori, con i loro rossi mantelli, fecero uscire il primo toro. Il cancello fu chiuso, e venne ammesso nell’arena il secondo animale.

Il secondo toro rifiutò di combattere. Se Teseo fosse fuggito, forse l’avrebbe inseguito. Ma lui rimase immobile, al centro dell’arena, debole per la fame e per la fatica della sua prima prova, mentre l’animale girava intorno alla muraglia, alla ricerca di una via per fuggire.

Le migliaia di spettatori lo derisero. I saltatori di tori gli lanciarono contro sassi e aculei per infuriarlo. Ma il toro si limitò a correre più in fretta, e alla fine saltò sopra il cancello, e fuggì dall’arena.

Il terzo, però, era più bellicoso. Abbassò il capo, senza produrre alcun suono, e avanzò verso Teseo, scatenandosi in una corsa selvaggia. Teseo si preparò, e tese le mani per afferrargli le corna.

Ma il capo si mosse, e sfuggì alla sua presa. Il toro scattò. Le sue corna si mossero, ferocemente. Una punta aguzza sfiorò il corpo di Teseo. L’uomo fu sommerso da un’ondata di dolore. Rimase fermo, barcollando, quando il toro, dopo essersi fermato più avanti, si voltò per attaccarlo di nuovo. E di nuovo le corna sfuggirono alla sua presa, e gli sfiorarono dolorosamente il corpo.

L’animale si voltò, e caricò di nuovo. Questa volta Teseo riuscì a indovinarne le mosse. Le sue mani erano pronte, e un rapido movimento gli fece stringere le dure corna dell’animale. Mise tutte le sue forze, non per ostacolare la spinta della bestia possente, ma per assecondarla. Il toro cadde. Un corno affondò nella sabbia, e si udì il secco rumore di una spina dorsale che si rompeva. Il toro giacque immobile.

Teseo tremò, si fece da parte, cercando disperatamente di respirare. Il sole batteva sul suo capo, spietato. La sabbia bianca cominciò a ondeggiare davanti ai suoi occhi, sotto di lui, come un mare di fuoco bianco. I segni rossi che le corna del toro avevano lasciato sul suo petto e sul fianco erano oasi pulsanti di dolore, e le mosche cominciarono a ronzare, cercando di bere il suo sangue.

Un profondo mormorio, carico di rispetto, veniva dalla folla che riempiva gli spalti. Teseo ascoltò le parole che giungevano dai palchi di tendaggi colorati. Erano proprio sopra di lui. Senza guardare, riconobbe la voce dorata di Arianna.

«Altri tre talenti, che gli uomini lo uccideranno!»

«Accetto, figlia.» Era la voce flautata di Minosse. «Tre talenti, che sopravviverà per affrontare gli dei.»

Teseo rabbrividì, e si coprì gli occhi, per difendersi dal bagliore accecante del sole. Il suo travestimento era dunque vano? La sua vittoria nei giochi era già stata anticipata… e resa inutile da chissà quali accorgimenti… da quell’uomo grassoccio e bonario, la cui sinistra magia aveva governato Creta per dieci secoli?

I corni suonarono ancora, ma questa volta il loro suono giunse a Teseo debole e distante, e la voce dell’araldo annunciò:

«Il toro è morto. Nell’aspetto di toro, l’Oscuro guarda con triplice favore la candidatura di Gothung il Normanno. Egli è salito di tre gradini verso il trono di Minosse. Ora che egli provi la volontà dell’Oscuro, nel suo aspetto di uomo.»

Il toro fu trascinato fuori dell’arena. Teseo aspettò, barcollando nel tremendo calore. Aveva la bocca arida e amara. Non c’era da meravigliarsi, pensò, che nessun uomo avesse vinto i giochi in mille anni. I corni suonarono di nuovo, e un nero lottatore nubiano entrò nell’arena.

L’uomo era un gigante, nudo, all’infuori di una cintura e di un perizoma, e i muscoli guizzavano splendidi sotto la lucida pelle nera. Un pesante elmo di cuoio gli proteggeva la testa. Le sue mani erano appesantite da grandi cesti di cuoio, appesantiti con pezzi di bronzo… oggetti crudeli, che potevano schiacciare un cranio umano come se fosse stato un uovo.

Teseo rimase immobile ad aspettarlo, combattendo una silenziosa battaglia contro il calore, la fame e la fatica. Il nubiano si preparò a scattare, avanzò. I pugni mortali furono scagliati come arieti. Uno colpì il braccio di Teseo, lateralmente, e l’altro gli sfiorò la tempia. Malgrado la finta di Teseo avesse reso in gran parte inefficaci i colpi, il dolore fu ugualmente lancinante.

I pugni nudi erano molto più rapidi di quelli appesantiti del nubiano, ma non abbastanza. Teseo cercò di colpire il corpo nero del nubiano, ma questi si spostò lateralmente, e con la mano destra lo colpì alla spalla.

Teseo indietreggiò, fece una finta, si allontanò e si avvicinò, balzando rapido intorno al nubiano. Ma era già esausto. Avrebbe voluto gettarsi sulla calda sabbia, per riposare, per dimenticare, per chiedere al negro di porre fine alla sua agonia. Il potere malvagio di Minosse non aveva più importanza, per lui. Non desiderava più i tesori di Cnosso, e neppure Arianna contava qualcosa, per lui.

Ma… non poteva perdere!

Chissà come, riuscì a riprendersi e a fronteggiare di nuovo il nubiano, che sogghignava, con aria di trionfo. Teseo cercò di ricordare qualcosa, con la sua mente confusa e annebbiata. Lo trovò. Un trucco che aveva appreso, faticosamente e con grandi sofferenze, da un cammelliere che era venuto dall’oriente con una carovana di mercanti.

Tese ogni muscolo del suo corpo tremante, si preparò, attese. Il nubiano colpì di nuovo. Gli afferrò il polso nero. Poi lo torse, violentemente, sollevando il corpo del negro sopra la sua schiena. Un colpo sul collo lo fece barcollare. Ma lui mantenne la sua stretta, poi si chinò.

Il nubiano volò nell’aria, e Teseo diede un ultimo strattone. Il nubiano cadde, battendo il capo. Si udì un altro rumore soffocato, di ossa che si spezzavano, nel silenzio che gravava sull’arena, e il lottatore giacque al suolo, morto.

Il suo corpo fu portato via. I corni suonarono, e l’araldo gridò:

«Gothung ha scalato il quarto gradino. Che combatta di nuovo, contro l’aspetto dell’Oscuro che è anche uomo e sotto questa forma gli si presenta.»

Ci fu un mormorio nella folla. Teseo non sollevò lo sguardo. Ma poi colse il mormorio soffocato di Amur, l’Ittita:

«Se Minosse ha scommesso sul normanno, io sono finito. Un onest’uomo non può scommettere con i maghi! Ci scommetto cinquanta talenti, che essi hanno già visto la vittoria finale, nelle loro sfere del tempo!»

Teseo condivideva lo stesso angoscioso sospetto. Coprendosi gli occhi, per difendersi dall’accecante riverbero del sole, guardò di nuovo il viso di Minosse, i suoi ilari occhi azzurri, e vide che il sovrano gli strizzava di nuovo l’occhio. Si domandò quale insidia si celasse in quell’allegria. Vide Arianna, pallida e impaziente, che pensava ai tre talenti scommessi sulla sua morte. E scorse di nuovo la figura curva e cadaverica, nel palco, alle spalle di Minosse, e rabbrividì di nuovo, avvertendo la fredda presenza di forze soprannaturali, che significavano per lui soltanto sventura.

I corni suonarono di nuovo. E Teseo aspettò. Disperatamente, sognò un bicchiere d’acqua. Chiuse gli occhi, e ricordò il fresco lago dell’Attica, là dove aveva imparato a nuotare, tanto tempo prima. Le mosche ronzavano intorno a lui, si posavano sulle ferite che segnavano il suo corpo. E, finalmente, il secondo uomo entrò nell’arena.

Era un piccolo marinaio cretese, bruno e robusto, che impugnava il tridente e stringeva la rete. Avanzò cautamente sulla sabbia, facendo roteare intorno al suo braccio la rete. Teseo desiderò violentemente l’elsa della sua Stella Cadente, e mosse le dita, così vuote e indifese.

Il cretese gli girò intorno, cautamente, e poi corse avanti senza preavviso, scagliando la rete. Ma Teseo, che lo aveva osservato socchiudendo gli occhi, aveva visto i segni premonitori dell’improvviso scatto. Tese i muscoli, allungò la mano, e colse al volo la rete.

Una volta, sulla galera pirata di capitan Fuoco, un marinaio prigioniero aveva salvato la propria vita, rivelando in cambio tutti i trucchi di quel genere di lotta. Teseo si inginocchiò sulla sabbia. Ma fece girare la rete, per impedire alle sue corde di avvolgersi intorno al suo corpo, e la rilanciò contro il cretese.

Il marinaio era balzato dietro la rete, impugnando il tridente con entrambe le mani. La rete lo prese di sorpresa, lo imprigionò. Teseo prese al volo il tridente, sfuggito dalle mani dello sbalordito marinaio, e lo impugnò con forza. Una punta di bronzo penetrò nella carne del cretese, non profondamente.

«Ti arrendi?» domandò Teseo.

Bianco per il dolore, l’uomo cercò di sollevarsi. Teseo lo fermò, puntandogli contro la gola le punte del tridente. Debolmente, allora, il marinaio ansimò:

«Mi arrendo.»

E si accasciò sulla sabbia, morto. Teseo lasciò cadere il tridente, e indietreggiò. Lo sbalordimento lo fece tremare. Sapeva che quella ferita non era letale.

I corni suonarono. L’araldo annunciò che il normanno aveva salito il quinto gradino verso il trono di Minosse. Il cadavere del marinaio fu trascinato via. Teseo aspettò, esausto. E alla fine il terzo uomo entrò nell’arena.

Questo campione dell’Oscuro era un etrusco alto, dal volto duro… un membro della razza di guerrieri nomadi che Minosse aveva assoldato sulle coste di settentrione, per guardare il suo trono. Indossava un’armatura splendente. Portava uno scudo alto quasi quanto lui, e una lunga spada bronzea.

Teseo indietreggiò, vedendo il riverbero del sole sulla lama della spada. Combatté il desiderio di gettarsi sulla sua punta, per trovare una via di scampo rapida e pulita dalla morsa della fatica e della sofferenza. Il desiderio fu vinto, e la sua mente ottenebrata cercò di fare un altro piano.

C’era una grande chiazza scura sulla sabbia, dove i tori dovevano avere ucciso un’altra vittima. Avrebbe potuto essergli utile. Perché lui doveva andare avanti. Non per il trono di Minosse, non per il tesoro di Cnosso, e neppure per l’insolente bellezza di Arianna. Ma, gli pareva, per un bambino nudo, che piangeva in un canale di scolo.

Lo scudo dell’etrusco era pesante. Malgrado la stanchezza, Teseo riuscì a muoversi abbastanza velocemente da evitare la spada del nemico, per qualche tempo, finché non fu intrappolato in un angolo. Si ritrasse, si voltò, fece una pausa, e fuggì di nuovo.

L’etrusco lo inseguì, ansimando, sudando, bestemmiando i suoi dei. Il sole era accecante, i suoi riflessi facevano brillare l’elmo e la spada. Teseo passò vicino alla nera chiazza di sangue, le passò di nuovo vicino, e poi ancora, una terza volta. Ma il mercenario la evitò sempre. Furono le poche gocce di sangue versate dal marinaio, durante l’ultima prova, che alla fine lo fecero scivolare. Teseo si fermò, si chinò, e si voltò di scatto. Le sue dita tremanti afferrarono una gamba coperta di bronzo, diedero uno strattone.

L’etrusco cadde sulla schiena, sotto il suo lungo scudo.

Il tallone nudo di Teseo gli calpestò il braccio, e la spada di bronzo sfuggì di mano al nemico.

Teseo afferrò la spada, la sollevò in alto.

Ma non colpì.

Perché Minosse, nel palco dalle tende nere, si era alzato in piedi, bruscamente.

Il suo viso roseo rideva sempre, con la sua espressione bonaria. Gli occhi azzurri scintillavano per l’allegria.

Ma egli sollevò il braccio grassoccio, in un gesto di noia.

Una fiamma azzurrina uscì dalle sue dita nude.

Si udì lo schianto di un vero tuono.

Emanando un fetore insostenibile, di carne e di cuoio bruciati, l’etrusco cessò di dibattersi, e giacque immobile.

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