CAPITOLO VENTIDUESIMO A lume di candela



Il rombo uniforme della macchina che volava alta sopra la terra, cullava Margherita e il chiaro di luna la scaldava piacevolmente. Chiusi gli occhi, essa aveva abbandonato il viso al vento e pensava con un po’ di tristezza alla sconosciuta riva del fiume che aveva lasciato e che, lo sentiva non avrebbe mai piú riveduto. Dopo tutti i sortilegi e i prodigi della sera precedente essa cominciava a indovinare da chi la portavano in visita, ma ciò non la spaventava. La speranza che sarebbe riuscita a riottenere la sua felicità la rendeva intrepida. Del resto, in macchina, non ebbe modo di sognare a lungo questa felicità. Sia che il gracchio sapesse bene il fatto suo, sia che la macchina fosse buona, quando aprí gli occhi dopo un po’, Margherita vide sotto di sé non già le tenebre del bosco, ma il lago tremolante delle luci di Mosca. Il nero uccello-autista svitò in volo la ruota anteriore destra, e subito dopo fece atterrare la macchina in un cimitero completamente deserto nel rione di Dorogomilov.

Dopo aver fatto scendere Margherita, senza che questa gli chiedesse nulla, vicino a una tomba, insieme con la sua spazzola il gracchio rimise in moto la macchina e la guidò dritto verso il burrone al di là del cimitero. Quivi essa precipitò con fracasso, e quivi perí. Il gracchio la salutò rispettosamente portando la mano alla visiera, sedette a cavallo della ruota e volò via.

Subito dopo, da dietro uno dei monumenti sbucò un mantello nero. Una zanna brillò sotto la luna e Margherita riconobbe Azazello. Costui l’invitò con un gesto a sedere sulla spazzola, lui stesso balzò su un lungo spadone, entrambi spiccarono il volo e dopo pochi secondi, senza esser stati scorti da nessuno, atterrarono nei pressi del n. 302 bis, in via Sadovaja.

Mentre i viaggiatori, portando sotto il braccio spazzola e spadone, varcavano la soglia del portone, Margherita notò un tizio in berretto e stivaloni alti che s’annoiava, aspettando probabilmente qualcuno. Per quanto fossero leggeri i passi di Azazello e Margherita, l’uomo solitario li udí e trasalí inquieto, non riuscendo a capire di chi fossero.

Vicino all’ingresso della sesta scala incontrarono un altro uomo straordinariamente simile al primo. E di nuovo si ripeté la stessa storia. I passi… l’uomo si voltò inquieto e si accigliò. Quando la porta si aprí e si chiuse, si gettò dietro le persone che, invisibili, erano entrate, gettò uno sguardo nell’ingresso, ma, naturalmente, non vide nessuno.

Un terzo uomo, che era la copia esatta del secondo e quindi anche del primo, era di guardia sul pianerottolo del terzo piano. Fumava sigarette forti, e Margherita si mise a tossire mentre gli passava accanto. L’uomo che fumava balzò su dalla panca dov’era seduto come se lo avessero punto, si guardò intorno con aria inquieta, si avvicinò alla ringhiera e guardò in giú. Margherita con la sua guida, intanto, era già presso la porta dell’appartamento n. 50. Non suonarono: Azazello, senza far rumore, aprí l’uscio con la sua chiave.

La prima cosa che colpí Margherita fu la tenebra in cui si trovò. Faceva buio come in un sotterraneo, cosicché si aggrappò istintivamente al mantello di Azazello per timore d’inciampare. Ma in quel punto il lume di una piccola lucerna ammiccò in lontananza e dall’alto, e cominciò ad avvicinarsi. Azazello, continuando a camminare, trasse via la spazzola di sotto al braccio di Margherita, e la spazzola scomparve senza mandare un suono nell’oscurità.

Allora imboccarono una scala con certi larghi gradini e Margherita cominciò ad aver l’impressione che non avrebbero avuto fine. La sorprendeva il fatto che nell’anticamera di un comune appartamento di Mosca potesse trovar posto questo straordinario scalone, invisibile, ma ben percepibile. Tuttavia la salita finí, e Margherita comprese che si trovava su un pianerottolo. Il lumicino si accostò e Margherita scorse il volto illuminato di un uomo alto e nero che teneva in mano una piccola lucerna. Coloro che in quei giorni avevano avuto la disgrazia di capitare sulla sua strada l’avrebbero naturalmente riconosciuto subito, anche alla luce fioca della fiammella della lucerna. Era Korov’ev, altrimenti detto Fagotto.

Per la verità, l’aspetto di Korov’ev era assai mutato. La fiammella tremolante non si rifletteva in un paio d’occhiali a molla incrinati, che da tempo avrebbero dovuto esser gettati nel mondezzaio, bensí in un monocolo, anch’esso incrinato, a dire il vero. I baffetti sulla faccia impudente erano arricciati e impomatati, e la nerezza di Korov’ev si spiegava molto semplicemente col fatto che egli era in marsina. Solo il suo petto biancheggiava.

Il mago, il maestro di cappella, l’incantatore, l’interprete o sa il diavolo cosa fosse in realtà, Korov’ev, insomma, s’inchinò e movendo per aria la lucerna con un ampio gesto, invitò Margherita a seguirlo. Azazello sparí.

«Che stranissima sera, — pensava Margherita, — tutto mi sarei aspettato fuorché questo. Che sia venuta a mancare la luce elettrica in casa loro? Ma quel che piú sorprende sono le dimensioni di questo locale… In che modo tutto questo può essere pigiato dentro un appartamento moscovita? E semplicemente impossibile!…»

Anche alla luce incerta della piccola lucerna di Korov’ev, Margherita capí che si trovava in un immenso salone buio con un colonnato per giunta, e, a prima vista, sterminato. Arrivato vicino a un piccolo divano, Korov’ev si fermò, depose la lucerna su un mobiletto, con un gesto invitò Margherita a sedersi, e si accomodò accanto a lei, in una posa pittoresca, appoggiando i gomiti sul mobiletto.

— Mi permetta di presentarmi, — gracchiò Korov’ev, — Korov’ev. Si meraviglia che non ci sia la luce? Per fare economia, avrà certo pensato lei. Macché, macché! Il primo venuto fra i boia, foss’anche uno di quelli che avrà fra poco l’onore di baciarle il ginocchio, mi tagli pure la testa su questo stesso comodino, se è cosí! Semplicemente, Messere non ama la luce elettrica e la daremo proprio all’ultimo momento. E allora mi creda, non scarseggerà. Forse, anzi, sarebbe bene che ce ne fosse un po’ meno.

Korov’ev piacque a Margherita e le sue chiacchiere magniloquenti producevano su di lei un effetto calmante.

— No, — rispose Margherita, — quel che piú mi sorprende è dove trovi posto tutto questo — . E girò attorno la mano a sottolineare l’immensità della sala.

Korov’ev sogghignò dolcemente, il che fece muovere le ombre nelle pieghe del suo naso.

— È una cosa semplicissima! — rispose. — Per chi conosce bene la quinta dimensione è una bazzecola allargare un alloggio fino alla grandezza desiderata. Le dirò di piú, stimatissima signora, allargarlo fino a sa il diavolo quali limiti! Io, d’altra parte, — continuò a cicalare Korov’ev, — ho conosciuto delle persone che non solo non avevano nessun’idea della quinta dimensione, ma in genere, non avevano nessun’idea di nulla e nondimeno hanno realizzato i piú autentici prodigi in fatto di ampliamento del loro alloggio. Cosí, ad esempio, un abitante di questa città, a quanto m’hanno raccontato, avendo ottenuto un appartamento di tre stanze sullo Zemljanoj Val, senza quinta dimensione e altre cose che fanno perdere la tramontana, lo trasformò all’istante in uno di quattro stanze, dividendo a metà uno dei vani mediante un tramezzo.

— Dopo di che lo scambiò con due appartamenti singoli in due diversi rioni di Mosca: uno di tre e l’altro di due stanze. Ammetterà che cosí erano diventate cinque. Quello di tre stanze lo barattò con due singoli di due stanze l’uno e divenne proprietario, come lei stessa vede, di sei stanze, sparpagliate in gran disordine, a dire il vero, per tutta Mosca. Era già sul punto di effettuare il passaggio piú brillante, avendo inserito sul giornale l’annunzio che cambiava sei stanze in vari rioni di Mosca con un unico appartamento di cinque stanze sullo Zemljanoj Val, allorché, per motivi indipendenti da lui, la sua attività ebbe termine. Può darsi che attualmente egli abbia una stanza da qualche parte, ma non a Mosca, questo glielo posso assicurare. Quello sí era un furbo di tre cotte, signora, e lei mi viene a parlare della quinta dimensione!

Benché non avesse affatto parlato della quinta dimensione, ma ne avesse parlato soltanto Korov’ev, Margherita scoppiò a ridere di gusto dopo aver ascoltato il racconto delle vicende del furbo procacciatore di alloggi. Ma Korov’ev proseguí:

— Ma veniamo al punto, veniamo al punto, Margherita Nikolaevna. Lei è una donna molto intelligente e avrà certo già intuito chi sia il nostro padrone di casa.

Il cuore di Margherita batté forte, ed essa assentí col capo.

— Dunque, signora, dunque, — veniva dicendo Korov’ev, — noi siamo nemici di tutte le reticenze e di tutti i misteri. Ogni anno Messere dà un ballo. Si chiama ballo del plenilunio di primavera, o ballo dei cento re. La gente che ci viene!… — a questo punto Korov’ev si afferrò la guancia come se un dente cominciasse a dolergli. — Del resto spero che se ne convincerà lei stessa. Dunque, Messere è scapolo, come anche lei, naturalmente, avrà capito. Ma ci vuole una padrona di casa, — Korov’ev allargò le braccia, — ammetterà anche lei che senza padrona di casa…

Margherita ascoltava Korov’ev, cercando di non perdere una parola, sentiva freddo al cuore, la speranza della felicità le faceva girare la testa.

— È invalsa la tradizione, — proseguiva intanto Korov’ev — secondo cui colei che fa gli onori di casa deve assolutamente portare il nome di Margherita, questo in primo luogo, e in secondo luogo che essa deve essere nativa del posto. A Mosca abbiamo scoperto ben centoventun Margherite, e, ci crede? — Korov’ev si batté la coscia con un gesto di disperazione, — non ce n’è una che sia adatta! E, alla fine, per un caso felice…

Korov’ev sogghignò espressivamente, inclinando il corpo, e di nuovo Margherita sentí freddo al cuore.

— In poche parole! — gridò Korov’ev. — In pochissime parole: lei non rifiuterà di adempiere questi obblighi?

— No, non rifiuterò, — rispose con fermezza Margherita.

— Basta cosí, — disse Korov’ev e, alzando la piccola lucerna, soggiunse: — La prego di seguirmi.

Passarono in mezzo a colonne e penetrarono in un’altra sala dove, chi sa perché, c’era un forte odore di limoni, dove si sentivano dei fruscii e dove qualcosa sfiorò la testa di Margherita. Essa trasalí.

— Non si spaventi, — la rassicurò soavemente Korov’ev prendendo a braccetto Margherita, — si tratta di ingegnosi artifizi inventati da Behemoth per il ballo, e nient’altro. E, in genere, Margherita Nikolaevna, mi prendo la libertà di consigliarle di non aver mai paura di nulla. Sarà un ballo sfarzoso, questo non glielo nascondo. Vedremo dei personaggi che, ai loro tempi, godettero di grandissimo potere. Ma in verità, se si pensa come fossero microscopiche le loro possibilità in confronto con quelle di colui al cui seguito ho l’onore di appartenere, viene da ridere, anzi, direi quasi da piangere… E inoltre lei stessa è di sangue reale.

— Di sangue reale? E perché? — sussurrò Margherita, spaventata, stringendosi a Korov’ev.

— Ah, regina, — esclamò giocosamente il garrulo Korov’ev, — le questioni piú complicate del mondo sono appunto quelle del sangue! E se s’interrogasse qualche bisnonna, specialmente di quelle che godevano fama di santarelline, si scoprirebbero dei segreti sbalorditivi, egregia Margherita Nikolaevna! Non peccherei contro la verità se, a questo proposito, accennassi a un mazzo di carte bizzarramente mescolato. Vi sono cose contro le quali sono del tutto inefficaci le barriere fra le caste e perfino le frontiere fra gli stati. Tanto per dirne una: una regina di Francia, vissuta nel secolo decimosesto si sarebbe, credo, assai stupita se qualcuno le avesse detto che molti e molti anni dopo, a Mosca, avrei condotto a braccetto per le sale da ballo una sua incantevole bis-bis-bis-bisnipotina. Ma eccoci arrivati!

A questo punto Korov’ev spense la sua lucerna, essa gli svaní dalle mani e Margherita vide sul pavimento davanti a lei una striscia di luce sotto una porta scura. E a questa porta Korov’ev bussò sommessamente. Allora Margherita fu presa da un tale orgasmo che cominciò a battere i denti e un brivido le percorse la schiena.

La porta s’aprí. Apparve una stanza tutt’altro che spaziosa. Margherita scorse un vasto letto di rovere con lenzuola e guanciali sudici, sgualciti e scompigliati. Davanti al letto c’era un tavolino di rovere con le gambe scolpite, sul quale era collocato un candelabro dai boccioli a forma di grinfie d’uccello. In queste sette grinfie dorate ardevano grosse candele di cera. Inoltre, sul tavolino c’era una grande scacchiera con pezzi di squisita fattura. Su un piccolo, logoro tappetuccio c’era un panchettino basso. C’era per di piú un altro tavolo con una coppa dorata e un altro candelabro i cui bracci erano a forma di serpenti. La stanza odorava di zolfo e di catrame. Le ombre dei lumi s’intrecciavano sul pavimento.

Fra gli astanti Margherita riconobbe subito Azazello che aveva già indossato la marsina e stava in piedi al capezzale del letto. Azazello, tutto azzimato, non assomigliava piú al malandrino sotto il cui aspetto s’era presentato a Margherita nel giardino Aleksandrovskij, ed egli le s’inchinò con straordinaria galanteria.

Una strega ignuda, quella stessa Hella che aveva tanto turbato il rispettabile barista del Variété e — ohimè! — quella stessa che, molto fortunatamente, era stata spaventata dal gallo nella notte della famosa rappresentazione, sedeva in terra sul tappetuccio, rimescolando qualcosa in una casseruola dalla quale uscivano vortici di vapore sulfureo.

Oltre a questi due c’era nella stanza, seduto su un alto sgabello davanti al tavolino con la scacchiera, un gattone nero di spropositata grandezza, che teneva nella zampa destra il cavallo degli scacchi.

Hella si alzò e s’inchinò a Margherita. Lo stesso fece anche il gatto, balzato giú dallo sgabello. Per strisciare in terra la zampa anteriore destra, egli lasciò cadere il cavallo e s’infilò sotto il letto per cercarlo.

Raggelata dalla paura, Margherita distinse alla meglio tutto questo tra le ombre insidiose delle candele. Il suo sguardo era attratto dal letto, sul quale sedeva colui al quale, cosí poco tempo prima, nei Patriaršie, il povero Ivan aveva cercato di dimostrare che il diavolo non esiste. Ed era per l’appunto questo inesistente che sedeva sul letto. Due occhi si affissarono sul volto di Margherita. Il destro con una scintilla dorata nel fondo, che avrebbe penetrato fin nell’intimo qualsiasi anima, il sinistro vuoto e nero, una specie di stretta cruna angolare, un orifizio nel pozzo senza fondo di tutte le tenebre e di tutte le ombre. La faccia di Woland era storta da un lato, l’angolo destro della bocca tirato in giú, sulla fronte alta e stempiata erano incise rughe profonde parallele alle sopracciglia appuntite. La pelle del viso di Woland era come se un sole ardente l’avesse abbronzata per sempre. Woland stava largo sdraiato sul letto, indossava un lungo camicione da notte, sporco e con una toppa sulla spalla sinistra. Teneva una gamba nuda ripiegata sotto di sé, l’altra distesa sul panchettino. Ed era per l’appunto il ginocchio di questa gamba scura che Hella stava frizionando con un unguento fumigante. Margherita distinse anche sul petto scoperto e glabro di Woland uno scarabeo artisticamente intagliato in una pietra scura, appeso a una catenella d’oro e con geroglifici sul piccolo dorso. A fianco di Woland, sopra un pesante piedistallo, poggiava un globo strano, che sembrava vivo, illuminato dal sole da un lato soltanto.

Il silenzio si protrasse per alcuni secondi. «Mi sta studiando», pensò Margherita e, con uno sforzo di volontà tentava di frenare il tremito delle gambe.

Finalmente Woland prese a parlare, sorridendo, e sembrò che questo sorriso facesse sfolgorare il suo occhio sfavillante.

— Le do il benvenuto, regina, e la prego di scusare il mio abbigliamento da casa.

La voce di Woland era cosí bassa che in certe sillabe tendeva a diventare un rantolo.

Woland prese dal letto una lunga spada, si chinò, la strusciò sotto il letto e disse:

— Vieni fuori! La partita è rinviata. E arrivata una visita.

— Per nulla al mondo, — suggerí in un sibilo all’orecchio di Margherita l’allarmato Korov’ev.

— Per nulla al mondo… — cominciò Margherita.

— Messere… — le soffiò Korov’ev nell’orecchio.

— Per nulla al mondo, Messere, — riacquistato il dominio di sé, rispose Margherita a voce bassa ma chiara e, sorridendo, aggiunse: — La supplico di non interrompere la partita. Credo che le riviste di scacchistica pagherebbero fior di quattrini se avessero la possibilità di pubblicarla.

Azazello gracchiò sommessamente in segno d’approvazione, e Woland, dopo aver esaminato con attenzione Margherita, osservò come parlando fra sé:- Sí, ha ragione Korov’ev. Come si mescola bizzarramente il mazzo di carte! Eh, il sangue!

Egli allungò la mano e le fece cenno d’accostarsi. Ella obbedí, senza sentire il pavimento sotto i piedi nudi. Woland posò sulla spalla di Margherita la sua mano pesante come fosse di pietra e al tempo stesso ardente come il fuoco, la trasse a sé e la fece sedere al suo fianco sul letto.

— Be’, visto che lei è d’una gentilezza cosí incantevole, — disse, — e del resto non m’aspettavo nient’altro, non facciamo piú complimenti — . Si chinò di nuovo sulla sponda del letto e gridò: — Per quanto tempo ancora continuerà questa farsa sotto il letto? Vieni fuori, maledetto stupido!

— Non riesco a trovare il cavallo, — rispose il gatto di sotto il letto, con voce soffocata e stonata, — è galoppato chi sa dove, e in sua vece ho trovato una ranocchia.

— Non ti figurerai mica d’esser sulla piazza della fiera? — chiese Woland, fingendosi adirato. — Non c’era nessuna ranocchia sotto il letto! Smettila con quei facili trucchi da Variété. Se non vieni fuori subito, noi faremo conto che ti sei arreso, maledetto disertore!

— Nemmeno per sogno, Messere! — urlò il gatto e nell’attimo stesso sbucò di sotto al letto, tenendo il cavallo nella zampa.

— Le presento… — cominciò Woland, e s’interruppe: — No, non lo posso vedere questo buffone! Guardate un po’ come s’è conciato sotto il letto!

Il gatto, nel frattempo, ritto sulle zampe posteriori e tutto impolverato, s’inchinava davanti a Margherita. Adesso aveva al collo una cravatta bianca da marsina, e sul petto un binocolo di madreperla da signora, appeso a un cinghietto. Inoltre i suoi baffi erano dorati.

— Ma cos’è questo? — esclamò Woland. — Perché ti sei indorato i baffi? E a che diavolo ti serve la cravatta, se non porti i calzoni?

— I calzoni non si addicono a un gatto, Messere, — rispose il gatto con gran sussiego. — Non pretenderà mica che mi metta anche gli stivali? Soltanto nelle fiabe s’incontra un gatto con gli stivali, Messere. Ma ha mai visto a un ballo qualcuno senza cravatta? Non intendo trovarmi in una situazione comica e correre il rischio d’esser messo alla porta! Ognuno si adorna come può. Faccia conto che quanto ho detto si riferisca anche al binocolo, Messere!

— Ma i baffi?

— Non capisco, — ribatté seccamente il gatto, — perché, facendosi la barba oggi, Azazello e Korov’ev hanno potuto cospargersi di cipria bianca, e in che cosa essa sia meglio di quella dorata! Mi sono incipriato i baffi ecco tutto! Se me li fossi rasati, sarebbe un altro discorso. Un gatto rasato è effettivamente uno sconcio. Ma in generale, — e la voce del gatto tremò di stizza, — m’accorgo che nei miei riguardi si ricorre a certi cavilli e m’accorgo d’esser di fronte a un grave problema: devo andare al ballo? Che cosa mi dice in merito, Messere?

E dal dispetto il gatto si gonfiò tanto che sembrava dovesse scoppiare da un momento all’altro.

— Ah, furfante, furfante! — disse Woland, tentennando il capo. — Ogni volta che la sua parte è in una situazione disperata, lui cerca di darla a intendere, tal e quale come l’ultimo dei ciarlatani sul palco! Siedi immediatamente e smettila con queste fesserie!

— Ora mi siedo, — rispose il gatto sedendosi, — ma sollevo un’obiezione contro quel che ha affermato per ultimo. I miei discorsi non sono affatto fesserie, come lei si è espresso in presenza di una signora, ma una catena di ben condizionati sillogismi che verrebbero degnamente apprezzati da conoscitori come Sesto Empirico, Marziano Capella, se non addirittura dallo stesso Aristotele.

— Scacco al re, — disse Woland.

— Prego, prego, — rispose il gatto, e si mise a guardare col binocolo la scacchiera.

— Dunque, — disse Woland, rivolto a Margherita, — le presento il mio seguito, Donna. Questo qui, che fa lo scemo, è il gatto Behemoth. Azazello e Korov’ev li conosce già, le presento la mia domestica Hella: è svelta, intelligente, e non c’è servizio che essa non sia in grado di rendere.

La bella Hella sorrideva, volgendo verso Margherita gli occhi dai riflessi verdi, senza per questo cessare d’attingere unguento nel cavo della mano e di spalmarlo sul ginocchio di Woland.

— Questo è tutto, — concluse Woland, e fece una smorfia quando Hella gli strinse ancora piú forte il ginocchio. La compagnia come vede, è piccola, mista e senza malizia — . Tacque e si mise a far girare davanti a sé il suo globo, fatto con tanta arte che su di esso gli oceani azzurri si movevano lievemente e la calotta stava sul polo come un vero e proprio berretto, di ghiaccio e di neve. Sulla scacchiera, intanto, regnava lo scompiglio. Del tutto sconcertato, il re dal bianco manto scalpicciava nella sua casa, alzando le braccia per la disperazione. Tre bianchi pedoni-lanzichenecchi, con le alabarde, guardavano sgomenti un ufficiale che brandiva la sciabola e indicava un punto davanti a loro dove in due case contigue, una bianca e una nera, si vedevano i cavalieri neri di Woland, su due cavalli focosi che scavavano le case con gli zoccoli.

Margherita fu estremamente interessata e colpita dal fatto che i pezzi del gioco fossero vivi.

Il gatto allontanò il binocolo dagli occhi e diede al suo re una spintarella nella schiena. Costui, disperato, si nascose il viso fra le mani.

— Andiamo maluccio, caro Behemoth, — disse piano Korov’ev, con voce maligna.

— La situazione è grave, ma tutt’altro che disperata, replicò Behemoth, — anzi, dirò di piú: sono pienamente sicuro della vittoria finale. Basta analizzare ben bene la situazione.

E cominciò a eseguire quest’analisi in modo piuttosto strano, Sl mise cioè a fare certe smorfie e ad ammiccare al suo re.

— Non serve a niente, — osservò Korov’ev.

— Ahi! — gridò Behemoth, — i pappagalli sono volati via, come avevo predetto!

Infatti, da un punto lontano giunse un frusciare di numerose ali. Korov’ev e Azazello uscirono a precipizio dalla stanza.

— Il diavolo vi porti, voi e le vostre strambe invenzioni per il ballo, — bofonchiò Woland senza staccare gli occhi dal suo globo.

Non appena Korov’ev e Azazello furono scomparsi, Behemoth intensificò il suo ammiccare. Il re bianco, alla fine, indovinò quel che si voleva da lui. Improvvisamente si tolse il manto, lo gettò sulla casa e scappò via dalla scacchiera. L’ufficiale si buttò sulle spalle il regale indumento e prese il posto del re.

Ritornarono Korov’ev e Azazello.

— Bugie, come al solito, — brontolò Azazello, guardando di sbieco Behemoth.

— M’era parso di sentire, — rispose il gatto.

— Be’, dico, durerà ancora molto questa storia? — chiese Woland. — Scacco al re.

— Probabilmente ho sentito male, maestro, — rispose il gatto, — lo scacco al re non c’è né ci può essere.

— Scacco al re, ripeto.

— Messere, — replicò il gatto con voce falsamente preoccupata, — lei si è sovraffaticato, non c’è scacco al re!

— Il re è nella casa G 2, — disse Woland, senza guardare la scacchiera.

— Messere, sono atterrito! — gemette il gatto, atteggiando il viso allo spavento, — su quella casa non c’è il re!

— Cosa? — chiese Woland, perplesso, e guardò la scacchiera, dove l’ufficiale che stava sulla casa del re s’era voltato dall’altra parte, coprendosi col braccio.

— Ah, furfante, — disse Woland, pensoso.

— Messere! Faccio di nuovo appello alla logica! — prese a dire il gatto, stringendosi le zampe al petto. — Quando un giocatore dichiara scacco al re mentre sulla scacchiera non c’è piú traccia di re, lo scacco è inesistente.

— Ti arrendi o no? — gridò Woland con voce terribile.

— Mi permetta di pensarci un poco, — rispose umilmente il gatto; appoggiò i gomiti sulla tavola, nascose i baffi tra le zampe e cominciò a pensare. Pensò a lungo, e alla fine disse: — Mi arrendo.

— Bisognerebbe ammazzarla, quella bestia cocciuta, sussurrò Azazello.

— Sí, mi arrendo, — disse il gatto, — ma mi arrendo unicamente perché non posso giocare in un’atmosfera in cui mi sento braccato dagli invidiosi! — Si alzò e i pezzi del gioco scomparvero nel cassetto.

— Hella, è ora, — disse Woland, e Hella sparí dalla stanza. — Ho un gran male alla gamba, ma con quel ballo… continuò Woland.

— Mi permetta, — pregò Margherita sottovoce Woland la guardò fisso e avvicinò il ginocchio a lei.

Bollente come lava, l’unguento bruciava le mani, ma Margherita, senza batter ciglio e studiandosi di non far male, frizionò con esso il ginocchio.

— I miei favoriti affermano che si tratta di reumatismo — diceva intanto Woland, senza staccare gli occhi da Margherita, — ma sospetto fortemente che questo male al ginocchio me l’abbia lasciato per ricordo una incantevole strega che conobbi da vicino nel 1571 sul monte Brocken sulla Cattedra del Diavolo.

— Ah, è mai possibile? — disse Margherita.

— Sciocchezze! Fra trecento anni passerà! M’hanno consigliato un mucchio di medicine, ma io, da uomo all’antica, mi attengo ai rimedi della nonna. Che erbe formidabili ha lasciato in eredità quella lurida vecchia di mia nonna! A proposito, dica, non soffre mica di qualcosa? Non ha per caso qualche dispiacere, qualche tristezza che le avvelena l’anima?

— No, Messere, non ho niente di tutto questo, — rispose l’accorta Margherita, — adesso, poi, da quando sono vicino a lei, mi sento benissimo.

— È una gran cosa, il sangue… — disse allegramente Woland, non si sa a che proposito, e soggiunse: — Vedo che il mio globo l’interessa?

— Oh, sí, non ho mai visto un oggettino come quello.

— È un bell’oggettino. A me, per esser sinceri, non piacciono le ultime notizie per radio. Vengono sempre date da ragazze che non pronunziano chiaramente i nomi delle località. Inoltre, su tre ce n’è sempre una un po’ balbuziente, come se le scegliessero a bella posta. Il mio globo è assai piú comodo, tanto piú che ho bisogno di conoscere esattamente gli avvenimenti. Ecco, per esempio, lo vede quel pezzetto di terra, un lato del quale è bagnato dall’oceano? Guardi, si sta riempiendo di fuoco. Laggiú è cominciata una guerra. Se accosta gli occhi, vedrà anche i particolari.

Margherita si chinò verso il globo e vide che il quadratino di terra s’era allargato, coperto di segni multicolori e s’era trasformato in una specie di carta geografica a rilievo. Poi essa scorse anche un fiume, come un nastrino, e vicino ad esso un villaggio. Una casetta, delle dimensioni di un pisellino, crebbe sino a diventare grossa come una scatola di fiammiferi. Improvvisamente e senza alcun rumore, il tetto di questa casa volò in aria insieme con un nembo di fumo nero, i muri crollarono, cosicché della scatoletta a due piani non rimase altro che un mucchietto dal quale uscivano vortici di fumo nero. Avvicinando ancor piú l’occhio, Margherita distinse una piccola figurina di donna che giaceva in terra e accanto a lei, in una pozza di sangue, un bimbetto che agitava le braccia.

— Ecco fatto, — disse sorridendo Woland, — non ha avuto il tempo di peccare. Il lavoro di Abadonna è sempre irreprensibile.

— Non vorrei esser dalla parte contro la quale è quell’Abadonna, — disse Margherita. — Da che parte è?

— Quanto piú parlo con lei, — rispose amabilmente Woland, — tanto piú mi convinco che è molto intelligente. La rassicurerò. Egli è d’una rara imparzialità e simpatizza ugualmente con le due parti belligeranti. Di conseguenza, anche i risultati sono sempre uguali per le due parti. Abadonna! — chiamò Woland senza alzar la voce, e subito dalla parete sbucò la sagoma d’un uomo magro con gli occhiali scuri. Questi occhiali produssero su Margherita un’impressione cosí forte, che con un piccolo grido essa nascose il viso contro la gamba di Woland.

— Ma la smetta! — gridò Woland. — Com’è nervosa la gente oggigiorno! — E alzato il braccio, assestò un colpo tale sulla schiena di Margherita che essa lo sentí rimbombare in tutto il corpo. — Vede bene che ha gli occhiali. Inoltre non s’è mai dato il caso, né si darà mai che egli sia apparso prematuramente davanti a qualcuno. E da ultimo, io sono qui. Lei è in visita da me Volevo semplicemente mostrarglielo.

Abadonna stava immobile.

— Non potrebbe togliersi gli occhiali per un attimo? domandò Margherita, stringendosi a Woland e trasalendo ma solo piú di curiosità.

— No, questo non è possibile, — rispose gravemente Woland; fece segno ad Abadonna di andarsene, ed egli scomparve. — Che vuoi dire, Azazello?

— Messere, — rispose Azazello, — mi permetta di dire che in casa nostra ci sono due estranei: una bella ragazza che piagnucola e supplica che la lascino rimanere con la sua signora, e inoltre, con licenza parlando, c’è con lei il suo verro.

— Si comportano in modo strano, le belle ragazze! — osservò Woland.

— E Nataša, Nataša! — esclamò Margherita.

— Be’, rimanga con la sua signora. Ma, in quanto al verro, sia mandato dai cuochi.

— Perché lo scannino? — gridò Margherita, spaventata. — Per carità, Messere, è Nikolaj Ivanovič, l’inquilino del piano di sotto. Vede, c’è stato un equivoco, Nataša l’ha spalmato di crema…

— Ma permetta, — disse Woland, — perché diavolo e chi dovrebbe scannarlo? Stia un po’ insieme con i cuochi, e basta. Ammetterà che non posso mica lasciarlo entrare nella sala da ballo.

— Già, questo poi… — soggiunse Azazello, e annunziò: La mezzanotte s’avvicina, Messere.

— Ah, bene — . Woland si rivolse a Margherita: — La prego dunque… La ringrazio in anticipo. Non si smarrisca e non abbia paura di nulla. Non beva nulla, salvo acqua, se no s’infiacchirà e non ce la farà piú. È ora!

Margherita si alzò dal tappetino e allora Korov’ev apparve nel vano della porta.




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