17

Cathy Brainard stava ancora una volta percorrendo un sentiero del Canyon, quello però che portava al Canyon Profondo. Stavolta aveva lasciato a casa tenda e sacco a pelo, portando con sé solo una borraccia.

Maria scendeva con lei passo dopo passo, in silenzio. La giovane detective non si era neppure disturbata a portare la borraccia.

Le due giovani donne si erano incontrate per pura e semplice coincidenza sull’ampia passeggiata turistica che costeggiava il canyon, vicino all’inizio del sentiero del Bright Angel. Prima di quell’incontro si erano viste appena; tuttavia bastarono poche parole, una breve e complice conversazione, per decidere di tentare quell’impresa insieme.

— Se tu mi mostrassi il sentiero che scende mi aiuteresti moltissimo — aveva detto Maria quasi come un saluto, guardando nel malinconico baratro sotto di loro. Pinnacoli alti come montagne proiettavano le loro ombre violacee sulla neve, emergendo di quando in quando dalle nuvole in veloce movimento che scaricavano il loro carico di fiocchi. — Voglio andare dove sei stata, e solo tu puoi guidarmi.

— Davvero? — replicò Cathy — secondo me ti hanno incaricata di tenermi d’occhio e di vedere cosa puoi scoprire.

Maria rabbrividì, come turbata da un distante ricordo. — No — replicò piano. — Forse è quello che si aspettano da me, soprattutto Joe, ma non è così. No, ti chiedo questo per un motivo strettamente personale, qualcosa di molto importante per me.

— E va bene — replicò Cathy ancora dubbiosa. — In fin dei conti è lo stesso, che tu voglia venire per te stessa o come investigatrice privata. Ma il modo di arrivarci è proprio quel dannato segreto, sai, quello che teoricamente non dovrei più ricordare e che invece ricordo benissimo. Al diavolo loro e i loro segreti. I miei genitori, intendo. Non riesco a scoprire cosa mi hanno fatto da bambina, ma ti garantisco che prima o poi ci riuscirò.

Maria non rispose. Continuava a guardare in basso, apparentemente a qualcosa di lontano, molto oltre la fila di piccoli turisti a dorso di mulo che tornava dall’escursione del mattino e che era appena comparsa alla vista alla media distanza. Una fila di formiche che faticosamente risaliva dalle profondità del tempo.

Cathy prese a scendere il Bright Angel.

— Stavolta — spiegò — ho lasciato una nota alla zia Sarah. È una brava donna. Non voglio si preoccupi senza motivo.

— Forse non avresti dovuto farlo — disse Maria.

— Non dovevo lasciarle la nota? E perché no?

Maria non riuscì a rispondere e si limitò a un vago gesto di impotenza. Non sapeva perché, in effetti, ma l’idea di quella nota la metteva molto a disagio.

— Vedi — riprese Cathy — la situazione era del tutto diversa quando sono scesa la prima volta un mese fa. Allora non sapevo dove stavo andando. Seguivo un ricordo… — e per un attimo tacque. Poi: — Non ti capitano mai strani sogni sulla tua infanzia?

— Non più — rispose Maria.

— Ricordi, non sogni. Chiamarli sogni è sbagliato. Be’, quello che ho fatto è stato un viaggio nel ricordo. Ho visto molte cose, le cose che pian piano avevo cominciato a considerare solo sogni. Come una certa piccola casa. Vederla mi ha spaventata a morte, e quindi mi sono ritirata a campeggiare da qualche parte nelle vicinanze. Ma adesso devo tornare e affrontare il mio passato, entrare in quella casa, parlare ai miei genitori e… — Incapace di trovare le parole per completare la frase, Cathy cambiò argomento. — Tu lavori con quel tipo assurdo, quello Strangeway?

— Sì, ma non lo conosco molto. È un collega di Joe. Loro sono di Chicago e noi di Phoenix. Perché me lo chiedi?

— Ha l’aria da jettatore.

— Pienamente d’accordo con te.

E le due donne continuarono a scendere il sentiero.


Trascorsero forse cinque minuti quando Cathy si accorse che Maria non aveva nulla con sé, neppure una borraccia.

— Non credi di aver bisogno di qualcosa?

— No, perché non penso di andare lontano — replicò Maria guardando fisso avanti a sé come rapita da qualche pensiero profondo. Cathy esitò a interrompere quella concentrazione.

— Mi stai seguendo, non è forse vero? Forse per controllarmi, forse per curiosità personale, ma comunque mi stai seguendo. Come fai a sapere dove andremo?

Maria rispose con un’alzata di spalle.

— Be’, non so come ma hai ragione — fece Cathy tirandosi indietro una ciocca di capelli. — Non hai bisogno di nulla, neppure una borraccia, perché non è lontano.

— Lo so. Ma come vi arriveremo?

— Devi conoscere il segreto. Io lo conosco. In alternativa, sono pazza e riesco a inventarmi delle cose incredibili.

— Qual é questo segreto?

— Oh, un trucco che mi ha insegnato mio padre… voglio dire il mio vero padre. Ma ero molto piccola allora. Per tanto tempo l’ho dimenticato, ma una volta che uno impara una cosa importante non se la scorda mai: capisci cosa intendo? Un po’ come imparare ad andare in bicicletta.

Maria non rispose. Continuò a camminare guardando fisso avanti a sé, come se i suoi pensieri andassero in realtà a ben altro.

Un’improvvisa nevicata investì le due donne cadendo tanto fitta da nascondere il sentiero sopra e sotto di loro. La lenta carovana di muli comparve alla vista altrettanto all’improvviso. La guidava un ranger del parco. Cathy e Maria si spostarono il più possibile verso la parete interna del sentiero per lasciar passare gli animali dal passo sicuro e costante, ognuno dei quali trasportava un turista semiassiderato. Gli uomini e le donne sulle placide cavalcature, concentrati solo sul caldo e la civiltà che li attendevano alla fine della corsa, non rivolsero neppure un’occhiata alle due escursioniste in attesa.

Il segreto menzionato da Cathy consisteva, naturalmente, nella conoscenza di una certa tecnica necessaria a chiunque volesse entrare o uscire da quello che i suoi genitori chiamavano il Canyon Profondo. Tuttavia era essenziale conoscerla bene non solo per superare la barriera del tempo, ma anche per riemergere dall’altra parte nell’epoca giusta. La destinazione andava quindi scelta con cura; per Cathy, come lei stessa comprendeva, quel viaggio nel ricordo non era solo necessario, ma anche inevitabile.

Mentre scendevano il Bright Angel, Cathy cercò di spiegare queste cose a Maria, ma senza molto successo.

Infine Maria le prestò abbastanza attenzione da dire: — Per me è tutto nuovo qui. Sei tu che devi guidarmi.

— Oh, guidarti è facile. Da bambina ho percorso questo sentiero più volte di quanto possa ricordare, o meglio più di quanto potevo ricordare: ma adesso che sono qui, tutto mi appare chiaro come il sole.


Ora le due ragazze erano sole, completamente tagliate fuori dall’improvvisa tormenta che aveva obbligato tutti a cercare riparo. Scendendo il sentiero, Cathy continuò a porsi domande sul suo passato: chi era la sua vera madre? In qualche modo si sentiva certa che sua madre, chiunque fosse, era certamente morta da tempo. E chi era suo padre, l’uomo forte e gentile che sempre compariva nei suoi ricordi d’infanzia?

Nel corso della sua vita come figlia adottiva di Brainard, Cathy comprese gradualmente che l’adozione l’aveva resa una parente del vecchio Edgar Tyrrel, un artista famoso e grandemente eccentrico che nei lontani anni Trenta aveva, tra le altre importanti imprese, costruito casa Tyrrel. Ma fino a pochi mesi prima, Tyrrel e i suoi vecchi affari non ricevevano molta considerazione nei pensieri di Cathy, perché in nessun modo si poteva collegare il celebre scultore il cui nome compariva sui libri e nei musei con i vaghi ricordi che aveva di suo padre. Perché, tanto per cominciare, le date non coincidevano affatto.

E neppure aveva mai provato un particolare desiderio per visitare la casa di Canyon Village. Poi, nel suo diciassettesimo Giorno del Ringraziamento qualcosa era cambiato.

Cathy sapeva che suo padre adottivo si recava talvolta al Grand Canyon per misteriosi affari, anche se Brainard discuteva raramente di queste cose con lei. Nessuno nella casa dove viveva parlava mai di casa Tyrrel, e lei crebbe senza dare la minima importanza alla faccenda.

Fino a quando non era venuta al canyon con gli amici. Le bastò una sola occhiata per riconoscerla: quella era la casa dov’era nata e cresciuta!


Assorta nei suoi pensieri, Cathy quasi passò la svolta giusta per mettere in opera la tecnica insegnatale da suo padre. Tuttavia all’ultimo momento, nonostante la neve, riuscì a riconoscere il posto. Le due giovani donne abbandonarono quindi il battuto sentiero del Bright Angel per seguire quello che pareva un sentiero di capre che non conduceva da nessuna parte. Ma Cathy avanzò decisa, senza neppure voltarsi.

Nella coscienza di Cathy fluttuavano senza alcuna ragione apparente delle vecchie immagini di Edgar Tyrrel, fotografie trovate nel corso degli anni su giornali e riviste. Era certa di aver visto almeno una di quelle foto incorniciata nella casa di Canyon Village, e le sembrava di averne notata un’altra nella guida turistica del canyon regalata dall’albergo a lei e ai suoi amici nel corso della visita di un mese prima.

Anche nella casa di Long Island zia Sarah teneva una o due di quelle foto in bianco e nero, scattate da una delle vecchie macchine fotografiche a scatola degli anni Trenta. Nei piovosi pomeriggi della sua infanzia, la giovanissima Cathy, persa in un passato del quale disperava di trovare mai l’origine, aveva contemplato quelle foto molte volte. E talvolta quelle foto si erano confuse, o perlomeno così pensava da tempo, con i veri ricordi di un uomo che lei chiamava papà.


La neve smise di colpo di cadere e l’aria divenne più calda. Il cielo restò nuvoloso ma la luce cambiò, suggerendo un annuvolato tramonto nel Canyon Profondo: un tramonto non più invernale. La visibilità era perfetta.

— Sì, il posto è questo — disse Cathy con molta calma. Si trovavano in qualche canyon laterale, una gola selvaggia e decisamente più piccola del Grand Canyon. Un torrente abbastanza stretto da poterlo attraversare con un salto scendeva gorgogliando a valle. Il sentiero di capre c’era ancora, solo che adesso seguiva serpeggiando il corso del torrente. Procedendo in fila indiana le due ragazze giunsero a una macchia composta da strani pioppi nani oltre cui, a una cinquantina di metri di distanza, videro un piccolo cottage in una pianeggiante radura. Neppure una luce illuminava le finestre, e il luogo sembrava ostile e deserto.

Cathy arrestò il suo cammino osservando il piccolo edificio. Maria si fermò incerta accanto a lei.

— Io vivevo in quella casa un tempo — disse Cathy. — Non per molti anni, no. Comunque sono certa di avervi vissuto.

Il suo sguardo andò a Maria che, silenziosa e con occhi sognanti, era ovviamente immersa nei propri pensieri e non prestava molta attenzione a lei o alla casa.

Strano comportamento per una detective, si disse Cathy; tuttavia aveva altro a cui pensare. Ad alta voce aggiunse: — Scommetto che mio padre vive ancora qui, forse non nella casa, ma comunque nei paraggi. Ne sono quasi certa.

Questo attrasse l’attenzione di Maria. — Tuo padre? Gerald Brainard?

— Oh no! — esclamò Cathy, seccata da quell’ottusità. — Il mio vero padre, quello che ricordo da bambina.


Lentamente le due giovani donne si avvicinarono alla casa deserta. Un leggero ma continuo ronzio di sottofondo, semiattutito dal gorgogliare del ruscello, suggeriva un qualche tipo di macchina al lavoro.

— Da quanto tempo non lo vedi? — domandò Maria. Sembrava stare compiendo uno sforzo per uscire da quella strana apatia, quel dormiveglia fisico e mentale che condizionava il suo comportamento fin dalla loro partenza.

— Dodici anni, credo — replicò Cathy accigliata, come se quel calcolo non la soddisfacesse del tutto. — Anche mia zia Sarah ha vissuto qui, ma quando? Cinquanta, sessant’anni fa questa era la sua casa… ma è mai possibile?

Ultimamente il tempo risultava difficile da calcolare con precisione per Cathy. I due giorni di assenza al Ringraziamento si erano misteriosamente tramutati in un mese, o perlomeno tutti affermavano che era scomparsa per un mese anche se lei aveva visto il sole sorgere e tramontare solo due volte.

Avvicinandosi alla casa, Cathy e Maria incontrarono un grosso gatto rossiccio dall’aria semiselvatica. Sedeva miagolando nel bel mezzo del sentiero, come se volesse qualcosa. Ma quando le due donne si avvicinarono fuggì velocemente tra i cespugli.

— Quello è Beagle — spiegò Cathy con voce intimorita.

— Beagle?

— Sì. È proprio lui, il mio gattino. Se è un altro gatto gli assomiglia da pazzi. Me lo ha portato mio padre. Ricordo che volevo tanto un gattino, e allora lui… Un gatto può vivere dodici anni, vero?

— Credo proprio di sì.

Le due visitatrici giunsero finalmente alla porta della casa. Cathy tirò il chiavistello che si aprì. Nessun’altra serratura la chiudeva. La ragazza fece per entrare.

Maria esitò sulla soglia. — Sei sicura che non ci metteremo nei guai?

— Non preoccuparti. Ti dico che una volta vivevo qui!

— Una volta, ma adesso non più — replicò la giovane investigatrice tirandosi indietro i capelli, sfregandosi gli occhi ed esclamando: — Cosa ci faccio qui? E dove siamo con precisione?

Ma Cathy era già scomparsa nel buio dentro la casa.


Stranamente c’era elettricità, e Cathy sapeva dove trovare l’interruttore.

— Esattamente come la ricordavo — mormorò poi, guardandosi attorno nella stanza comune. — Solo, tutto mi sembra così piccolo! Ma i mobili sono rimasti identici. Per esempio, questa sedia… — poi spostò una sedia da sotto il tavolo prendendola dalla vecchia spalliera.

Maria guardava fuori dalla finestra nella luce opaca del tramonto. — Arriva qualcuno! — esclamò spaventata.

Cathy si voltò. Un vecchio uomo vestito con una polverosa tuta da lavoro le guardava con fredda rabbia immobile sulla soglia. Il suo aspetto tradiva la giusta indignazione di qualcuno che sorprende due ladruncoli sul fatto.

— Papà! — esclamò Cathy d’impulso. — Sei tu! Sei ancora vivo!

Il volto di suo padre sembrava cambiato: era più scuro, e mostrava cicatrici che non ricordava. Tuttavia, lei fu subito certa di chi aveva davanti.

L’uomo sulla soglia restò immobile per un lungo istante. Guardò brevemente Maria prima di fissare nuovamente Cathy con una penetrante occhiata. Nulla in volto tradiva le sue emozioni.

Poi chiese, con voce roca e profonda: — Chi siete?

Fu come se Cathy non avesse neppure udito la domanda. Guardandolo a sua volta immobile con le mani sullo schienale della sedia, ripeté: — Papà!

— Dio mio! È mai possibile? — fece l’uomo continuando a guardare Cathy e cercando, con una qualche agitazione, la sedia più vicina. Quando finalmente riuscì ad afferrarla l’avvicinò a sé e sedette con un improvviso movimento, come se le ginocchia rifiutassero di sostenerlo oltre.

Poi, lentamente chiese: — Come mi hai chiamato, ragazza?

— Tu sei mio padre. Devi esserlo. Mi ricordo di te e di questa casa — disse Cathy guardandosi attorno, per aggiungere: — Una volta anch’io vivevo qui.

— Come ti chiami? — Era una voce stanca quella che parlò, molto, molto stanca.

— Sono Cathy! Non ti ricordi di me? Io ti ricordo come se fosse ieri. Non sei cambiato. Non molto.

— Cathy! Per un attimo ti ho scambiata per Sarah… ho creduto che fosse riuscita a trovare la strada per tornare da me giovane come allora. Assomigli a tua madre in modo sorprendente, addirittura miracoloso!

D’impulso, come se quella domanda non potesse venire soffocata oltre, Cathy domandò: — Perché hai abbandonato me e la mamma?

— Abbandonato? Io?

— Lei ha dovuto lasciarmi in collegio quando avevo cinque anni. Di questo sono certa. Non avrebbe dovuto farlo se tu non ci avessi abbandonate. Ho torto forse? — inquisì Cathy, sembrando ansiosa di sentirsi dire che sì, aveva torto.

Edgar Tyrrel s’irrigidì sulla sedia. — Io l’avrei abbandonata? E tu con lei? Chi ti ha detto questo?

— Nessuno, ma sembra la cosa più logica. Ho torto? Ricordo benissimo che litigavate lassù sull’altopiano, il giorno della sepoltura di qualcuno.

L’uomo seduto sulla sedia sembrò invecchiare ogni minuto di più. Con uno strano, rantolante sospiro disse: — Quel giorno seppellimmo tua sorella. Sono… sono sorpreso che tu possa ricordarlo. — E poi, scuotendo lentamente la testa: — Dopo, tua madre mi lasciò. In qualche modo incolpò me della tragedia. E così, senza neppure avvisarmi, un giorno se ne andò portandoti con sé. Da allora non l’ho più rivista.

Dopo un intenso attimo di silenzio, Cathy chiese: — Mia madre… com’era?

— Da giovane, vuoi dire? Perché parli di lei al passato?

Cathy lo guardò sgranando gli occhi: — Perché è morta!

Il vecchio Tyrrel le ritornò l’occhiata, per poi guardarsi intorno. E come se si fosse ricordato qualcosa, balzò in piedi con un’agilità inaspettata visto il suo aspetto derelitto.

— Dov’è la tua amica? — chiese bruscamente.

A Cathy fu necessario un istante per capire. — Maria? Non lo so. Era qui un attimo fa.

Fermo in piedi, Tyrrel ascoltò i rumori della notte con grande attenzione. — Non importa — disse infine. — Non andrà lontano. Lei non importa. Tu sì — concluse, tornando con lo sguardo a Cathy.

— Papà — disse piano Cathy, lasciando finalmente andare la spalliera della sedia e muovendo verso di lui dapprima indecisa, poi con rapidi passi che terminarono in un impacciato abbraccio. Le braccia di Tyrrel, dapprima alzate come per tenerla lontano, si chiusero dolcemente su di lei.

— Tu sei mio padre — ripeté lei piangendo sulla sua spalla.

Lentamente l’abbraccio terminò, ma Tyrrel tenne sua figlia per le spalle dicendole: — Io ero il tuo padre adottivo, mia adorata Cathy. Quando ti vidi per la prima volta, avevi forse due anni. Tua sorella era appena nata. Tua madre era, oppure è, la sola donna che abbia mai amato in vita mia. Tu e tua sorella eravate i soli figli che mai potevo avere. Ecco perché ti voglio bene, Cathy. E te ne vorrò per sempre.

Seguì un lungo, commosso silenzio. Poi, gentilmente, Tyrrel aggiunse: — Dici che tua madre è morta?

— La mia vera madre? Così mi hanno detto quando avevo sei anni — spiegò Cathy con l’ombra di un sospetto nella mente. — Perché, non è vero?

Tyrrel ignorò la domanda sul momento. — Quando sei scesa dall’altopiano, in che anno? E come sei arrivata qui nel Canyon Profondo? La strada è chiusa.

— La strada è aperta invece, almeno per me — replicò Cathy con semplicità. — Un tempo ho vissuto qui e ricordo benissimo dove trovare il sentiero e come seguirlo. Sono venuta qui per cercare mio padre… e me stessa con lui.

— Ma in che anno sei partita? Dimmelo!

— Non capisco cosa vuoi dire. In che anno? Siamo nel Novantuno, quasi nel Novantadue.

— Ah — fu la breve replica di suo padre.

Muovendo verso la porta aperta e guardando fuori nella notte incombente, la ragazza gustò l’aria e l’insolita atmosfera di quel luogo con un profondo respiro. Odori strani e familiari allo stesso momento, sconosciuti dall’infanzia in poi, si fissarono nella sua memoria.

Poi disse: — Non ho mai dimenticato questo posto. È tutto come allora, solo che adesso la casa e tutto il resto sembrano molto più piccoli. Ma ogni volta che ricordavo, temevo che la mia mente stesse giocandomi brutti scherzi. Perché ci sono altre cose che non quadrano. Automobili, radio e persone vestite da anni Trenta, vecchie macchine e giocattoli. Ogni volta che simili immagini mi si affacciavano alla mente pensavo di essere semplicemente pazza.

Cathy guardò suo padre da vicino. — E c’erano altre cose persino più strane. Cose che ti ho visto fare, o almeno che ricordo di averti visto fare, e che sono impossibili per un normale essere umano.

— Mia cara bambina…

Cathy gli fece capire con un gesto che non aveva finito. — E non è solo una questione di memoria — aggiunse. — La gente mi ha mentito per tutta la vita. Io non ero certa che questo posto esistesse davvero, ma ogni volta che cercavo di parlarne, nessuno mi prestava attenzione. Mia madre mi ha abbandonata in un collegio e tu, mio padre, non mi hai mai cercato. Non è forse vero?

— Sì, è vero. Non ti ho mai cercata perché ho capito che tua madre aveva ragione a portarti via da qui.

— Perché?

— Perché questo è un posto pericoloso, Cathy, soprattutto per dei bambini.

— Adesso vivi qui da solo?

Tyrrel parve vagamente sorpreso. — Solo? Oh no, tutt’altro.

— In che anno ti ha lasciato? — chiese la ragazza.

— Chi?

Lei lo guardò sorpresa. — La mamma, naturalmente.

— Nel 1934.

Non fu necessario alcun calcolo mentale. — Nel 1934? Ma è impossibile!

— Già. Eppure è proprio così.

— No! Come può… papà, tu dici che la mamma ti ha lasciato nel Trentaquattro, ma io ho solo diciassette anni. Ecco perché è impossibile.

— La mia intera vita è una questione di tempo, Cathy. Con me il tempo non scorre come al solito. E lo stesso vale per chiunque viva nel Canyon Profondo, come te. Qui il tempo scorre come le rapide di un fiume. Ricordi il fiume? Te l’ho fatto vedere tante volte.

— Il fiume! Sì, lo ricordo.

— E ricordi le rocce bianche che ti feci vedere un giorno? Ti spiegai che sono proprio quelle rocce vecchie come il pianeta a creare le grandi rapide nel flusso del tempo. Ho trascorso la mia vita intera a scolpire quelle rocce. In esse riposa lo spirito della Terra.

Ma a Cathy non interessava molto lo spirito della Terra. — Papà, devi dirmelo: tu vivevi con Sarah negli anni Trenta. Colei che ho sempre creduto mia zia è in realtà…

— Sarah Tyrrel, tua madre. Ah, ora comincio a capire.

— Ma come…

Gentilmente Tyrrel la condusse verso una porta chiusa. — Vieni con me, bambina mia. Voglio farti vedere una cosa.

Un attimo più tardi entrambi entrarono in quella che per breve tempo era stata la stanza di Cathy. Entrando, Tyrrel azionò un interruttore a lato della porta e una luce elettrica si accese.

— Qui non c’era la luce elettrica una volta.

— L’ho installata io qualche anno dopo la tua partenza. Ho avuto dei guai con… con le lampade a petrolio.

Aprendo il piccolo armadio a muro, Tyrrel ne estrasse un orsacchiotto di peluche e lo mostrò a Cathy.

— Ricordi questo, bambina mia?

— Sì, sì!

— E questa? — insistette, mettendole davanti la piccola scatola del pranzo. — L’ho portata per te da Canyon Village. La volevi tanto! Era qualcosa che ricordavi dal mondo esterno, prima che ci trasferissimo qui. Hai fatto fuoco e fiamme per averla, piccola mia, non so perché — le spiegò sorridendo. Poi, serio: — Forse speravi ancora di andare a scuola un giorno. Be’, immagino che tu ci sia riuscita.

— Sì, certamente. Ma questa scatola del pranzo… non so neppure io perché la volevo tanto. Ricordo però di aver pianto e supplicato per averla.

— E questo? Guarda! — esclamò Tyrrel aprendo una scatola metallica molto diversa, sistemata anch’essa nel piccolo armadio a muro. — Il tuo atto di nascita dev’essere qui da qualche parte.

Un attimo più tardi il vecchio padre trovò il certificato. Le pieghe del documento erano rigide per il tempo. — La data è quella del diciotto maggio 1930, come puoi vedere anche tu. Per qualche motivo tua madre l’aveva con sé quando venne qui.

Cathy guardò attentamente il documento. — Catherine Ann Young — lesse ad alta voce, sempre più meravigliata.

— Sei tu. Il nome di Sarah prima del nostro matrimonio era Young. Vedi, lei non sposò mai il tuo padre naturale. Certamente lo amava, per avere due figlie da lui. Forse era un uomo sposato; non le ho mai chiesto molto sul suo passato. Ero felice di averla al mio fianco così com’era — dichiarò, tacendo per un attimo. — Anzi, più che felice.

— Non posso crederci — commentò Cathy scuotendo la testa. — Questo vorrebbe dire che per quattro decenni, per tutta la metà di questo secolo, io non esistevo…

— Oh, la stessa cosa si può dire di te per molti millenni. Esistevi forse nel secolo scorso? Hai mai pensato che sono trascorse intere ere geologiche senza di te?

— Be’, sì, ma questo è assurdo!

— Cathy, io dubito che la tua vita sia molto più strana della mia — affermò Tyrrel, esitando. — Ma forse lo è, in certi dettagli. Consentimi però di dubitare che la mia vita o la tua siano le vite più strane mai vissute da un essere umano. D’altro canto — concluse sorridendo — tutti e due abbiamo ancora il tempo di recuperare!


L’atto di nascita era contrassegnato da due piccole impronte di piedi eseguite con inchiostro nero. Un piede destro e uno sinistro.

— Queste impronte corrispondevano alle tue — spiegò Tyrrel con voce gentile. — Mia cara, tu sei nata più di sessant’anni fa in California, proprio come afferma il certificato. Tua madre potrà raccontarti maggiori particolari, ne sono certo.

— Mia madre. Allora zia Sarah è mia madre.

— Sì, lei è tua madre. Vedrò di riportarti da lei sana e salva.

Gli occhi di Cathy si chiusero mentre esaminava incredula l’atto di nascita. Per un attimo parve quasi sul punto di svenire.

Poi allungò entrambe le braccia e cercò suo padre, abbracciandolo con molto più calore di prima.

Di nuovo la sua fu una goffa risposta.

Lasciandolo, lei disse ad alta voce: — Mi chiedo dove può essere andata Maria.

— Debbo andare alla grotta — disse Tyrrel all’improvviso, come se parlare di Maria gli avesse ricordato qualcosa di molto importante. — Per te è senz’altro meglio seguirmi. È più sicuro che aspettare qui.

— Più sicuro?

— Il Canyon Profondo è un posto pericoloso da visitare, ragazza mia. Finora ti è andata bene. E quando eri bambina, io ti proteggevo il meglio possibile. La tua sorellina… be’, lei non ha avuto la tua stessa fortuna. Ma tua madre ha dato la colpa solo a me — spiegò Tyrrel. La sua voce divenne poco più di un sussurro. — Seguimi. Se la tua amica è importante per te, forse riusciremo ancora ad aiutarla.

— Aiutarla? Ma perché, cosa sta succedendo?

— Seguimi, ti dico. Subito.


Una volta raggiunto l’ingresso della grotta, Cathy si fermò guardandosi attorno. — Ricordo benissimo questo posto — sussurrò. — Era il tuo laboratorio. La mamma mi diceva: “Papà sta lavorando”, e io mi avvicinavo piano piano e ti guardavo mentre scolpivi le tue statue nell’oscurità.

— È ancora il mio laboratorio, figliola — replicò Tyrrel inclinando leggermente la testa e ascoltando con attenzione. — La tua amica non è qui, purtroppo — dichiarò, per poi accendere le luci.

— A cosa lavori adesso, papà?

— Lavoro alla linfa vitale del nostro pianeta, mia cara. Lavoro sulla vita e sulla morte, e sul modo in cui le due riescono a unirsi. Perché vedi, nessuna può esistere senza l’altra.

— Papà! Cosa ti è successo? — esclamò Cathy allarmata. Là, alle forti luci della grotta, poté esaminare meglio le cicatrici sul volto del padre. Quelle che una volta dovevano essere orribili bruciature si erano lentamente ammorbidite e rimarginate, lasciando solo un’ombra di quello che un tempo doveva essere stato un devastante incidente.

— Cosa sono quelle cicatrici? — insistette Cathy. — Non le ricordo.

— Qualcuno ha tentato di uccidermi — le spiegò brevemente suo padre, voltandosi dal tavolo di lavoro. — Volevano… volevano bruciarmi vivo.

Il suo sguardo si addolcì quando vide l’orrore sul volto di sua figlia.

— Ma adesso è tutto finito — la rassicurò. — Per fortuna hanno fallito. Ed è successo molto tempo fa. Guarda, questa è la pietra su cui lavoro. Non ha nulla in comune con la banale roccia calcarea su cui scolpisco i miei lavori per Brainard. Ormai da tempo mi dedico interamente ad altre cose.

Tyrrel smise di parlare e ascoltò qualcosa nella notte. Guardò Cathy, e la sua espressione si fece preoccupata. Passarono diversi minuti prima che anche lei potesse udire ciò che sembrava angosciarlo. Voci umane, e sempre più vicine: sembravano quelle di due donne e un uomo.

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