Jake Rezner non aveva mai avuto un orologio, ma questo raramente lo preoccupava e non intendeva certo preoccuparsene adesso. Osservando con occhi socchiusi il riverbero dei primi raggi del sole mattutino, oltre una collina a oriente, si disse che anche quel giorno il sole gli avrebbe indicato l’ora in modo soddisfacente. Al massimo sarebbe tornato al campo troppo tardi per la cena: nulla di grave per lui. No, l’unica cosa a cui doveva stare attento era di non farsi sorprendere dal buio, in modo da poter seguire agevolmente i sentieri del canyon. Trascorrere la notte fuori, o comunque rientrare tanto tardi da spingere i suoi superiori a organizzare una spedizione di soccorso, significava con tutta probabilità dover rispondere a un sacco di domande su dove fosse stato.
Per Jake i sette giorni trascorsi dall’ultima domenica erano stati un vero tormento, come in prigione o come se vi fosse qualcosa di sbagliato in tutti gli orologi del campo e nel calendario appeso quella settimana, come tutte le settimane, a uno dei montanti della tenda in cui si svolgevano le riunioni di servizio.
In ogni caso, finalmente la sospirata domenica era giunta. Consumata in un batter d’occhio la frugale colazione, il giovane prese una borraccia avviandosi verso il torrente per riempirla. Acquattato sul bordo roccioso del ruscello, immerse in acqua la mano destra con il capace recipiente, generando una tale colonna di bolle d’aria da far pensare, a un ignaro osservatore, che stesse affogando un piccolo animale. La borraccia faceva parte di una generosa donazione di equipaggiamento militare, come del resto i suoi pantaloni kaki, i robusti stivali, il cappello da lavoro a falda larga e tondeggiante: tutto donato dai militari per aiutare il Ccc, il Corpo Civile di Conservazione, in quei difficili anni di depressione economica.
Il sole di quel mattino d’inizio giugno, caldo ma non bruciante, come sarebbe stato in poche ore, riluceva sulle acque cristalline del torrente, disegnando delicati arabeschi laddove l’acqua non veniva rotta da veloci turbolenze e mutata d’incanto in candida e fresca spuma. Il riflesso del sole sulle acque suggeriva una serie d’immagini in movimento: era il tipo di situazione che in una pigra domenica mattina avrebbe ispirato a Jake l’idea di sedere per un po’ dove si trovava senza pensare, a niente, proprio a niente. Ma non quella domenica. Qualsiasi cosa avesse deciso di fare, quello non sarebbe stato un giorno come gli altri. Non per lui.
Le brevi rapide che si susseguivano a monte e a valle della sua posizione generavano una serie infinita di ingannevoli rumori che gli ricordarono il mormorio di molte diverse voci. Al campo si poteva udire quel mormorio giorno e notte, ma nei giorni di lavoro trascorsi su questo o quel sentiero risultava percettibile solo a volte. Da quando era migrato a ovest per arruolarsi nel Corpo, Jake aveva scoperto che non poteva fermarsi a lungo ad ascoltare le voci di un torrente prima che queste si mutassero in parole. In quel momento le rapide a monte suonavano più forti di quelle a valle, e questo pareva quantomai naturale perché l’acqua a monte scendeva ruzzolando giù per tutta la strada dalla sorgente sul margine settentrionale, un miglio più in alto e forse dieci miglia in linea retta da quel punto. A valle invece, a non più di cinquanta metri alla sua posizione, il torrente, chiamato Bright Angel, confluiva con un’ultima serie di balzi nel grande, veloce e silente fiume Colorado proprio in fondo all’immenso Grand Canyon.
Tutte le rapide del ruscello continuarono a urlare a Jake le loro frasi immaginarie; sembravano molte persone che discutessero tra loro in qualche lingua straniera. Ma una di quelle strane parole suonò immediatamente conosciuta alle orecchie del giovane uomo: un nome di donna, il nome di una ragazza incontrata appena due settimane prima.
L’ultima bolla d’aria salì rapidamente in superficie dalla borraccia sommersa e Jake Rezner si rialzò avvitando il tappo metallico sul contenitore. Con i suoi ventidue anni, Jake era un giovane robusto e ben proporzionato, alto più di un metro e ottanta. I suoi capelli neri, portati corti da quando si era arruolato nel Corpo, mantenevano una spiccata tendenza ad arricciarsi. I suoi occhi chiari, quasi verdi, avevano qualcosa che sconcertava la maggior parte della gente; ben pochi tuttavia riuscivano a spiegare esattamente il perché. La mobilità della sua bocca sembrava collegata in qualche modo alla strana luce nei suoi occhi, come se nascessero entrambe dallo stesso tipo di energia.
Dopo aver assicurato la borraccia alla cintura militare, Jake tornò al campo riattraversando il torrente su uno stretto ponticello ai piedi del sentiero Kaibab. Salendo pigramente il ripido cammino, entrò dopo qualche minuto in quello che tutti consideravano il luogo d’incontro del campo Np 3-A del Ccc. Si trattava essenzialmente di due file di tende color kaki, venticinque in tutto, poste a qualche distanza una di fronte all’altra. Ognuna alloggiava quattro volontari. Col giungere del caldo torrido, ogni tenda aveva almeno un paio di teli sollevati per far circolare l’aria. Le tende degli ufficiali e quelle dove si svolgevano le riunioni di servizio sorgevano tutte a nordest, a monte delle altre. Le latrine, il magazzino, la cucina e il recinto dei muli erano sparsi a valle lungo il torrente. Quel giorno il recinto sarebbe rimasto con tutta probabilità vuoto: la domenica non veniva mai nessuno. Per contro, la settimana lavorativa vedeva un buon numero di arrivi e partenze perché qualsiasi cosa, tranne l’acqua, doveva venir portata a dorso di mulo dall’altopiano.
Il tipico baccano di un giorno festivo avvolse Jake. Risate, imprecazioni e discussioni coprivano solo in parte l’onnipresente voce dell’unica radio. Il cappellano militare non era sceso quella volta a officiare il Servizio della domenica: accadeva quasi sempre, perché dopotutto si trattava di farsi sette miglia a dorso di mulo sugli scomodi e stretti sentieri che si snodavano serpeggiando dall’altopiano, e qualcuna in più dalle prime quattro case che pretendevano di chiamarsi paese solo perché vi arrivava la strada.
Appena sotto il campo Np 3-A, su una spianata relativamente ampia e sgombra dove il torrente si gettava nel fiume, alcuni suoi colleghi stavano per improvvisare una partita di softball nonostante il caldo crescente. Per la maggior parte delle nuove e giovani reclute quello era un giorno in cui giocare a palla o a carte, scrivere lettere o semplicemente dormire. E forse qualcuno avrebbe tirato fuori una buona bottiglia gelosamente conservata per tutta la settimana. In genere, quando questo accadeva, gli ufficiali guardavano altrove, posto naturalmente che il giorno dopo i loro sottoposti non si facessero trovare troppo ubriachi per segnare i sentieri o per spaccare le pietre.
Con la borraccia piena assicurata fermamente alla cintura, Jake si avvicinò alla tenda sita più o meno a metà della fila e vi infilò la testa. Tre delle quattro cuccette militari erano vuote. Joe Spicci, piccolo e nodoso, alzò lo sguardo dalla quarta cuccetta dove stava leggendo con la massima attenzione un giornale sportivo della precedente domenica.
— Vado a fare un giro — annunciò Jake con qualche riluttanza. Purtroppo era meglio avvertire qualcuno che non sarebbe rientrato fino a tardi. Non voleva che si preoccupassero se non si fosse fatto vedere per la cena.
— Ah sì? E dove? — rispose Spicci, con aria interessata.
— Oh, solo una passeggiata — fu la secca replica. In quella passeggiata non voleva compagnia. — Ci vediamo a cena… o forse più tardi.
— Va bene. Tanto oggi farà troppo caldo per muoversi. Buon divertimento. — E Spicci si tuffò nuovamente nelle pagine aperte del suo giornale sportivo.
Non dovette percorrere neppure cento passi prima di lasciarsi dietro anche le ultime voci del campo. Pochi passi ancora e anche le tende sarebbero sparite dalla vista. Là in fondo alla gola il terreno mostrava solo nuda roccia, un vero deserto, ma le cose miglioravano un po’ una volta oltrepassata la grande balza sotto cui sorgevano le tende. Quell’improvvisa alzata sovrastava uomini e oggetti giorno e notte, maestosa e immobile come uno spirito benevolo avvolto in un lenzuolo; tuttavia non era altro che una modesta ondulazione del terreno a confronto delle gigantesche balze soprastanti che celavano alla vista le colorate e fantastiche stratificazioni rocciose delle pareti del canyon. Dopo quattro mesi in un campo di lavoro proprio in fondo al Grand Canyon, Jake poteva dire di conoscere un poco i dintorni, pur rifiutando di abituarvisi: impossibile considerare normale un posto come quello se uno aveva un po’ di fantasia.
Ma quel giorno prestava poca attenzione anche al panorama. I suoi pensieri andavano ad altro. Se qualcuno giù al campo avesse saputo… ma nessuno sospettava nulla, ne era certo. Non potevano. Perché lui si era ben guardato dal parlarne.
La sua destinazione segreta si trovava a valle, lungo la sponda meridionale del fiume. Per raggiungerla doveva attraversare il ponte sospeso a pochi minuti dal campo. Si trattava di un ponte un po’ più lungo di un campo da football, abbastanza largo da consentire il passaggio di un mulo carico: un ponte prezioso, dato che era il solo mezzo per attraversare il Colorado per più di cento miglia a monte e a valle.
Le assi del ponte vibrarono cupamente quando Jake passò. Sotto, il fiume scorreva placido e profondo. Dopo il ponte il sentiero Kaibab confluiva nel canale scavato per il fiume, un canale ancora da completare. Aveva lavorato anche lui su quel tratto, lavorato duro per aiutare gli esperti a sistemare cariche qua e là oltre a spaccarsi la schiena scavando e sgombrando rocce e detriti con gli altri.
Anche se l’acqua rappresentava una necessità vitale in quel luogo torrido, Jake aveva evitato di chiedere in prestito una seconda borraccia. Se l’acqua fosse finita, ci sarebbe stato sempre il fiume. Ma per diverse miglia di sponda deserta il fiume scorreva incassato tra rocce taglienti e pericolosamente ripide, troppo sotto per potervi bere o anche solo raccogliere un po’ d’acqua con le mani. Cadervi significava dover sudare sette camicie per trovare un punto da cui risalire, e più avanti vi erano delle rapide piene di scogli a pelo d’acqua. Ma tutto questo faceva parte di quell’ambiente tanto impervio quanto affascinante.
Aveva percorso appena un centinaio di metri lungo il fiume, quando si fermò a una curva della pista. Con un lungo sospiro guardò cautamente verso il ponte sospeso per accertarsi che nessuno stesse attraversandolo. Non aveva alcun motivo di pensare che qualcuno fosse curioso di sapere dove andasse e cercasse pertanto di seguirlo, ma non si poteva mai sapere.
Ma ora ne era certo. Nessuno lo seguiva.
Accelerando il passo, Jake riprese il suo cammino.
Una volta tanto riuscì a provare una totale indifferenza verso la maestosa opera che lo circondava. Nella sua mente trovavano spazio solo le domande che lo tormentavano da una settimana. Per due domeniche di fila l’aveva trovata là: se solo ve l’avesse trovata ancora! E se ci fosse stata, forse stavolta sarebbe riuscito a convincerla.
Una volta terminato il percorso lungo il canale, la pista del fiume era più che altro questione di arrampicarsi e sudare cercando di non perdersi in quel terreno uniforme e riarso. Prima, in quel punto, non esisteva neppure un sentiero di capre, ma Jake vi era stato ormai abbastanza volte da aver tracciato una sorta di percorso tra le rocce.
Un’ora e mezzo dopo aver lasciato il campo si trovava parecchie miglia a valle e marciava speditamente nonostante il gran caldo e il sole a picco. In quel punto, il Colorado scorreva in una vera e propria forra profonda circa trecento metri e tanto stretta da nascondere alla vista le grandiose e immutabili pareti soprastanti e i lontani, frastagliati margini. Di quando in quando un canyon secondario confluiva nel principale da un lato o dall’altro del fiume. Molti di essi avevano anche un nome: tra gli altri c’erano lo Zoroaster canyon, il Bright Angel canyon e il Travertine canyon. I loro torrenti erano quasi sempre asciutti, ma in primavera quelli sul lato nord ribollivano di acque spumeggianti per il disgelo in corso sull’altopiano mentre, almeno stando ai ranger, le piogge estive li avrebbero fatti rivivere tutti per qualche settimana. Talvolta il corso di quei tributari era coperto di alberi e cespugli, indicando che l’acqua vi scorreva tutto l’anno alimentata da qualche sorgente.
Il passo di Jake e il suo battito cardiaco crebbero d’intensità quando giunse al familiare imbocco del piccolo canyon che cercava. Se aveva un nome, lui non lo conosceva. Era un canyon fresco e invitante in confronto alle scure, spente e perennemente ombreggiate rocce circostanti. Oltre la stretta apertura, il canyon (in quel punto poco più di un crepaccio con le pareti coperte da un’ombrosa vegetazione) saliva sinuoso verso il solenne profilo meridionale. Il torrente che lo aveva formato era solo un rigagnolo alto fino alle caviglie, ma l’acqua vi scorreva tutto l’anno gelida quanto le acque del Colorado stesso. E proprio il letto del torrente, che si apriva tra due colonne di pietra in cui la fantasia di Jake vedeva sempre due mostri intagliati, rappresentava il solo accesso alla parte più interna del crepaccio.
Ma dopo una decina di metri il cammino si faceva più facile per la presenza di un piccolo sentiero che correva parallelo al torrente. Da quel punto in poi non si faceva altro che salire, saltando spesso da un gigantesco masso a un altro disposti a mo’ di scala per qualche strana coincidenza. I suoi stivali restarono fradici per un po’, per poi asciugarsi all’aria secca e al sole cocente.
Mezz’ora dopo essere entrato nel canyon laterale, Jake stava arrampicandosi su per l’ultima di una lunga serie di balze. Davanti a lui si aprì un tratto di terreno verde e quasi pianeggiante, che percorse di fretta all’ombra dei salici e dei pioppi che vi crescevano. Qui la stretta gola si allargava un poco su entrambi i lati poiché aveva raggiunto uno strato roccioso più recente e più tenero chiamato, come aveva imparato al campo, strato di arenaria. E all’improvviso la sua marcia si arrestò, mentre dalla sua bocca usciva un profondo sospiro di sollievo. A meno di cinquanta metri di distanza vide e riconobbe una figura umana, la figura di una giovane donna che indossava un paio di jeans e una camicia. Camilla era là, quasi nel punto dove aveva immaginato di trovarla, intenta ad aspettarlo.
Quel giorno si era appollaiata su una comoda gobba di arenaria nella profonda ombra di una rupe, non lontano dal punto in cui il torrente precipitava in una serie di piccole cascate formate da diverse lingue di roccia. Anche a quella distanza Jake poté notare il sorprendente pallore della sua pelle. Ne avevano parlato la precedente domenica, e lei gli aveva spiegato che non poteva prendere il sole perché la sua pelle era tanto delicata da scottarsi in pochi minuti.
I lunghi e ondulati capelli rossi di Camilla si agitavano adorabili alla brezza che scendeva dalle pareti laterali del canyon. Nonostante sedesse all’ombra, nascondeva gli occhi dietro un paio di occhiali da sole. All’improvviso lei alzò una mano nascondendoli ancora di più, volgendo la testa verso di lui come se l’avesse sentito avvicinarsi nonostante la distanza e il fragore delle rapide.
Proprio come le ultime due domeniche (possibile che si conoscessero solo da due settimane?), lei sedeva dietro il suo cavalletto. Pennelli, fogli e barattoli di tempera erano sparsi sulle rocce circostanti.
Jake agitò un braccio per salutarla, venne a sua volta salutato e affrettò il passo per raggiungerla nonostante il sole bruciante. Camilla si alzò dal suo comodo sedile e mosse verso di lui fermandosi proprio al limite della zona d’ombra.
Nonostante gli occhiali scuri le nascondessero completamente gli occhi, Jake pensò di vedere qualcosa di strano nel modo in cui lei lo guardava. Ma forse era solo il modo in cui teneva la testa. Qualsiasi cosa fosse provocò in lui un attimo di ritrosia, di timidezza. Si fermò abbastanza vicino a lei da poter prendere tra le sue la piccola, candida mano che lei gli tese.
— Ciao — disse Jake, constatando con una qualche sorpresa che la sua voce suonava timida come non mai, come se fosse la prima volta che la incontrava. E pensare che la scorsa settimana si erano anche baciati… un singolo bacio gentile, giunto al momento di lasciarsi.
— Ciao, Jake — replicò Camilla con la voce calda e profonda che tanto lo aveva colpito per la sua incongruità, una voce simile in tutto e per tutto a quella di Mae West. Era più piccola di lui di una ventina di centimetri e… be’, aveva il corpo più bello che riuscisse a immaginare.
Con tono suadente, lei aggiunse: — Avevo una paura di non vederti arrivare…
— E invece eccomi qui. Io mantengo sempre le mie promesse. Piuttosto, avevo paura che tu non venissi.
— Anch’io mantengo le mie promesse — fu la replica, seguita da una breve pausa. Quegli occhiali scuri rendevano difficile capire a cosa pensasse. — Allora? — fece lei. — Non sei contento al punto di baciarmi?
C’era qualcosa di diverso in lei quella volta, come se avesse preso un’importante decisione dopo una lunga incertezza. Il bacio fu proprio come Jake aveva fantasticato, sperato, pregato per tutta quella lunga settimana. Dieci secondi dopo, la mano di Jake si mosse in cerca del suo seno.
Lei lo lasciò fare fino a fargli capire che sotto quella camicetta non c’erano indumenti, ma solo pelle e calore. Poi il bacio s’interruppe e lei lo allontanò bruscamente. La reazione non fu affatto rabbiosa, ma solo ferma e inappellabile.
— No, Jake, no.
Jake tirò un lungo sospiro e si guardò intorno. Si mosse tanto da compiere un giro completo con la testa. Aveva l’improvvisa sensazione che ogni animale, ogni pianta e ogni roccia del canyon stessero spiandoli.
Infine il suo sguardo tornò a Camilla. — E perché no? — chiese, con un tono rude del tutto involontario.
Lei scosse il capo, muovendo qua e là i suoi lunghi capelli rossi.
— È troppo presto.
— E allora quando?
— Forse quando ti conoscerò meglio — replicò Camilla — E tu non vuoi saperne di più su di me? Non conosci neppure il mio nome per intero.
— Non importano i nomi. Camilla va benissimo, ma se vuoi dimmi pure il tuo nome per intero.
Lei restò silenziosa. Arrabbiata, forse, ma non con lui. E sempre in pieno controllo di se stessa, di lui, della situazione. — Hai ragione, i nomi non importano. Jake, quello che voglio dire è che prima devo decidere se fidarmi di te. Fidarmi fino in fondo, ecco.
— Fidarti fino in fondo? Cosa significa?
— Debbo sapere se posso contare su di te. Sei disposto a correre qualche rischio per avermi? È importante per me.
Jake cercò di pensare, ma l’unica conclusione a cui poté arrivare sul momento era che si trattava dell’allusione a un matrimonio più strana e tortuosa che avesse mai sentito. Non sembrava, in effetti, ma di che altro poteva trattarsi? Per cui decise semplicemente di tacere, cercando di indovinare senza molto successo l’espressione di lei sotto gli occhiali scuri.
Infine disse, incerto un po’ su tutto: — Ti ho già parlato di me e della mia situazione. Se avessi un lavoro vero o dei soldi non sarei certo qui a sgobbare!
— Lo so. Capisco benissimo cosa intendi. Anch’io non sarei qui se avessi avuto dei soldi un anno e mezzo fa — rispose lei fermandosi a pensare alla sua situazione, ancora misteriosa per Jake. — Non è questo che intendo, non ti sto chiedendo se hai dei soldi.
— E cosa, allora?
— Quello che voglio sapere, Jake, è se sei disposto ad aiutarmi. Se ti chiedessi di fare qualcosa di rischioso lo faresti? Non dire subito di sì. Pensaci bene e con calma.
Lui non ci pensò più di tanto. — Se posso lo farò. E comunque mi romperei l’osso del collo piuttosto che mollare.
Camilla parve rimuginare in silenzio su tutta una serie di possibili obiezioni.
— Va bene — disse infine. Era come se parlasse a se stessa, anche se gli occhiali scuri erano rivolti verso di lui. — Oh, Jake — sussurrò, cominciando a sbottonarsi lentamente la camicia.
Venti minuti più tardi, sdraiato nudo, accanto a quella donna che conosceva appena, su un banco di soffice sabbia all’ombra della parete occidentale del canyon, Jake disse pigramente: — Proprio non capisco, ecco tutto. Perché una ragazza come te, bella e intelligente, vuole legarsi a uno come me?
I loro vestiti erano sparpagliati tutt’intorno. Insieme al resto, Camilla si era tolta anche gli occhiali scuri rivelando due splendidi occhi verdi, ma ora il suo braccio si tese alla ricerca di quello che evidentemente era per lei il più importante degli indumenti.
Da dietro gli occhiali lei lo guardò con una strana espressione, poi disse: — Cosa c’è che non va in te? A me sembri perfetto. Ti ho spiegato ciò che volevo e tu hai risposto di sì, ecco tutto.
Jake la carezzò con mano vagamente possessiva, lasciandola correre tra le costole e giù sulle natiche. Era di gran lunga la donna più bella e sensuale tra quelle che aveva convinto a fare l’amore con lui.
Tuttavia replicò: — Non mi hai spiegato nulla, finora. Adesso è arrivato il momento di farlo.
All’improvviso lei divenne teneramente incerta. — Oh, Jake. Non so neppure da dove posso cominciare.
— Che ne dici di cominciare a dirmi dove abiti? La scorsa settimana non hai voluto farlo.
Camilla esitò, poi indicò con la mano un punto delle alte pareti rocciose. — In questo periodo vivo qui, in questo canyon… un po’ più sopra.
Jake si appoggiò a un gomito, socchiudendo gli occhi per veder bene nella forte luce solare. Nessun segno di abitazioni. — Vuoi dire sull’altopiano?
— No, non così lontano. Pochi minuti di cammino lungo questo canyon, forse un mezzo miglio.
— Accidenti! Ma l’altopiano è molto lontano da qui e io non ho mai sentito di gente che vive nel canyon… tranne noi, poveri pezzenti giù al campo. E vivi con i tuoi genitori?
Questo strappò un sorriso a Camilla. — Oh, no! Da dove ti viene questa idea?
— Un sacco di ragazze vivono con i loro genitori. Ehi, non sarai sposata, spero.
— No.
In qualche modo rassicurato, Jake pensò pigramente a cos’altro chiedere mentre stendeva la grande mano callosa e bruciata dal sole verso Camilla. Stavolta la toccò solo con l’indice, lasciandolo scorrere lungo quel candido, morbido, meraviglioso ventre che subito si contrasse per il solletico. Era così liscio!
— Hai una sigaretta? — chiese lei con improvviso, entusiasta desiderio.
— La povertà mi ha fatto perdere il vizio.
Quello che la tormentava non le consentì di perdersi a lungo dietro una sigaretta. Presto Jake dovette rispondere a una nuova domanda.
— Se fossi stata sposata non mi avresti più aiutata? Non che lo sia, ma vorrei saperlo.
— Ti avrei aiutata comunque. Ma certo, cosa credi?
Camilla accolse questa risposta con un lungo silenzio lasciandosi solleticare il ventre.
— Insomma, non sei sposata. Allora vivi sola.
Camilla tirò un lungo respiro.
— No, non esattamente.
Cominciavo a pensare qualcosa del genere, si disse Jake. Altrimenti la faccenda sarebbe stata troppo semplice. Intanto la sua mano destra si faceva sempre più ardita, visto che le veniva consentito di esplorare ogni piega del corpo di Camilla. Ogni piega. Fantastico.
Quando Camilla parlò nuovamente, sembrò in procinto di dire qualcosa di tanto importante da richiedere a Jake la sua piena attenzione. Di conseguenza, tese per prima cosa la mano bloccando le dita indiscrete di Jake in una stretta incredibilmente forte. Poi da dietro gli occhiali scuri gli chiese:
— Hai mai sentito parlare di un uomo chiamato Edgar Tyrrel?
— No, direi proprio di no. Perché?
— Oh, non esiste alcuna ragione particolare per cui tu debba conoscerlo. È uno scultore, un uomo che vive facendo statue.
— So benissimo cos’è uno scultore, grazie.
— Scusami. Devi sapere che Edgar è abbastanza conosciuto tra gli addetti ai lavori. Non è famosissimo, ma molta gente lo conosce.
— E va bene. Allora vivi con questo Edgar. Scommetto che gli fai da modella.
Camilla non aveva nulla da dire su questo punto. Alzò invece il braccio con una certa grazia, indicando qualche punto quasi in verticale su di loro. — Un tempo viveva là sopra, in una casa costruita proprio sul ciglio del canyon vicino a Canyon Village. Vi ha vissuto per trent’anni. E poi un giorno ha lasciato la sua casa e la sua famiglia ed è sparito. Questo accadde prima che io lo incontrassi. A me ha detto che un giorno è sceso nel canyon e non ha mai più avuto voglia di risalire.
Camilla tacque, osservando Jake. Difficile per lui esserne certo a causa degli occhiali scuri, ma aveva l’impressione che lei gli stesse chiedendo di capire… o più che altro di capirla. C’era qualcosa sotto, qualcosa che lei non voleva dire apertamente.
Ma lui voleva sentirla raccontare tutto, dirgli chiaramente che cosa voleva da lui. — E così questo tizio ha mollato tutto ed è sparito all’improvviso.
— Proprio così. Lui dice di essersi ritirato dalla società umana.
— E questo quando è successo?
— Non lo so esattamente — replicò Camilla, esitando. — Qualche mese prima che lo incontrassi, almeno a sentire lui.
— Si sarà anche ritirato dalla società umana, ma è rimasto abbastanza socievole da vivere con te.
— Oh, è colpa mia come al solito — spiegò lei con una breve, secca risata. Lasciò la mano di Jake e sedette bruscamente. — Non so come spiegarti. È una lunga storia. Vestiamoci adesso. Ti porterò a vedere il posto dove vivo. Forse dopo capirai più facilmente.
Fino a quel momento la storia non suonava così complicata alle orecchie di Jake, che replicò: — Preferirei continuare a vedere ciò che mi stai mostrando adesso! — Ma Camilla era già in piedi, intenta a ripulirsi dalla sabbia e a raccogliere i vestiti. Lui sospirò e si alzò a sua volta.
Si vestì lentamente, osservando Camilla mentre chiudeva il cavalletto e raccoglieva le sue cose sparse tutt’intorno. — Mi dai una mano? — gli chiese. La brezza del fondo del canyon stava rinfrescando e cercava in tutti i modi di portarle via qualcosa, anche se lei aveva prudentemente fermato i suoi schizzi con piccoli sassi neri.
— Certo — rispose lui, cominciando col prendere i fogli di carta che rischiavano di volare via e infilandoli sotto il braccio con tutta la delicatezza necessaria a non piegarli. E, pensandoci bene, la storia di Camilla doveva essere vera. Non era possibile che si portasse giù tutta quella roba ogni volta che voleva dipingere: c’erano quattordici miglia da lì alla cima.
Avevano ormai raccolto quasi tutte le cose di Camilla quando lei gli chiese, come colpita da un improvviso pensiero: — Non hai detto a nessuno che dovevamo incontrarci, vero?
— Diavolo, no. Prova a raccontare a quella banda di disperati che una bella ragazza si aggira solitaria qui tra i canyon e vedrai cosa succede! Credi forse che voglia portarmeli tutti dietro?
— No, naturalmente no… Jake, guarda che l’acqua del torrente è molto meglio — commentò lei vedendolo bere dalla sua borraccia.
Lui fece spallucce e continuò a bere. — Bene. La riempirò qui allora, prima di tornare indietro.
— Dio mio! Sai una cosa? Ti avevo preparato dei panini e me ne stavo completamente dimenticando!
Adesso era come se Camilla volesse in qualche modo rimandare il momento di portarlo a casa sua, come se stesse cercano scuse per tirare in lungo la faccenda. O forse si era pentita di averne parlato.
Jake si era completamente scordato di avere uno stomaco, ma alla parola “panini” venne preso da un’autentica fame da lupo. Se Camilla voleva rimandare a un’altra volta la visita a casa sua, per lui andava bene.
Ma forse, pensò, lo voleva sazio e soddisfatto prima di portarselo a casa. Da qualche borsa lei produsse una scatola metallica con dei fiori in rilievo, come quelle che le bambine si portavano a scuola per conservarvi le merende, l’aprì e ne estrasse dei panini avvolti con cura in carta cerata, frutta e un thermos pieno di limonata.
Il pane si rivelò fatto in casa, i panini ripieni di prosciutto e formaggio. Seduto su una roccia, Jake mangiò e bevve con ottimo appetito. Proprio una gran giornata, visto che si era praticamente rassegnato a saltare la cena. Ma passare un pomeriggio così con una ragazza come quella valeva bene qualche crampo allo stomaco.
— Tu non mangi? — le chiese con la bocca piena. — Tieni, ne vuoi uno? — aggiunse, porgendole un piccolo involucro di carta cerata.
Camilla scosse la testa. — Non ho fame.
Jake non insistette. Si chiese vagamente se per caso era a dieta, anche se con un corpo come quello non vedeva a cosa potesse mai servirle.
Poi le chiese: — E da quanto tempo vivi in questo posto misterioso nel canyon? — Per diplomazia, o almeno così si disse, omise di precisare: “Con quello scultore”.
Camilla fece per rispondere, ma lasciò perdere per domandare invece con apparente noncuranza: — Sei mai stato a Canyon Village?
Lui annuì. — Certo. La prima volta che sono venuto qui, quattro mesi fa, ci hanno portato fin là in un autobus da Flagstaff per poi farci fare marciando il resto della strada. Non hai mai visto il nostro campo, qualche ora a monte da qui all’inizio del sentiero Kaibab? — chiese, dando un altro morso al panino.
Camilla scosse la testa.
Jake continuò. — Te lo farò vedere qualche volta. In quattro mesi sono salito in paese solo un paio di volte, per i week-end. Devi andare a dorso di mulo su per il sentiero del Bright Angel, o altrimenti fartela a piedi: una faticaccia solo per raggiungere quelle quattro miserabili case. — Se ricordava bene, c’erano circa una mezza dozzina di case in vista, inclusa la stazione ferroviaria dove terminava la linea da Santa Fe. E naturalmente l’hotel, tutto di tronchi d’albero, e qualche altra struttura sparsa tra gli alberi. — Insomma, perché mi chiedi di quel buco sull’altopiano?
— Anch’io sono scesa da là. Con Edgar, dopo averlo conosciuto in un bar di Flagstaff — spiegò Camilla, guardandolo da dietro gli occhiali scuri come per sfidarlo a commentare. Lui tacque.
Lei continuò: — Una di quelle case sull’altopiano era la sua. Cambiava modella molto spesso, fino a quando un giorno ne sposò una. Devi spostarti un po’ a ovest dalla fine della pista del Bright Angel per vedere la casa dove vivevano, e facilmente puoi mancarla anche se la cerchi.
Continuava a parlare di quel fantomatico Edgar Tyrrell, si disse Jake, per rimandare il momento di spiegargli il suo problema e ciò che voleva fargli fare. Quella decisione le costava molto sforzo, molto di più della decisione presa togliendosi i vestiti.
Con tono stranamente malinconico, lei aggiunse: — Saranno mesi che non vedo più il villaggio!
Poi, scuotendo la testa come per scacciare quel pensiero, chiese a Jake: — Hai finito di mangiare?
— Certo — fu la pronta replica. Tutta la faccenda stava incuriosendolo sempre più.
Lui chiuse la scatola, spargendo in giro le croste e le briciole per gli uccelli e i coyote, e la porse a Camilla. Poi i due si avviarono lungo lo stretto sentiero che saliva a monte. Camilla andava avanti e Jake la seguiva, portando diverse cose.
Non avevano percorso neppure cento passi che lei si voltò verso Jake e gridò, con una voce che tradì qualche tensione: — Ma lo sai che di tempo ce n’è fin troppo, qui in fondo al Grand Canyon?
— Cosa? — rispose lui, sbattendo le palpebre e riparandosi gli occhi per guardarla controsole. — Troppo tempo? Vuoi dire che non hai niente da fare?
— No, non è quello che intendo. “Di tempo ce n’è fin troppo” è ciò che mi risponde Edgar quando gli chiedo di… di alcune cose strane che succedono qui. All’inizio non capivo cosa intendesse dire con queste parole, ma adesso riesco a trovarle sensate, almeno credo. Lui dice che il fiume ha aperto una ferita nella terra, e adesso il tempo che fu ne esce come sangue — spiegò, sorridendo nervosamente per l’espressione attonita che andava formandosi sul volto di Jake. — No, amore mio, non sono impazzita. Seguimi fino a casa e capirai cosa intendo.
— Okay. Ma non temere, non penso certo che tu sia pazza — replicò lui. L’idea lo aveva già sfiorato, invece, ma non al punto da preoccuparlo.
— Bene. Andiamo allora — disse Camilla, per poi voltarsi e riprendere la marcia lungo il sentiero a lato del torrente.
Camminando subito dietro di lei, Jake era tormentato dalla sensazione che le voci di quel torrente stessero disperatamente cercando di dirgli qualcosa. Tuttavia, con le natiche di Camilla che gli danzavano davanti gli riusciva difficile dedicare a quel pensiero la dovuta attenzione. Un vero peccato che i jeans che lei indossava non fossero ancora più attillati.
— Insomma — fece lui alzando la voce per farsi sentire nonostante il mormorio delle acque. — Come si vive con questo Edgar?
— Non più molto bene, credo. Non dormiamo insieme, lo sai? Non più. Lui… lui è strano.
— Lo immagino. E deve avere anche i suoi anni se prima ha vissuto su al villaggio per tanto tempo.
— Sì, è vecchio. Molto vecchio.
Continuarono a salire. Jake non riusciva a vedere il sole dal fondo della stretta gola, ma a giudicare dalle ombre proiettate sulla parete orientale mancavano ancora molte ore al tramonto.
Camilla intanto continuava la sua marcia su per quello che in effetti non era più un sentiero. Guardando a destra e a sinistra, Jake notò che le ripide e serpeggianti pareti di quel piccolo canyon laterale mostravano essenzialmente gli stessi strati rocciosi delle immense pareti del Grand Canyon. Era una cosa normale, o almeno così pensò. Lo strato più chiaro era calcare, mentre quello più scuro appena sotto era scisto cristallino. Negli ultimi due mesi aveva appreso qualche nozione di geologia a furia di ascoltare gli esperti giù al campo.
Ma subito la sua attenzione tornò a Camilla. — Tu e il vecchio Edgar vivete in un posto proprio isolato.
Per qualche ragione questo la fece voltare. Lo studiò per qualche istante da dietro gli occhiali scuri, per poi concordare con enfasi con quell’affermazione e aggiungervi qualcosa di suo: — Nessuno tra mille persone che scendessero il fiume potrebbe trovare questo canyon come hai fatto tu la prima volta.
— Be’, non è poi così difficile da trovare. Io non ho avuto problemi.
— Solo perché sei speciale, amore mio. Ma ti garantisco che è davvero difficile da trovare. — Per qualche ragione le tremò la voce. — Non lo troverebbe nessuno tra mille, anzi, tra un milione di persone. Quanta gente a piedi e in barca credi che sia passata qui davanti senza prestare la minima attenzione a quello che vi era oltre la foce del torrente?
Jake la guardò stupito, chiedendoselo davvero. — È facile: non molti. Probabilmente non passano cento persone da qui in dieci anni. Qui non c’è la folla di qualche parco cittadino, lo sai?
Camilla gli sorrise, come se volesse rassicurarlo o forse venir rassicurata. Poi la marcia riprese.
Jake la seguì, ormai completamente ipnotizzato dal movimento delle sue natiche.
Dopo un minuto o due di quella vista, Jake si appaiò a Camilla e le passò un braccio attorno alla vita.
Camilla si fermò, si girò e lo abbracciò con calore. Un attimo più tardi si stavano baciando, mentre la mano di Jake si inoltrava di nuovo sotto la sua camicia. Che cosa meravigliosa non trovare la minima resistenza!
Dopo sedettero nudi nell’acqua bassa e gelida del torrente per un rinfrescante idromassaggio, spruzzandosi a vicenda.
Jake disse: — È strano il modo in cui affermi che questo canyon è impossibile da trovare.
Camilla, che stava ridendo per qualcos’altro, smise di colpo. — Strano in che senso? — domandò. In quel momento erano all’ombra, e lei si era tolta gli occhiali scuri.
— Perché ieri l’ho cercato sulla mappa generale giù al campo, e non sono riuscito a trovarlo. Questo torrente non è il Pipe, vero? E non può essere neppure l’Horn, perché ci sono delle rapide sul Colorado più o meno allo sbocco dell’Horn. E tra questi due non è segnato alcun torrente permanente, eppure eccolo qui — constatò Jake indicando con un gesto l’acqua, le rocce, le alte pareti.
Camilla non sembrò affatto sorpresa da quell’affermazione, ma solo impensierita e malinconica. — Ci sono un sacco di cose che la tua mappa non mostra — fu la sua risposta.
Non appena si rivestirono la marcia riprese, mentre il canyon che li aveva inghiottiti volgeva ora a destra, ora a sinistra come un enorme serpente. E le svolte si facevano via via sempre più strette. Jake constatò che in nessun punto si vedeva oltre una cinquantina di metri.
Una volta Camilla si fermò e gli disse: — Edgar chiama questo posto il “Canyon Profondo”.
Dopo la svolta successiva il canyon si allargò all’improvviso, terminando in una sorta di anfiteatro naturale dalle alte pareti di roccia, largo e lungo quanto uno stadio di calcio. Sul terreno pianeggiante crescevano gli arbusti spinosi tipici dei canyon e qualche albero. Sul lato opposto dell’anfiteatro vide una cascata, da cui il torrente poi defluiva. Con estrema sorpresa Jake notò che qualcuno aveva abilmente costruito un’alta e stretta ruota metallica nella cataratta, come una sorta di turbina; ai piedi della cascata, una piccola costruzione in pietra bagnata dagli spruzzi alloggiava sicuramente un generatore. Fu facile capirlo perché dei cavi elettrici partivano dal retro della piccola costruzione per raggiungere un altro edificio fatto di tronchi d’albero lavorati con cura: un vero e proprio cottage.
Sul momento Jake non prestò molta attenzione a una larga apertura, una grotta o una caverna, posta ai piedi del dirupo più a occidente. Si trovava a livello di uno strato di roccia che conosceva: secondo il geologo giù al campo si era formato proprio sopra la Grande Discordanza, una definizione di cui non aveva mai capito il significato.
A prima vista l’apertura dava accesso a una cavità poco profonda; poi, guardando meglio, si rese conto che si addentrava di molto nella roccia.
In quel momento comunque preferì dedicare la sua attenzione alla piccola e graziosa casetta che sorgeva abbastanza alta sulla cascata da evitarne gli spruzzi. Niente a che vedere con la baracca di un minatore, poco ma sicuro. Non era una catapecchia, ma una vera casa con le fondamenta in pietra, i vetri alle finestre e un vero tetto di tegole.
Camilla era ferma in piedi accanto a lui, come per giudicare le sue reazioni.
Lui disse: — Così è qui che vivi.
— Sì.
— Con questo Edgar.
— Sì — rispose lei di nuovo, lanciandosi un’occhiata intorno e abbassando la voce. — Ma ora non voglio più vivere con lui.
— Lascialo.
Lei scosse la testa. — Non è tanto semplice, vedrai.
— Be’, non mi sembra che ti tenga rinchiusa.
Camilla non rispose.
Jake si guardò attentamente intorno. Tutto taceva, non si sentiva volare una mosca. — Dov’è lui?
— Sta riposando. Lavora soprattutto di notte. Si sceglie le rocce che più gli piacciono, le porta in laboratorio e comincia a scolpire.
— Dormire è la cosa migliore da fare con questo caldo.
Il sentiero che portava alla casa passava davanti alla bocca della caverna. Finalmente in grado di guardarla bene, Jake vide che si trattava di un vero budello che penetrava tanto profondamente nella roccia da impedirgli di vederne il fondo.
Camilla notò il suo interesse. — Vuoi entrare e dare un’occhiata? Possiamo. A Edgar non importa.
— E neppure a me — replicò lui, ma seguì Camilla quando lei vi entrò.
L’aria fresca della grotta fu la benvenuta. Una volta abituati gli occhi alla penombra, Jake poté esaminarne attentamente l’interno. Un filo di luce solare forava l’oscurità, riflessa dalle pareti di arenaria del lato opposto dell’anfiteatro.
— È il tramonto — disse Camilla. — È l’ora in cui lui…
Poi tacque bruscamente.
Ci volle un altro minuto prima che Jake si rendesse conto di una terza presenza. La figura di un uomo attendeva in piedi nella nera ombra delle regioni più interne della grotta. Stava là immobile, probabilmente guardandoli entrambi.
Jake fece del suo meglio per penetrare con lo sguardo quella zona di oscurità quasi totale. La figura indefinita era forse alta quanto lui, ma appariva storta e quasi deforme. Indossava pantaloni da lavoro, camicia e stivali di qualche tipo, e sembrava coperta fino ai capelli di polvere di roccia. Continuava a guardarli con un’immobilità quasi inumana: sembrava una statua.
Nelle dita nodose di una mano sicuramente potente, l’uomo stringeva un grosso grumo di roccia. Ancora un attimo di gelido silenzio e poi aprì le dita, lasciando cadere a terra il pesante carico. Una sorda eco si diffuse per tutta la caverna.
Un attimo più tardi quella stessa mano si tese alla ricerca di un grosso interruttore fissato alla rozza parete, e una batteria di luci elettriche illuminò l’ambiente. La mezza dozzina di lampade, montate su alti sostegni metallici un po’ in tutta la caverna, avevano una forma strana e molto, molto moderna. O forse più che moderna: in effetti Jake non aveva mai visto delle lampade così in vita sua.
Grazie alla loro luce la parte più interna della caverna, prima avvolta da tenebre impenetrabili, divenne visibile. Le lampade erano talvolta in alto e talvolta in basso, eliminando ogni zona d’ombra. E quelle lampade tanto strane rivelarono anche che il pavimento e le pareti della caverna erano butterate all’inverosimile, sfruttate probabilmente dallo scultore per ricavare i blocchi di roccia che gli servivano. Lungo un muro correva un lungo tavolo da lavoro molto rozzo, pieno di strumenti da scavatore e grumi di pallida arenaria. Le pareti, il soffitto e il pavimento della grotta erano però neri, formati da un materiale che i geologi e gli artificieri chiamavano scisto Visnù. Si trovava generalmente nello strato più basso delle pareti del Canyon, appena sotto la misteriosa Grande Discordanza. Le venature bianche che vedeva gli risultarono però del tutto nuove.
Ma nulla di tutto ciò, per quanto interessante, poteva catturare la sua attenzione per più di qualche istante. Non in presenza dell’uomo che aveva davanti.
La figura coperta di polvere volse lo sguardo su Camilla, gracchiando un commento: — Vedo che ne hai catturato un altro.
Lei rispose timidamente: — Non dire così, Edgar. Jake è solo un amico.
— Oh, non ne dubito. La maggior parte degli uomini sarebbe deliziata di esserti amico. Glielo hai già detto?
Guardando prima uno e poi l’altro, Camilla sembrò troppo impaurita per rispondere.
— Detto cosa? — chiese Jake.
Improvvisamente Edgar vide, posata su una lingua di roccia, la scatola metallica in cui Camilla aveva messo i panini. Borbottando qualcosa che suonò come una serie di insulti, afferrò il contenitore e alzò l’altra mano per schiaffeggiare la ragazza.
Urlando qualcosa, Jake balzò in avanti. Ma Camilla, ritraendosi dallo schiaffo che non arrivò, urlò a Jake di fermarsi. Fu un tale urlo di improvviso e raggelante terrore che Jake obbedì d’istinto.
Calmandosi, Jake ripeté la domanda: — Cosa doveva dirmi Camilla?
— Oh, nulla di veramente importante — replicò il vecchio. Occhi diabolici lo scrutarono attraverso la grigia polvere che gli copriva il viso. — Solo che oggi, mio giovane amico, la vita inutile e banale che hai sempre vissuto è giunta al termine.