Nikanor Ivanovič Bosoj, presidente della cooperativa degli inquilini della casa n. 302 bis sulla via Sadovaja a Mosca, dove era vissuto il defunto Berlioz, fin dalla notte precedente, tra mercoledí e giovedí, aveva avuto un gran daffare.
A mezzanotte, come già sappiamo, era giunta nella casa una commissione di cui faceva parte Želdybin, avevano convocato Nikanor Ivanovič, lo avevano informato della morte di Berlioz, e con lui si erano recati nell’appartamentino n. 50.
Là furono apposti i sigilli sui manoscritti e sugli oggetti di proprietà del defunto. In quel momento nell’appartamento non c’erano né Grunja, la donna a ore, né lo spensierato Stepan Bogdanovič. La commissione dichiarò a Nikanor Ivanovič che avrebbe ritirato i manoscritti del defunto per sistemarli, che le tre stanze da lui occupate (l’ex studio, salotto e sala da pranzo della gioielliera) tornavano a disposizione della cooperativa, mentre gli oggetti appartenenti al defunto sarebbero rimasti in loco fino a che non si fossero presentati gli eredi.
La notizia della morte di Berlioz si diffuse nella casa con una rapidità prodigiosa, e dalle sette del mattino di giovedí a Bosoj cominciarono a telefonare, e poi da lui cominciarono a venire di persona con domande scritte che rivendicavano i locali del defunto. Nel corso di due ore, Nikanor Ivanovič ricevette trentadue domande del genere.
Esse contenevano suppliche, minacce, cavilli, delazioni, promesse di eseguire a proprie spese le riparazioni necessarie, lagnanze per l’insopportabile mancanza di spazio e l’impossibilità di coabitare in uno stesso appartamento con dei banditi. Tra l’altro c’era anche la descrizione, stupefacente per vigore poetico, del furto di certi agnolotti alla siberiana con immediata sistemazione degli stessi nella tasca della giacca, il tutto avvenuto nell’appartamento n. 31, e poi due promesse di por fine alla propria vita con un suicidio e una confessione di gravidanza clandestina.
I visitatori chiamavano Nikanor Ivanovič nell’anticamera del suo appartamento, lo afferravano per una manica, gli sussurravano qualcosa, gli ammiccavano e promettevano che non sarebbero rimasti in debito.
Questa tortura continuò fino a mezzogiorno passato, quando Nikanor Ivanovič scappò di casa e si rifugiò nell’ufficio dell’amministrazione vicino al portone, ma quando vide che anche lí stavano già in agguato, fuggí di nuovo. Riuscí in qualche modo a sbarazzarsi di quelli che lo tallonavano attraverso il cortile asfaltato, scomparve nell’interno n. 6 e salí al quinto piano, dove si trovava quello schifoso appartamento.
Ripreso fiato sul pianerottolo, il pingue Nikanor Ivanovič suonò ma nessuno gli aprí. Suonò una seconda volta poi una terza, e cominciò a brontolare e imprecare a bassa voce Ma neanche allora gli fu aperto. La pazienza di Nikanor Ivanovič andò a farsi benedire, ed egli tirò fuori dalla tasca un mazzo di duplicati di chiavi appartenenti all’amministrazione della casa, aprí la porta con mano imperiosa ed entrò.
— Ehi, cameriera! — gridò Nikanor Ivanovič nell’anticamera semibuia. — Come ti chiami, Grunja, no?… Non ci sei?
Nessuno rispose.
Allora Nikanor Ivanovič trasse dalla borsa un metro pieghevole poi tolse il sigillo dalla porta dello studio e fece un passo in avanti. Il passo lo fece, ma si fermò sulla soglia sbalordito e ebbe perfino un sussulto.
Al tavolo del defunto stava seduto uno sconosciuto magro, lungo, con un giacchettino a quadretti, un berretto da fantino e occhiali a molla… insomma, quel tale.
— Lei chi sarebbe, signore? — chiese spaventato Nikanor Ivanovič.
— To’! Nikanor Ivanovič! — urlò l’ospite inatteso con tremolante voce tenorile, e, balzando in piedi, salutò il presidente con una stretta di mano forzata e repentina.
Questo saluto non rallegrò affatto Nikanor Ivanovič.
— Mi scusi, — disse con sospetto, — lei chi sarebbe? Un funzionario?
— Eh, Nikanor Ivanovič! — esclamò lo sconosciuto con voce cordiale. — Che importanza ha, funzionario o non funzionario? Tutto dipende dal punto di vista da cui si guarda l’oggetto. Tutto, Nikanor Ivanovič, è convenzionale e incerto. Oggi non sono un funzionario, ma domani, quando meno te lo aspetti, lo divento! Capita anche il contrario, e come!
Questa disquisizione non soddisfece minimamente il presidente dell’amministrazione della casa. Essendo già per natura una persona sospettosa, concluse che quel tipo che gli sermoneggiava davanti, non solo non era un funzionario, ma magari era anche un perdigiorno.
— Ma insomma, lei chi sarebbe? Come si chiama? chiedeva il presidente con modi sempre piú severi, cominciando perfino ad avanzare verso lo sconosciuto.
— Il mio cognome, — replicò quello, per nulla turbato da quella severità, — è, be’, diciamo, Korov’ev. Vuol prendere qualcosa, Nikanor Ivanovič? Senza complimenti, sa?
— Le chiedo scusa, — disse Nikanor Ivanovič, ormai sdegnato, — che c’entra «prendere qualcosa»? — (Si deve riconoscere, benché sia spiacevole, che Nikanor Ivanovič era per natura alquanto villano). — Non è permesso stare nei locali del defunto! Che fa lei qui?
— Ma si accomodi, Nikanor Ivanovič, — urlava quello senza il minimo imbarazzo, offrendogli, strisciante, una poltrona. Completamente infuriato, Nikanor Ivanovič la rifiutò, e gridò:
— Ma lei chi è?
— Io, col suo permesso, sono l’interprete addetto a uno straniero residente in questo appartamento, — si presentò colui che aveva detto di chiamarsi Korov’ev, e sbatté i tacchi delle scarpe rossicce non pulite.
Nikanor Ivanovič spalancò la bocca. La presenza, in quell’appartamento, di uno straniero, per di piú provvisto di un interprete, era per lui una totale sorpresa. Volle spiegazioni.
L’interprete gliele diede di buon grado. L’artista straniero signor Woland era stato gentilmente invitato dal direttore del Varietà Stepan Bogdanovič Lichodeev a trascorrere il periodo della sua tournée, una settimana circa, nel proprio appartamento, del che aveva già scritto ieri a Nikanor Ivanovič, pregandolo di registrare temporaneamente lo straniero, mentre lo stesso Lichodeev avrebbe fatto un viaggetto a Jalta.
— Non mi ha scritto niente, — disse il presidente meravigliato.
— Guardi bene nella sua cartella, Nikanor Ivanovič, propose Korov’ev soavemente.
Stringendosi nelle spalle, Nikanor Ivanovič aprí la cartella e vi scoprí la lettera di Lichodeev.
— Come ho fatto a dimenticarmene? — borbottò, fissando la busta aperta con espressione ottusa.
— Eh, sono cose che capitano, Nikanor Ivanovič! — cicalò Korov’ev. — Distrazione, distrazione, esaurimento e pressione troppo alta, caro il mio Nikanor Ivanovič! Anch’io sono terribilmente distratto! Un giorno o l’altro, davanti a un bicchierino, le racconterò qualche fatterello della mia vita: lei creperà dal ridere!
— Quand’è che Lichodeev va a Jalta?!
— Ma è già andato, è già andato! — gridò l’interprete. Eh, sta già viaggiando! Chi diavolo sa dove si trova a quest’ora! — e l’interprete agitò le braccia come le pale di un mulino a vento.
Nikanor Ivanovič dichiarò che doveva vedere personalmente lo straniero, ma l’interprete rifiutò: assolutamente impossibile. Era occupato. Stava addestrando il gatto.
— Il gatto, se vuole, glielo posso far vedere, — propose Korov’ev.
Nikanor Ivanovič, a sua volta, rifiutò, e l’interprete fece subito al presidente una proposta inattesa, ma assai interessante: considerando che il signor Woland rifiutava nel modo piú assoluto di vivere in albergo, e d’altro canto era abituato a disporre di molto spazio, non poteva la cooperativa affittargli per una settimana — durata della tournée di Woland a Mosca — l’intero appartamento, cioè anche i locali del defunto?
— A lui, al defunto, non importa niente, — sussurrava con voce rauca Korov’ev. — Ne convenga, Nikanor Ivanovič, quest’appartamento a che gli serve adesso?
Nikanor Ivanovič replicò con una certa perplessità che gli stranieri dovrebbero risiedere al Métropole, non in appartamenti privati…
— Ma se le sto dicendo che è capriccioso come il diavolo sa chi! — sussurrò Korov’ev. — Non vuole! Non gli piacciono gli alberghi! Mi stanno qui, i turisti stranieri, — si lagnò confidenzialmente Korov’ev, battendo il dito sul collo magro. — Mi creda, mi hanno scocciato! Arriva uno e fa lo spione come l’ultimo dei figli di un cane, o rompe l’anima coi suoi capricci: una cosa non gli va, un’altra neppure!… E per la sua cooperativa, Nikanor Ivanovič, è tanto di guadagnato. Lui non bada a spese, — Korov’ev si voltò poi bisbigliò all’orecchio del presidente: — È un milionario!
La proposta dell’interprete aveva un chiaro senso pratico, ed era assai seria, ma qualcosa di straordinariamente poco serio c’era sia nella maniera di parlare dell’interprete, sia nel suo abbigliamento, sia in quegli abominevoli occhiali a molla che non valevano un soldo. Di conseguenza, qualcosa di poco chiaro gravava sul cuore del presidente eppure decise di accogliere la proposta. Il fatto è che la cooperativa, ohimè, soffriva di un forte deficit. In autunno sarebbe stato necessario comprare la nafta per il riscaldamento, ma con quali quattrini non si sapeva. Adesso, coi soldi del turista straniero, si sarebbe forse potuto cavare d’impaccio. Ma Nikanor Ivanovič, persona pratica e prudente, dichiarò che in primo luogo doveva avere l’autorizzazione dell’Ufficio turisti stranieri.
— Capisco! — esclamò Korov’ev. — Come no! Senz’altro! Eccole il telefono, Nikanor Ivanovič, si faccia subito dare l’autorizzazione! E per i soldi, non faccia complimenti, aggiunse in un sussurro, trascinando in anticamera il presidente, verso il telefono. — A chi chiederne se non a lui! Se vedesse che villa possiede a Nizza! L’estate prossima, quando andrà all’estero, vada appositamente a guardarsela, vedrà che roba!
La questione con l’Ufficio turisti stranieri fu risolta per telefono con una celerità straordinaria, che sbalordí il presidente. Apprese che erano già informati dell’intenzione del signor Woland di abitare nell’appartamento privato di Lichodeev, e non facevano obiezioni.
— Benissimo, allora! — gridava Korov’ev.
Alquanto intronato dal suo cicaleccio, il presidente dichiarò che la cooperativa era pronta ad affittare per una settimana l’appartamento n. 50 all’artista Woland dietro corresponsione di… Nikanor Ivanovič esitò, e disse:
— Cinquecento rubli al giorno.
Qui Korov’ev lo sbalordí definitivamente. Ammiccando con aria furbesca in direzione della camera da letto, da dove giungeva il rumore degli agili salti del pesante gatto, disse rauco:
— Per una settimana, quindi, farebbe tremilacinquecento rubli?
Nikanor Ivanovič pensò che l’altro avrebbe soggiunto:
«Mica stupido, il nostro Nikanor Ivanovič», ma Korov’ev disse una cosa completamente diversa.
— Per lui è niente. Gliene chieda cinquemila, glieli darà.
Con un sorrisino confuso, Nikanor Ivanovič non si accorse neppure come si ritrovò accanto alla scrivania del defunto, dove, con rapidità e abilità grandissime, Korov’ev redasse un contratto in due copie. Poi volò in camera da letto e ne ritornò con le due copie munite della firma svolazzante dello straniero. Anche il presidente firmò il contratto. Poi Korov’ev chiese una ricevutina per cinque…
— Scriva in lettere, in lettere, Nikanor Ivanovič!… mila rubli… — e aggiunse parole che non sembravano intonarsi alla serietà dell’affare: — Ein, zwei, drei! — e pose davanti al presidente cinque pacchettini nuovi di banconote.
Venne fatto il conteggio, condito da battute e facezie di Korov’ev come «conti chiari, amici cari», «l’occhio del padrone…» e cosí via.
Dopo aver contato il denaro, il presidente ricevette da Korov’ev il passaporto dello straniero per la registrazione lo ripose nella cartella insieme al contratto e al denaro, e, non riuscendo a trattenersi, chiese timidamente un biglietto di favore…
— Ma figuriamoci! — ululò Korov’ev. — Quanti ne vuole Nikanor Ivanovič? Dodici? Quindici?
Sbalordito, il presidente spiegò che gliene bastava un paio, per lui e Pelageja Antonovna, sua moglie. Korov’ev tirò subito fuori un’agenda e con un ampio gesto scrisse che consegnassero a Nikanor Ivanovič due biglietti di favore per la prima fila. Con la sinistra, l’interprete ficcò destramente il biglietto in mano a Nikanor Ivanovič, mentre con la destra gli poneva nell’altra mano uno spesso plico scricchiolante. Nikanor Ivanovič gli gettò un’occhiata, arrossí e cercò di respingerlo.
— Questo non è lecito, — borbottava.
— Non voglio sentire scuse!… — sussurrò al suo orecchio Korov’ev. — Da noi non è lecito, ma dagli stranieri è lecito. Lei lo offende, Nikanor Ivanovič, e questo non sta bene. Lei si è dato da fare…
— È punito dalla legge, — sussurrò pianissimo il presidente e si guardò intorno.
— E dove sono i testimoni? — sussurrò nell’altro orecchio Korov’ev. — Le chiedo: dove sono? Ma si figuri!…
Qui, come ebbe ad affermare in seguito il presidente avvenne un miracolo: il pacchetto s’infilò da solo nella sua cartella. Poi il presidente si ritrovò sulla scala, infiacchito e addirittura esausto. Un turbine di pensieri gli si agitava nella testa dove vorticavano la villa di Nizza, il gatto ammaestrato, il pensiero che effettivamente non vi erano stati testimoni, e che Pelageja Antonovna si sarebbe rallegrata per i biglietti di favore. Erano pensieri sconnessi, ma in complesso gradevoli. Eppure, nel piú profondo dell’animo, una spina punzecchiava il presidente. Era la spina dell’inquietudine. Inoltre, mentre era sulla scala, il presidente come da un colpo, fu colto da un pensiero: «Come ha fatto l’interprete ad entrare nello studio, dal momento che la porta era sigillata?!» E come mai lui, Nikanor Ivanovič non glielo aveva chiesto? Per qualche minuto, il presidente fissò i gradini come un asino, poi decise di infischiarsene e di non tormentarsi piú con pensieri complicati…
Non appena il presidente ebbe lasciato l’appartamento dalla camera da letto giunse una voce bassa:
— A me questo Nikanor Ivanovič non è piaciuto. È uno scroccone e un imbroglione. Non si può fare in modo che non venga piú qui?
— Messere, basta che lei ordini… — replicò Korov’ev, con una voce non piú tremolante ma limpida e sonora.
E subito il maledetto interprete fu in anticamera, fece un numero e disse nel ricevitore con voce piagnucolosa:
— Pronto! Considero mio dovere comunicare che il presidente della nostra cooperativa inquilini della casa n. 302 bis sulla Sadovaja, Nikanor Ivanovič Bosoj, traffica valuta estera. In questo momento, nel suo appartamento n. 35 nel condotto di aerazione del gabinetto, si trovano, avvolti in carta da giornale, quattrocento dollari. Parla l’inquilino della stessa casa, dell’appartamento n. 11, Timofej Kvascov. Ma vi supplico di mantenere segreto il mio nome. Temo la vendetta del suddetto presidente.
E riattaccò il ricevitore, quel mascalzone!
Che avvenisse poi nell’appartamento n. 50 non si sa, ma si sa quello che avvenne da Nikanor Ivanovič. Chiusosi nel gabinetto, trasse dalla cartella il pacchetto che l’interprete lo aveva costretto a prendere, e constatò che conteneva quattrocento rubli. Nikanor Ivanovič avvolse il pacchetto in un pezzo di giornale e lo cacciò nel condotto di aerazione.
Cinque minuti dopo, il presidente era a tavola nella sua piccola sala da pranzo. Sua moglie portò dalla cucina un’aringa accuratamente tagliata e ben cosparsa di cipolla verde. Nikanor Ivanovič si versò un bicchierino di vodka, lo tracannò, ne versò un altro, lo tracannò, infilzò con la forchetta tre pezzetti d’aringa… e in quel momento suonarono. Pelageja Antonovna mise in tavola una pentola fumante, una sola occhiata alla quale bastava a far capire che, in mezzo alla minestra bollente, si trovava il piú saporito cibo del mondo: un osso col midollo.
Con l’acquolina in bocca, Nikanor Ivanovič ringhiò come un cane:
— Vadano all’inferno! Non mi lasciano neanche mangiare!… Non far entrare nessuno, non ci sono, sono via… Per l’appartamento, digli che la smettano di agitarsi, tra una settimana ci sarà la riunione.
La moglie corse in anticamera, mentre Nikanor Ivanovič pescava col mestolo, da quell’ignivomo lago lui, l’osso appunto, incrinato longitudinalmente. In quel momento nella sala da pranzo entrarono due persone, accompagnate da Pelageja Antonovna, pallidissima. Vedendoli, si sbiancò anche Nikanor Ivanovič e si alzò.
— Dov’è il cesso? — chiese preoccupato il primo, che indossava un camiciotto bianco alla russa.
Qualcosa batté sul tavolo (Nikanor Ivanovič aveva lasciato cadere il mestolo sulla tela cerata).
— Qui, qui, — rispose in fretta Pelageja Antonovna.
I nuovi venuti si diressero subito in corridoio.
— Che succede? — chiese piano Nikanor Ivanovič, seguendo i due. — Nel nostro appartamento non c’è niente di proibito… Ma lei ha dei documenti… mi scusi…
Il primo, camminando, mostrò i documenti a Nikanor Ivanovič, mentre il secondo era già in piedi su uno sgabello nel gabinetto, con il braccio infilato nel condotto di aerazione. A Nikanor Ivanovič si annebbiò la vista. Tolsero il giornale, ma il pacchetto, invece dei rubli, risultò contenere denaro sconosciuto, fra il verde e l’azzurro, con l’immagine di un vecchio. Del resto, Nikanor Ivanovič vedeva tutto molto confusamente, davanti agli occhi gli ballavano delle macchie.
— Dollari nel condotto di aerazione, — disse pensieroso il primo, e chiese con dolcezza e urbanità a Nikanor Ivanovič: — È suo, questo pacchetto?
— No! — rispose Nikanor Ivanovič con voce terribile. Lo hanno messo lí i miei nemici!
— Capita, — acconsentí il primo, e aggiunse con la stessa dolcezza: — Be’, bisogna consegnare gli altri.
— Non ne ho! Giuro davanti a Dio che non ne ho mai avuti! — gridò disperato il presidente.
Si gettò verso il comò aprí con fracasso un cassetto, e ne estrasse la cartella, gridando frasi sconnesse:
— Ecco il contratto… quel verme di interprete mi ha rifilato… Korov’ev… con gli occhiali a molla…
Aprí la cartella, vi guardò dentro, vi infilò la mano, illividí e lasciò cadere la cartella nella minestra. Non c’era niente: né la lettera di Stepa, né il contratto, né il passaporto dello straniero, né il denaro, né il biglietto di favore. Insomma niente, tranne il metro pieghevole.
— Compagni! — urlò frenetico il presidente. — Pigliateli! In questa casa c’è lo spirito maligno!
Qui non si sa che cosa saltasse in testa a Pelageja Antonovna fatto sta che, alzando le braccia al cielo, esclamò:
— Confessa, Ivanyc! Ti ridurranno la pena!
Con gli occhi iniettati di sangue, Nikanor Ivanovič alzò i pugni sulla testa della moglie, rantolando:
— Oh, cretina maledetta!
Poi le forze gli mancarono, e si sedette, avendo evidentemente deciso di rassegnarsi all’inevitabile.
In quel frattempo, Timofej Kondrat’evič Kvascov, sul pianerottolo, appoggiava ora l’occhio ora l’orecchio al buco della serratura della porta del presidente, struggendosi di curiosità.
Cinque minuti dopo, gli inquilini della casa che si trovavano in cortile, videro il presidente dirigersi difilato verso il portone, accompagnato da due persone. Dicevano che Nikanor Ivanovič aveva cambiato faccia, che barcollava come un ubriaco, e che borbottava qualcosa.
Un’ora dopo, nell’appartamento n. 11, nel momento in cui Timofej Kondrat’evič raccontava agli altri, andando in sollucchero, come avessero messo in gattabuia il presidente, entrò uno sconosciuto il quale chiamò in anticamera Timofej con un movimento del dito, gli disse qualcosa e scomparve con lui.