CAPITOLO XVII

Teseo rimase immobile a lungo, alla sommità dei gradini di pietra che non poteva più vedere. L’aria intorno a lui era fredda e stagnante, come un fluido palpabile. Aveva un sentore putrido, antico, e c’era qualcosa… qualcosa di vivo, in essa.

Il tonfo della pietra ricaduta al suo posto rimbombò per qualche minuto nelle sue orecchie, e poi Teseo sentì solo il silenzio. Sapeva che gli uomini e gli dei minori di Creta dovevano muoversi, sopra di lui, nella cupa sala che era l’anticamera dell’antro dell’Oscuro. Ma ora non giungeva neppure il suono dei terribili passi di Talos.

Il silenzio era una cosa solida, spaventosa.

Anche in quella completa oscurità, però, e malgrado quell’immobilità terribile, paralizzante, egli cercò un raggio di speranza. Perché lui aveva passato le tre muraglie di Creta, e ora si trovava, ancora vivo, nel dominio dell’Oscuro.

L’Oscuro, certo… o la paura dell’Oscuro… era il vero padrone di Creta. Se le migliaia di abitanti affamati e laceri obbedivano agli editti di Minosse, e facevano morire di stenti i loro figli per pagare le tasse e i balzelli, e offrivano i primigeniti per il sacrificio supremo dei giochi, era solo ed esclusivamente per questa paura.

Teseo era in piedi, e non chinava il capo, sulla soglia della dimora del dio, e non era neppure a mani vuote. Aveva sentito quel peso inatteso, nel cilindro che conteneva il papiro, quando Arianna glielo aveva dato in dono. Ora, quando le sue dita ansiose ruppero il sigillo e strapparono il papiro, esse trovarono una cosa che conoscevano bene… l’elsa levigata della Stella Cadente!

La spada d’acciaio gli era stata presa dagli etruschi che lo avevano catturato all’inizio, quando lui stesso aveva cercato la cattura, nelle misere strade di Ekoros. Non si era aspettato di poterla di nuovo stringere in pugno. La mosse, fendendo l’aria densa e immobile con la sua lama, e mormorò un ringraziamento ad Arianna.

Stringendo la spada, cominciò a discendere i gradini scivolosi, sui quali era cresciuto il muschio.

«Ebbene, Stella Cadente,» mormorò, «se il nostro destino è di marcire e arrugginire qui, almeno prima cerchiamo l’Oscuro… per scoprire se la tua lama lucente può penetrare la sostanza della quale sono fatti gli dei di Creta!»

Con le mani, tastò le pareti, che erano coperte di muschio. La discesa era ripida, e i gradini erano molto stretti. Scese lentamente, contando i gradini, e saggiando prima il terreno, per evitare di mettere un piede in fallo.

Dopo sessanta gradini, c’era un piccolo pianerottolo di pietra, quadrato, e una svolta nel passaggio; dopo altri sessanta gradini, un altro. Sul terzo pianerottolo i suoi piedi calpestarono qualcosa di friabile, e allungando le mani, capì che si trattava di due scheletri decrepiti.

Pensò che lo scheletro dalle ossa più sottili doveva essere stato quello di una donna. Le ossa erano mescolate, come se i loro proprietari fossero periti in un ultimo lungo abbraccio. Strano, ma il cranio dell’uomo, e alcune delle ossa più grandi, mancavano.

Teseo lasciò quei miseri resti, e scese, domandandosi cosa avrebbe trovato sul quarto pianerottolo. Contò di nuovo cinquantotto gradini. Ma, dove c’era stato il cinquantanovesimo, ora c’era… il nulla.

Muovendosi con troppa sicurezza, per poco non perse l’equilibrio. Si riprese, e indietreggiò di uno scalino. Sentì una debole corrente di aria fetida, che saliva da quella breccia invisibile. Debolmente, udì un mormorio di acqua corrente, molto, molto in basso.

Tentò di gridare, di esplorare lo spazio davanti a lui servendosi dell’eco della propria voce. Il suo primo sforzo produsse solo un debole suono gracchiante. Risolutamente, abbandonò la mostruosa paura che la presenza invisibile dell’Oscuro gli incuteva, e gridò, raucamente:

«Salve, Oscuro!»


Per un lungo periodo non si udì alcuna eco, come se la voce di Teseo fosse stata assorbita da chissà quale cortina. Finalmente, però, l’eco del suo grido ritornò, amplificato e distorto, da una distanza infinita. Capì che davanti a lui c’era una caverna, vasta e profonda.

Tenendo cautamente la mano, esplorò le pareti, fin dove poté arrivare. La pietra levigata si stendeva in ogni direzione. Non riuscì a trovare alcun appiglio per salire o spostarsi, lateralmente, e anche la punta della sua spada non riuscì a scoprire alcun punto d’appoggio, davanti e sotto di lui.

Allora capì perché i due sconosciuti, l’uomo e la donna, avevano preferito morire sul pianerottolo. Sospettò anche il motivo per cui una parte delle loro ossa era sparita… e capì che lui non era stato il primo a seguirli.

Le loro ossa, pensò, avrebbero potuto essere utili anche a lui.

Ritornando sul pianerottolo, raccolse il cranio della donna, e una manciata di altre ossa. Contò di nuovo i gradini coperti di muschio, e ritornò sul penultimo prima del nulla, e lasciò cadere dall’orlo una delle ossa dell’uomo.

Non colpì nessuna sporgenza sulla quale lui avrebbe osato saltare. Per molto tempo, dall’abisso non giunse alcun suono. Poi ci fu un rumore lontano e debole, di un oggetto che colpiva l’acqua, che rimbalzò contro le pareti invisibili.

Pazientemente, lasciò cadere delle altre ossa, da altri punti del gradino, e poi cominciò a lanciarle in direzioni diverse. Caddero tutte molto in basso, come la prima, e si udirono i deboli rumori provenienti dal fondo. Alla fine, lanciò il cranio della donna.

Il cranio urtò qualcosa, davanti a lui, praticamente allo stesso livello del gradino sul quale si trovava. Rotolò, con un rumore cupo, e poi il rumore cessò, e, alla fine, si udì un altro debole tonfo, in basso.

Diverse altre ossa colpirono quella superficie diseguale, e alcune vi rimasero. Neppure tendendo la punta della spada il più lontano possibile Teseo riuscì a toccare qualcosa. Ma, alla fine, quando le sue orecchie e le ossa non poterono dirgli più di quanto già gli avevano detto, lui tese i muscoli, agitò le braccia e saltò a pie’ pari.

Per un istante, pensò che avrebbe mancato il bersaglio, sia pure di poco, e fu improvvisamente consapevole del nero abisso profondo che si spalancava sotto di lui. Poi urtò una lingua di roccia diseguale, e scivolò, e riuscì a fermarsi in tempo.

Strisciando sulle mani e sulle ginocchia ferite, Teseo esplorò la lingua di roccia sulla quale era caduto. Era sottile, e si sporgeva verso il fondo di quella scala mozza e tenebrosa.

La strada, nella dimora dell’Oscuro, era evidentemente cosparsa di pericoli. Quasi tutti coloro che erano stati gettati nel Labirinto dovevano essere morti nell’abisso che aveva appena superato.

La giustizia dell’Oscuro era dunque soltanto… la morte?

Immobile su quella stretta lingua di pietra, in attesa di riprendere fiato, Teseo cercò di ricordare tutto quello che sapeva dell’Oscuro. La divinità era a volte rappresentata, ricordava, come una gigantesca cosa mostruosa, metà toro e metà uomo. Per un momento rabbrividì di terrore, pensando a un’entità così mostruosa. Ma strinse con forza la Stella Cadente, che lo aveva accompagnato nel balzo.

«Noi abbiamo ucciso dei tori,» mormorò alla sua spada, «e degli uomini! Perché, allora, non possiamo uccidere anche l’Oscuro?»

Si alzò in piedi, e cominciò a percorrere la lingua di roccia, battendo il terreno davanti a sé con la punta della spada, come un cieco col suo bastone. Lame di roccia gli ferirono i piedi, e il suo corpo nudo tremò, per la tremenda umidità e il gelo che regnava in quel regno della desolazione.

La lingua di roccia lo portò davanti a una parete nuda e diseguale. Non c’erano altre strade da seguire, né a destra né a sinistra, e pensò che quella lingua di roccia forse lo aveva condotto soltanto alla morte.

Ma lui era vivo, e la speranza non voleva morire dentro di lui. Dopo qualche tempo, le sue dita incontrarono una fessura nella roccia, e cominciò a salire, tenendo la Stella Cadente tra i denti. L’ascesa era difficile. La fatica disumana. Capì di essere vicino ai limiti delle sue forze, quando arrivò a una specie di tettoia, che sporgeva al di sopra del suo capo.

Non c’era alcun passaggio verso l’alto.

Capì che non avrebbe avuto la forza di ridiscendere fino alla lingua di roccia… non che ci fossero molti motivi, per ritornare. Tra un po’, pensò, le sue dita indolenzite e sanguinanti avrebbero lasciato la presa, e lui sarebbe scivolato lungo quella fessura nella parete di roccia. Ci sarebbe stato un altro tonfo, in basso, nel buio.

Si tenne aggrappato alla roccia, però, e un soffio di aria stantia, che il sole non aveva mai scaldato, gli sfiorò il viso, come l’ala di un fantasma. Si spostò lateralmente, e la corrente divenne più forte. Le sue mani raggiunsero l’orlo di uno stretto passaggio, e, faticosamente, lui si issò fin là, ed entrò in un luogo dove c’era spazio a sufficienza per riposare.

Giacque laggiù per molto tempo, respirando stancamente, massaggiandosi i muscoli indolenziti. Alla fine tentò di alzarsi, e batté il capo, duramente, contro la punta di un’aguzza stalattite, e allora strisciò, faticosamente, sulle mani e sulle ginocchia, per esplorare la nuova caverna nella quale si trovava.

Seguì una galleria tortuosa, scavata dalle infiltrazioni d’acqua, nel corso dei secoli, e dopo qualche tempo la volta si alzò, finché lui non fu in grado di camminare eretto, battendo il terreno davanti a sé con la punta della spada. C’erano delle sottili fessure che doveva evitare, o improvvisi ostacoli da scalare, o crepacci che doveva saltare, freddi specchi d’acqua stagnante che fu costretto ad attraversare a nuoto.

L’acqua e la pietra, insieme, avevano dato vita a strane formazioni. Una, che le sue mani sanguinanti esplorarono lentamente, aveva una forma che ricordava stranamente un’immensa testa di toro. Un macigno sporgente formava la testa vera e propria, e due stalagmiti curve erano le corna. La massa rocciosa, in basso, suggeriva l’idea di un gigantesco corpo umano.

Quell’incredibile simbolo naturale dell’Oscuro si trovava in un’ampia cavità, che si apriva in una lunga, interminabile galleria. Teseo lanciò avanti un frammento di pietra. Esso rimbalzò con rumore cupo in un abisso invisibile, e l’eco lo riportò, stranamente ingigantito… il rumore pareva un muggito, il terribile muggito di un toro mostruoso.

La caverna era un tempio naturale. Se veramente, pensò Teseo, lui era destinato a incontrare l’Oscuro, avrebbe dovuto incontrarlo laggiù. Tremava, in preda a un inesplicabile terrore soprannaturale. Ma nulla di tangibile lo affrontò.

Alla fine trovò un varco, e proseguì.


Per un tempo interminabile, Teseo vagò per interminabili passaggi. Superò delle fessure che gli strapparono lembi di pelle viva. Scavalcò con balzi poderosi degli invisibili crepacci. Per molto tempo ebbe fame, poi la fame passò, lasciando solo uno stordimento che gli annebbiava i sensi. Quando si addormentò, si ritrovò, al risveglio, rigido e tremante. La sete lo torturava, così bevve l’acqua amara di una pozza che gli sbarrò la strada.

Andò sempre avanti.

Poi colpì col piede un sasso, sull’orlo di un precipizio, e il sasso rotolò in basso, e l’eco riportò il suono di un feroce ruggito. Trovò una strana familiarità nei contorni della roccia, sotto i suoi piedi. E le sue dita protese trovarono la strana roccia dalle forme umane, che aveva la testa e le corna di un toro colossale.

Col cuore stretto da una gelida morsa, tremando per un terrore insopprimibile, capì allora che tutto il suo cammino gli aveva fatto percorrere un circolo vizioso, e che adesso era ritornato davanti a quel tempio oscuro, che era più antico della stirpe dell’uomo.

Era stato l’Oscuro a guidarlo?

Un cuore forte e la Stella Cadente potevano prevalere contro il legno, il bronzo, e perfino contro la magia… ma non contro quell’ombra senza nome, senza forma e senza nome, contro quella forza che vagava in quell’oscurità senza fine.

Teseo, disperato, stava pensando a questo, quando una voce spaventosa gli parlò. Rimbalzò contro pareti invisibili, ingigantita fino a parere il muggito di un toro colossale, ma le parole che pronunciava erano comprensibili: «Benvenuto, mortale, nella mia tana immortale! Ti ho aspettato a lungo. Perché la mia fame è divoratrice, e ardo di sete del sangue di un uomo!»

Teseo rimase immobile, paralizzato. Quella voce soprannaturale aveva un’incredibile familiarità. Qualcosa si muoveva, nel buio. Si avvicinò, prima che lui potesse collegare quella voce a qualcosa di conosciuto. Avanzò verso di lui, come una furia.

In un cieco, istintivo tentativo di difesa, il braccio inerte di Teseo sollevò la Stella Cadente. La lama batté contro qualcosa di duro. Una cosa levigata, rotonda e puntuta passò accanto alla spada e al braccio, e lo colpì al fianco.

Pareva un enorme corno di toro.

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