La segreta, perduta nei sotterranei di Cnosso, non era dissimile dal pozzo in cui Teseo aveva aspettato il giorno dei giochi. Un pozzo quadrato, dalle pareti di granito, scavato nella roccia viva, umido per l’acqua che filtrava dalle pareti, freddo e sinistro, ove regnava un odore di decomposizione che faceva gelare il sangue. Teseo era totalmente solo.
Neppure il più fievole raggio di luce, però, raggiungeva il pozzo, per distinguere il giorno dalla notte, e l’oggi dal domani. Nessun rumore filtrava dal mondo dei vivi, in alto. Teseo sapeva che dovevano esserci delle guardie, nei cupi corridoi di pietra che si stendevano in alto, ma non udì neppure il sospiro di una voce, o il fruscio del più leggero dei passi. La segreta era un sepolcro dei morti viventi.
Nell’altro pozzo, prima dei giochi, Teseo aveva affermato che un uomo avrebbe potuto fuggire anche da un luogo del genere… se ciò fosse stato necessario. Ora, si disse Teseo, questo era necessario. E provò a far funzionare il piano che aveva escogitato.
Aveva aspettato, per ore, o per giorni, interminabili, che le guardie venissero a portargli il cibo. Ma non arrivò alcun cibo. La giustizia dell’Oscuro, apparentemente, cominciava con il digiuno solitario.
Teseo era certo che qualcuno ci fosse, però, per assicurarsi di quando in quando che il prigioniero fosse ancora vivo. E, quando fu sparita ogni speranza di fuggire grazie alla forza delle proprie mani, cominciò a chiamare, a intervalli regolari, rivolgendosi all’oscurità che gravava sopra di lui:
«Dieci talenti d’argento per portare un messaggio all’ammiraglio Phaistro!»
Dieci talenti d’argento erano quattro volte il peso di un uomo, in metallo, e l’argento era il metallo più prezioso. Un talento significava una grande ricchezza. Dieci erano una cifra sufficiente ad eccitare la cupidigia di ogni uomo. Ma la voce di Teseo rimbalzò cupamente sulle pareti spoglie della segreta, e morì nel silenzio, assorbita dalle tenebre e dal nulla, e non giunse alcuna risposta.
Pronunciò queste parole per molte volte, finché non ebbe più voce. Dormì, si svegliò, gracchiò il suo rauco appello, dormì e si svegliò di nuovo, e lo mormorò, con il rantolo che gli era rimasto. Il tempo era breve, ormai; dopo, non avrebbe più avuto né le forze né la ragione, per riuscire a realizzare il suo piano.
«Uomo nudo, quale argento possiedi?»
Dapprima non riuscì a credere di avere udito quel mormorio cauto e spaventato. Rimase immobile, tremando, sulla fredda pietra. E il mormorio si fece udire di nuovo, debolmente:
«Condannato, dov’è il tuo argento?»
Era reale! Teseo cercò di calmare i suoi muscoli, che gli dolevano e facevano tremare il suo corpo esausto, cercò di ritrovare la voce, e la forza, e l’astuzia. Terrorizzato dall’idea di un errore, che avrebbe annullato anche questa sua ultima, debolissima speranza, mormorò nel buio:
«Io possiedo duecento talenti d’argento… e anche trecento talenti d’oro, e due volte questo peso in bronzo e in stagno, e quaranta giare piene di gioielli… che il capitan Fuoco ha preso da cento tra le più ricche navi di Creta e d’Egitto e delle città del nord. E questo tesoro è sepolto in un’isola, e protetto dall’incantesimo di un mago, e solo il mago ed io possiamo ritrovarlo.»
Ci fu silenzio, nel buio. Teseo tremò, per il timore di aver fallito, per il timore che la guardia se ne fosse andata. Ma, finalmente, il mormorio si fece udire di nuovo:
«Tutto l’argento del mondo, pirata… e tutto l’oro, e il bronzo e lo stagno… non potrebbero comprare un giorno di libertà, per te. Perché la guardia che ti liberasse sarebbe condannata automaticamente alla giustizia dell’Oscuro. E tutti i tesori del mondo non potrebbero salvare un uomo dagli stregoni e dagli dei.»
«Ma io non cerco la fuga,» mormorò Teseo. «Io voglio semplicemente pagare un sevizio. Se dovrò andare nel Labirinto, non avrò bisogno di quel tesoro che aspetta sull’isola. Io sono disposto a rivelare il suo nascondiglio, in cambio di un servizio.»
«E qual è,» giunse il mormorio dall’alto, «qual è questo servizio?»
«È un servizio che solo l’ammiraglio Phaistro può rendermi.» Teseo mise nella sua voce una nota di amarezza. «Io sono stato tradito da uno dei miei ufficiali… un uomo che era stato il mio migliore amico. Ha preso il comando della mia nave, e mi ha mandato alla deriva, su una carcassa condannata ad affondare, senza remi e senza speranza, affinché io perissi schiantandomi sugli scogli di Creta. Voglio dare il mio tesoro in cambio della vendetta contro il pirata dorico, chiamato Cirone, la Volpemaestra. E solo l’ammiraglio può darmi quello che io desidero.»
Silenzio. Una goccia d’acqua cadde sulla pietra. Ancora silenzio. Un sospiro dall’alto, e un’imprecazione soffocata, come se la guardia fosse combattuta tra la cupidigia e la paura. E, alla fine, giunse di nuovo il mormorio, in tono dubbioso: «Come otterrò il mio argento?»
«Puoi fidarti di Phaistro,» lo incoraggiò Teseo. «Se lui viene qui, il segreto varrà bene dieci talenti!»
«Oppure la mia vita!» brontolò l’altro. Ci fu ancora una pausa di silenzio, e il rumore di un’altra goccia che cadeva dalla roccia. «L’ammiraglio ha certamente bisogno del tuo tesoro,» rispose la guardia, cedendo. «Gli dirò di venire… se oserà correre questo rischio tremendo!»
Teseo tremò di speranza, poi fu di nuovo in preda alla più nera paura.
«Aspetta!» disse. «Di’ un’altra cosa a Phaistro. È inutile che lui venga, a meno che non possa trovare e portare con sé un certo ciabattino babilonese, che è recentemente arrivato a Ekoros. Il ciabattino è un ometto piccolo, dal viso di rospo, dalla pelle gialla e bruna. Il suo nome è Snish.»
«Ma che bisogno c’è di un ciabattino?» mormorò raucamente la guardia.
«Il ciabattino è anche un mago,» mormorò Teseo. «Ed è mio amico. Mi ha aiutato a seppellire il tesoro, e lo ha protetto con le sue arti. Nessuno di noi due può trovarlo, né dare istruzioni per trovarlo, da solo. Perché ciascuno possiede solo la metà del segreto, e la metà che ciascuno possiede è inutile senza quella nota all’altro. Questo è l’incantesimo.»
«Lo dirò all’ammiraglio,» promise la guardia. «Ma, pirata, se questa fosse solo una menzogna…» La minaccia gli morì in gola, ed egli brontolò: «Ma a che servono le minacce? Cos’altro può essere fatto a un uomo che è già in attesa della giustizia dell’Oscuro?»
Ritornò il silenzio.
Le gocce d’acqua continuarono a scendere, e il loro rumore era chiaro e forte, come il crollo di tante torri di cristallo. Le gocce cadevano a lunghi intervalli, e il silenzio cresceva e si addensava tra un tonfo e l’altro e Teseo aspettò, una goccia dopo l’altra, un’eternità dopo l’altra, aspettò che qualcosa accadesse, mentre l’incertezza e l’ansia gli dilaniavano la mente.
Un’ombra fredda di terrore e di angoscia crebbe dentro di lui. Perché non esisteva, in realtà, alcun tesoro sepolto. Tutto il bottino della galera pirata, nel tempo in cui lui era stato a bordo, non ammontava neppure alla metà di ciò che aveva descritto. Ma solo un decimo di esso era toccato a capitali Fuoco, e lui l’aveva donato lietamente, senza curarsi di ciò che poteva rimanergli, a coloro che ne avevano bisogno, a coloro che soffrivano per le guerre e per i pesanti balzelli imposti da Minosse.
«Tutti i cretesi sono mentitori e spergiuri,» questo era un proverbio noto da Tebe a Troia. Una razza di bugiardi poteva avere appreso l’arte di scoprire subito le altrui menzogne, ma poteva essere anche pronta a crederle. Ma questa invenzione era adesso la sua unica speranza di vita, e doveva sperare, sperare con forza.
A un certo punto, riuscì ad addormentarsi. Sognò di essere salito vittoriosamente sul trono di Minosse, e sognò che la bella Arianna era diventata sua sposa. Ma lei era fuggita da lui, nel Labirinto dell’Oscuro. Lui l’aveva seguita, e l’aveva trovata in mezzo agli orrori di quell’oscuro spazio cavernoso, e l’aveva baciata. Ma, tra le sue braccia, la bella dea si era trasformata nella figura sgraziata di Snish.
Il rumore delle gocce che cadevano lo destò, e gli parve di essere vicino a una terribile valanga di montagne di cristallo. Rimase immobile, sul pavimento umido, e aspettò con intensità dolente che qualcosa accadesse. Le gocce continuarono a cadere, e ognuna segnava l’inizio e la fine di un secolo di ansia e di tensione.
Teseo pensò di stare di nuovo sognando, quando udì un rumore di passi, in alto. Ma si udirono dei mormoni sommessi, e il sordo rumore di una spada che toccava un oggetto… una parete?… di pietra. E udì la voce secca e familiare dell’ammiraglio Phaistro, una voce tremante di paura, e sommessa.
«Capitan Fuoco?»
«Sì!» Teseo cercò di ritrovare il respiro. «Ammiraglio…»
«Silenzio!» la voce era tesa, spaventata. «Scendiamo da te.»
Non apparve neppure un raggio di luce. Si udì lo scatto debole di una serratura. Degli uomini mormorarono, respirando affannosamente per lo sforzo. Ci fu uno scricchiolio cupo, un’imprecazione soffocata seguì immediatamente, insieme a un tintinnio di bronzo. Capì che la botola era stata sollevata.
Qualcosa scese, vicino a lui. Scoprì che si trattava dell’estremità di una corda, una scala di corda, e qualcuno scese. Strinse un braccio, nel buio, e mormorò:
«Chi sei?»
La risposta fu soltanto un borbottio soffocato, ma riconobbe la voce nasale di Snish. Il corpo del piccolo stregone era freddo e tremava. Il suo respiro usciva da un pesante bavaglio, che gli fasciava completamente la testa.
«Silenzio!» la voce dell’ammiraglio era secca, e tremava per la paura. «E non osiamo far luce, perché gli occhi e le orecchie degli stregoni vedono e sentono molte, troppe cose!»
Scese dalla scala, accanto a loro, e cercò Teseo con mani tremanti.
«Non c’è tempo da perdere,» disse. «I miei marinai hanno trovato questo ciabattino in una bottega. Dice di non essere un mago, e usava un altro nome, non Snish. Ma è babilonese. Gli toglierò il bavaglio.»
«È lui il mago,» disse Teseo, «ma lasciagli il bavaglio. Può usare i suoi incantesimi senza parlare… se vuole evitare di essere torturato, per rivelare il segreto del tesoro dell’isola, e poi, magari, per essere gettato in pasto all’Oscuro.»
Snish tremò più violentemente, e protestò emettendo una serie di suoni nasali.
«Silenzio!» La voce dell’ammiraglio era incrinata dal terrore. «Non parlare di… quello. Non qui! Perché siamo sopra il Labirinto, e pochi metri di pietra ci dividono da esso!»
Strinse ansiosamente con le dita sottili il braccio di Teseo.
«E affrettati!» lo supplicò, raucamente. «Venendo qui, io rischio il nome, la posizione e la vita. Sono anch’io sotto la minaccia dell’… di quello. Così, parla in fretta. Dimmi dove posso trovare il tuo tesoro sepolto. E dove la flotta può prendere in trappola quel dannato, barbuto dorico… perché Volpemaestra mi è già sfuggito di mano molte volte, e di recente, per colmo d’imprudenza, egli ha catturato un altro mercantile.»
«Allora vieni.» Teseo portò l’ammiraglio lontano da Snish, verso l’angolo più segreto dell’umida cella. «Il mago non deve sentire la mia parte del segreto. E il suo incantensimo non ha bisogno di parole.»
«Presto!» Phaistro stava tremando. «L’odore di questo buco darebbe là nausea a un topo! E il pericolo…»
Teseo udì il brusco cambiamento nella voce dell’ammiraglio, che assunse un tono stranamente familiare. L’ammiraglio fu, improvvisamente, più alto di lui. Le sue parole si trasformarono in un’esclamazione di sbalordimento, e si udì un rumore di stoffa strappata. Teseo si liberò bruscamente dalle mani che lo stringevano freneticamente, e indietreggiò, verso la scala.
«Aiuto!» esclamò. «Un trucco… una trappola! Il prigioniero mi ha attaccato, mi ha spogliato!»
La sua voce singhiozzante era la voce dell’ammiraglio Phaistro. Afferrò la scala, che stava già vibrando, perché il piccolo Snish si stava arrampicando disperatamente su di essa.
«Stupidi!» ruggì l’ammiraglio. «Fermatelo! Sta cercando di fuggire!»
Ma l’ammiraglio parlava con la voce di capitan Fuoco. Scivolò sul pavimento umido e scivoloso della cella ancora sconosciuta, cercando disperatamente di afferrare la scala. Teseo raggiunse la botola, e, rapidamente, delle mani ansiose lo issarono nel corridoio.
«Padrone, sei ferito?»
«No, sia lode a Minosse,» disse la nuova voce di Teseo. «Ma il tesoro del pirata è una menzogna… degna di un buon cretese. Mi ha assalito… progettando, senza dubbio, di uccidermi con il favore delle tenebre, e poi di fuggire indossando i miei abiti.»
Degli uomini angosciati e invisibili stavano lavorando freneticamente. La pesante grata di bronzo ricadde sulla cella, attutendo le grida e le imprecazioni che venivano dal basso. Una serratura scattò. Uno schiavo avvolse Teseo nel mantello che l’ammiraglio aveva messo da parte, prima di scendere nella cella.
«Presto!» mormorò Teseo. «Dobbiamo fuggire, prima che le sue grida richiamino l’attenzione delle altre guardie! O dovremo affrontare tutti… quello! Il tesoro di capitan Fuoco era una menzogna… ma provvederò ugualmente, affinché tutti voi siate ricompensati. Usciamo di qui!»
Delle guardie spaventate lo scortarono lungo corridoi bui, scale tetre, sale minacciose, e finalmente uscirono in una delle cantine del palazzo, piena di giare d’olio e di vino. Finalmente una porta laterale li condusse in un vicolo, sotto la massa di Cnosso, alla luce delle stelle, dove un palanchino li stava aspettando.
Teseo si calmò e, tremando, si distese sui cuscini profumati del palanchino.
«A casa,» disse, ansiosamente, «prima che ci scoprano!»
Il suo corpo tremava ancora… per l’emozione e la fatica, ma soprattutto per il senso di cupa esultanza che lo aveva invaso.
«Ma adesso non c’è pericolo,» disse il servo che lo aveva aiutato a salire sul palanchino, con il tono di chi gode della confidenza del suo padrone. «Siamo stati in giro abbastanza spesso, di notte. Gli uomini si limiteranno a ridere, e mormoreranno che l’ammiraglio sta corteggiando di nuovo la sua dea.»
Il servo ridacchiò. Fu una risata cupa e sgradevole, che rimase sospesa nell’aria, come una sottile, impalpabile minaccia.
«È un peccato che il pirata abbia mentito, ma, per lo meno, gli inganni non erano tutti dalla sua parte. Se sapesse che tu avevi catturato i suoi vecchi compagni due lune or sono… e, dopo aver venduto i suoi uomini ad Amur l’Ittita, avevi già spedito Volpemaestra a precederlo, ad aprirgli la strada verso la perdizione laggiù, nel Labirinto dell’Oscuro!»
Il servo rise cupamente, nel buio.