CAPITOLO QUATTORDICESIMO Gloria al gallo!



I nervi non resistettero piú, come si suol dire, e Rimskij scappò nel suo ufficio senza aspettare che finissero di stendere il verbale. Sedeva alla scrivania e guardava con occhi infiammati i rubli magici che gli giacevano davanti. Il direttore finanziario aveva perso la bussola. Dal di fuori giungeva un rombo monotono. Il pubblico si riversava a torrenti sulla strada dal Teatro di Varietà. All’orecchio di Rimskij che si era fatto acuto all’estremo, a un tratto giunse il trillo netto di un poliziotto. Già questo non promette mai nulla di buono. Ma quando esso si ripeté, e fu sostenuto da un altro, piú imperioso e prolungato, e poi si aggiunsero delle risate sgangherate ben distinguibili e perfino una specie di ululato, il direttore finanziario comprese subito che in strada era successo qualcos’altro di lurido e scandaloso. E che questo, per quanto lo si volesse sorvolare, era in strettissimo rapporto con la disgustosa rappresentazione data dal mago e dai suoi aiutanti.

Il sensibile direttore finanziario non si era affatto sbagliato. Non appena diede un’occhiata dalla finestra che dava sulla Sadovaja, il volto gli si storse, ed egli non sussurrò, ma sibilò:

— Lo sapevo!

Sul marciapiede, sotto di sé, alla chiara luce dei fortissimi lampioni, vide una signora in sottoveste e mutande viola. È vero che in testa la signora aveva un cappellino, e in mano un ombrello. Attorno alla signora, che si trovava in uno stato di assoluta costernazione e ora si accoccolava, ora tentava di scappare, si agitava una folla da cui provenivano le risate che avevano fatto correre un brivido per la schiena del direttore finanziario. Vicino alla signora si dimenava un tale che cercava di strapparsi di dosso il soprabito e che per l’agitazione non riusciva a liberare il braccio, impigliatosi nella manica.

Urla e risate scroscianti giunsero anche da un altro punto, e precisamente dall’ingresso di sinistra; voltando la testa in quella direzione, Grigorij Danilovič vide un’altra signora, in un completo di biancheria celeste. Quella era balzata dal selciato sul marciapiede per ripararsi nel portone del teatro, ma il pubblico che ne defluiva le sbarrava la strada, e la poverina, vittima della sua frivolezza e della sua passione per i bei vestiti, ingannata dalla ditta dell’immondo Fagotto, sognava una sola cosa: sprofondare sotto terra. Un poliziotto si dirigeva verso l’infelice forando l’aria col suo fischio, e dietro il poliziotto si precipitarono degli allegri giovanotti col berretto a visiera. Erano stati loro a emettere quelle risate e quegli ululati.

Un magro vetturino baffuto arrivò di volo presso la prima donna svestita e arrestò di colpo l’ossuto e sfinito cavallo. Il volto del baffone ghignava di gioia.

Rimskij si diede un pugno in testa, sputò e balzò via dalla finestra. Rimase per un po’ seduto presso la scrivania, ascoltando i rumori che provenivano dalla via. In vari punti, i fischi raggiunsero un massimo d’intensità, poi scemarono. Con sua sorpresa, lo scandalo fu liquidato con inaspettata rapidità.

Era giunto il momento di agire, occorreva vuotare l’amaro calice della responsabilità. Gli apparecchi telefonici erano stati riparati durante la terza parte dello spettacolo, bisognava telefonare, comunicare quanto era accaduto, chiedere aiuto, raccontar storie per scagionarsi, buttare la colpa di tutto su Lichodeev, metter fuori causa se stesso e cosí via. Corpo del diavolo!

Per due volte, lo scombussolato direttore pose la mano sul ricevitore e per due volte la tolse. All’improvviso, nel morto silenzio dell’ufficio, fu l’apparecchio stesso a prorompere in uno squillo in faccia al direttore, che sussultò e si sentí gelare. «Ho i nervi a pezzi!» pensò staccando il ricevitore. Se ne scostò immediatamente e diventò piú bianco di un foglio di carta. Una voce femminile sommessa, ma nello stesso tempo insinuante e lasciva, aveva sussurrato:

— Non telefonare, Rimskij, saranno guai…

Subito dopo il ricevitore tacque come morto. Sentendo un formicolio nella schiena, il direttore finanziario lo posò e diede un’occhiata alla finestra che si trovava alle sue spalle. Attraverso i rami dell’acero, radi e appena coperti di verde, vide la luna che correva in una nuvoletta diafana. Con lo sguardo fisso, Rimskij guardava i rami, e piú li guardava, piú forte lo afferrava la paura.

Facendo uno sforzo su se stesso, si distolse finalmente dalla finestra rischiarata dalla luna e si alzò. Neanche da pensarci, oramai, a telefonare: l’unico suo pensiero era di lasciare al piú presto il teatro.

Tese l’orecchio: l’intero edificio taceva. Rimskij capí che da tempo era rimasto solo al primo piano, e a questo pensiero un terrore infantile e insormontabile s’impadroní di lui. Non poteva pensare senza fremere, che gli sarebbe toccato attraversare da solo i corridoi deserti e scendere le scale. Con un gesto febbrile, afferrò dal tavolo le banconote dell’ipnotizzatore, le nascose nella cartella e tossí per darsi almeno un briciolo di coraggio. Il colpo di tosse riuscí debole e rauco.

Gli sembrò ora che da sotto la porta dell’ufficio giungesse all’improvviso un umido miasma. Un brivido corse per la sua schiena. Per di piú, l’orologio prese inaspettatamente a suonare e batté la mezzanotte. Perfino questo rintocco gli mise addosso un tremito. Ma il cuore gli s’arrestò definitivamente quando udí la chiave girare adagio adagio nella toppa della serratura di sicurezza. Avvinghiando la cartella con mani umide e fredde, il direttore finanziario sentí che se quel fruscio nella serratura fosse continuato ancora un attimo, non avrebbe resistito e si sarebbe messo a urlare.

Finalmente la porta cedette agli sforzi, si spalancò, e nell’ufficio entrò silenziosamente Varenucha. Rimskij cadde a sedere sulla poltrona perché gli si piegarono le gambe. Aspirò aria nel petto, fece un sorriso che aveva un che di servile e proferí piano:

— Dio, come mi hai spaventato…

Sí, quell’apparizione improvvisa avrebbe potuto spaventare chiunque, e tuttavia era, al tempo stesso, una grande gioia: era spuntato almeno un capo di quell’imbrogliata matassa.

— Su, di’ presto! Su! Su! — rantolò Rimskij afferrando quel filo. — Che significa tutta questa storia?

— Scusami, per favore, — disse con voce sorda il nuovo venuto, chiudendo la porta. — Credevo tu fossi già andato via.

E, senza togliersi il berretto, Varenucha si avvicinò alla poltrona e sedette dall’altra parte della scrivania.

Bisogna dire che nella risposta di Varenucha s’intuiva una leggera stranezza che punse subito il direttore finanziario, la cui sensibilità non temeva il confronto con i sismografi dei piú moderni centri scientifici del mondo. Come sarebbe a dire? Perché Varenucha era venuto nell’ufficio del direttore finanziario se supponeva che lo stesso non ci fosse? Anzitutto, aveva un ufficio suo. In secondo luogo, da qualsiasi ingresso Varenucha fosse entrato in teatro, avrebbe dovuto inevitabilmente incontrare uno degli inservienti notturni ai quali era stato detto che Grigorij Danilovič si sarebbe trattenuto per un po’ di tempo nel suo ufficio. Ma il direttore finanziario non stette a riflettere a lungo su questa stranezza: aveva ben altro per la testa.

— Perché non hai telefonato? Che significa tutto quel pasticcio con Jalta?

— Be’, è come te lo dicevo io, — rispose l’amministratore, facendo schioccare la bocca come se tormentasse un dente cariato. — L’hanno trovato in una trattoria di Puškino.

— Di Puškino?! Quello vicino a Mosca! E i telegrammi da Jalta?

— Che Jalta d’Egitto! Ha fatto bere il telegrafista di Puškino, e si sono messi a fare gli stupidi: tra l’altro a mandare telegrammi con «Jalta» come luogo di spedizione.

— Aha, aha… bene, bene… — non disse ma cantilenò Rimskij. I suoi occhi si accesero di una luce giallina. Nella sua testa si compose il quadro festoso della vergognosa destituzione di Stepa. Liberazione! La tanto attesa liberazione di Rimskij da quel malanno che era Lichodeev! E magari a Stepan Bogdanovič sarebbe toccato qualcosa di peggio di una destituzione… — I particolari! — chiese Rimskij, picchiando il fermacarte sul tavolo.

Varenucha cominciò a raccontare i particolari. Non appena era giunto nel luogo dove lo aveva inviato il direttore finanziario, era stato immediatamente ricevuto e ascoltato con la piú viva attenzione. Nessuno, s’intende, voleva nemmeno prendere in considerazione la possibilità che Stepa fosse a Jalta. Tutti avevano accolto subito il suggerimento di Varenucha che Lichodeev doveva naturalmente trovarsi al Jalta di Puškino.

— Dov’è adesso? — Lo interruppe l’emozionato direttore.

— Dove vuoi che sia? — rispose l’amministratore con un sorriso forzato. — In guardina a smaltire la sbornia, per forza!

— Accidenti! questa sí che è bella!

Varenucha continuò il suo racconto, e piú raccontava, piú vistosa si svolgeva davanti agli occhi del direttore finanziario la catena lunghissima delle villanate e delle indecenze commesse da Lichodeev, e ogni anello di questa catena era peggiore del precedente. Anche solo la danza ebbra, abbracciato al telegrafista, sull’aiuola davanti all’ufficio telegrafico di Puškino al suono di un organetto vagabondo! L’inseguimento di certe signore che strillavano dallo spavento! La tentata rissa col barista del Jalta! Le cipolline verdi sparse sul pavimento nella stessa trattoria. La rottura di otto bottiglie di Aj-Danil’ bianco secco. Lo sconquasso del tassametro di un tassí, il cui autista non voleva cedere la macchina a Stepa. La minaccia di arrestare le persone che cercavano di porre fine alle porcherie di Stepa… Insomma, roba da far rizzare i capelli!

Stepa era ben noto negli ambienti teatrali di Mosca, e tutti sapevano che non era uno stinco di santo. Però quello che di lui raccontava l’amministratore era troppo perfino per Stepa. Sí, troppo, troppissimo…

Gli occhi pungenti di Rimskij trafiggevano, al di sopra della scrivania, il volto dell’amministratore, e piú questi parlava, piú quegli occhi s’incupivano. Piú diventavano vivi e coloriti gli ignominiosi particolari di cui l’amministratore infiorava la sua narrazione, meno il direttore finanziario prestava fede al narratore. Quando poi Varenucha comunicò che Stepa era giunto al punto di opporre resistenza a quelli che erano arrivati per riportarlo a Mosca, il direttore finanziario sapeva fermamente che tutto ciò che gli stava raccontando l’amministratore tornato a mezzanotte era una menzogna! Menzogna dalla prima all’ultima parola!

Varenucha non era andato a Puškino, e neanche Stepa vi era stato. Non esisteva il telegrafista ubriaco, non erano stati rotti i vetri della trattoria. Stepa non era stato legato con delle corde… Niente di tutto questo era avvenuto.

Non appena il direttore finanziario si convinse che l’amministratore gli mentiva, la paura strisciò lungo il suo corpo cominciando dai piedi, e di nuovo gli parve, per due volte, di sentire passare per terra un umido miasma malarico. Senza distogliere per un solo istante gli occhi dall’amministratore, che si torceva stranamente nella poltrona, tentando per tutto il tempo di non uscire dall’ombra azzurrognola della lampada da tavolo, e riparandosi curiosamente con un giornale dalla luce che (affermava) gli dava fastidio, il direttore finanziario pensava a una cosa sola: che significato poteva avere tutta quella storia? Perché, nel deserto e silente edificio, gli mentiva cosí spudoratamente l’amministratore, tornato troppo tardi? La consapevolezza di un pericolo, di un pericolo sconosciuto ma terribile, cominciò a struggere l’animo di Rimskij. Facendo finta di non accorgersi dei contorcimenti di Varenucha e dei suoi trucchi col giornale, il direttore scrutava il suo viso quasi senza piú ascoltare le sue panzane. C’era qualcosa che gli pareva ancora piú inspiegabile del racconto calunnioso, inventato non si sapeva perché, delle avventure di Puškino, e quel qualcosa era un cambiamento nell’aspetto e nei modi dell’amministratore.

Per quanto tirasse sugli occhi la visiera a punta del berretto per tenere in ombra il viso, per quanto si contorcesse col foglio di giornale, il direttore finanziario riuscí a intravedere un enorme livido sul lato destro della faccia, vicino al naso. Inoltre, l’amministratore, solitamente molto colorito, era pallido, di un pallore morboso di gesso, e, nonostante la notte afosa, il suo collo era avvolto da una vecchia sciarpa a righe. Se si aggiunge la ripugnante abitudine, che gli era venuta durante l’assenza, di succhiare e schioccare la bocca, il brusco cambiamento della sua voce, divenuta rozza e sorda, l’espressione furtiva e vigliacca degli occhi, si poteva senz’altro dire che Ivan Savel’evic Varenucha era diventato irriconoscibile.

Qualcosa preoccupava in modo ancora piú bruciante il direttore, però che cosa fosse non riusciva a capirlo per quanto si sforzasse il cervello infiammato e per quanto fissasse Varenucha. Poteva affermare una cosa sola: c’era qualcosa di straordinario e d’innaturale in quel congiungimento dell’amministratore con la ben nota poltrona.

— Be’, alla fine hanno avuto la meglio e l’hanno caricato in macchina, — ronzava Varenucha guardando da dietro il giornale e nascondendo il livido con la palma di una mano.

A un tratto Rimskij tese il braccio e, come se facesse un movimento istintivo, mentre tamburellava con le dita sul tavolo premette con la palma della mano il campanello, e s’irrigidí. Nell’edificio deserto si sarebbe dovuto sentire un secco segnale. Ma il segnale non ci fu e il pulsante affondò senza vita nel piano del tavolo. Il pulsante era morto, il campanello era guasto.

Lo stratagemma del direttore non sfuggí a Varenucha che chiese con un sussulto, mentre nei suoi occhi balenava un chiaro fuoco rabbioso:

— Perché suoni?

— L’ho fatto istintivamente, — rispose con voce sorda il direttore finanziario, ritraendo la mano, e a sua volta chiese con voce vacillante: — che cos’hai alla faccia?

— La macchina ha sbandato, ho urtato contro la maniglia, — rispose Varenucha evitando di guardarlo.

«Mente!» esclamò fra sé il direttore. In quel momento i suoi occhi diventarono tondi e assolutamente folli, ed egli fissò lo schienale della poltrona.

In terra, dietro la poltrona, c’erano due ombre incrociate, una piú densa e piú nera, l’altra debole e grigia. Si riflettevano chiaramente sul pavimento le ombre dello schienale e dei piedi appuntiti della poltrona, ma sopra l’ombra dello schienale mancava l’ombra della testa di Varenucha, cosí come sotto l’ombra dei piedi della poltrona mancava quella delle gambe dell’amministratore.

«Non getta ombra!» urlò tra sé disperato Rimskij. E un tremito lo scosse.

Varenucha guardò furtivamente dietro di sé, seguendo lo sguardo folle di Rimskij oltre lo schienale della poltrona e capí di essere stato scoperto. Si alzò dalla poltrona (cosí pure fece il direttore finanziario) e arretrò di un passo dalla scrivania, stringendo in mano la cartella.

— Hai indovinato, maledetto! Sei sempre stato un dritto, — disse Varenucha con un ghigno cattivo in faccia al direttore, balzò inaspettatamente dalla poltrona verso la porta e rapido spinse in basso il pulsante della serratura di sicurezza. Il direttore guardò disperato dietro di sé, arretrando verso la finestra che dava sul giardino, e in quella finestra inondata di luna vide, pressato contro il vetro il volto di una ragazza nuda e il suo braccio nudo che, infilato nello sportello di aerazione, cercava di spingere il paletto inferiore. Quello superiore era già aperto.

A Rimskij sembrò che la luce della lampada da tavolo si spegnesse e che la scrivania s’inclinasse. Un’ondata gelida lo coprí, ma — per sua fortuna — si dominò e non cadde. Il resto delle sue forze gli bastò per sussurrare, ma non gridare:

— Aiuto…

Varenucha, che stava di guardia alla porta, faceva dei salti, fermandosi a lungo a mezz’aria e ondeggiando. Con le dita adunche faceva dei segni a Rimskij, sibilava e schioccava le labbra, ammiccava alla ragazza alla finestra.

Quella si affrettò, infilò la testa rossa nello sportellino, allungò il braccio piú che poté, cominciò a graffiare il paletto inferiore e a scuotere l’intelaiatura. Il braccio cominciò ad allungarsi come se fosse di gomma e si coprí di macchie verdi cadaveriche. Finalmente, le verdi dita della morta afferrarono la sfera del paletto, la spostarono e la finestra cominciò ad aprirsi. Rimskij gettò un debole grido, si appoggiò al muro e protese la cartella come uno scudo. Capiva che era giunta la sua ultima ora.

La finestra si spalancò, e invece della frescura notturna e dell’aroma dei tigli irruppe nella camera un odore di caritina. La defunta mise un piede sul davanzale. Rimskij vedeva distintamente le macchie di decomposizione sul suo petto.

In quel momento giunse dal giardino il gaio e inatteso chicchirichí di un gallo, dal basso edificio dietro il tirassegno dove erano tenuti i volatili che prendevano parte allo spettacolo. Il tonante gallo ammaestrato gridava per annunciare che verso Mosca da oriente avanzava l’alba.

Una furia selvaggia contorse il volto della ragazza, che lanciò una rauca imprecazione, mentre presso la porta Varenucha sospeso a mezz’aria, strillò e ricadde a terra.

Il chicchirichí del gallo si ripeté, la ragazza batté i denti, e i capelli rossi le si rizzarono sulla testa. Al terzo canto del gallo si voltò e volò via. Imitandola, Varenucha fece un salto e si stese orizzontalmente a mezz’aria, come un cupido in volo, e scivolò lentamente fuori della finestra passando sopra la scrivania.

Con i capelli bianchi come la neve, senza neanche un filo nero, il vecchio che poc’anzi era stato Rimskij corse verso la porta, premette il pulsante, aprí un battente e prese a correre lungo il corridoio buio. All’angolo che dava sulla scala, gemendo di terrore cercò a tastoni l’interruttore, e la scala s’illuminò. Sulla scala, il vecchio tremante e traballante cadde, perché gli era parso che Varenucha gli fosse morbidamente sceso addosso.

Giunto in basso, Rimskij vide l’inserviente di guardia addormentato su una sedia presso la biglietteria dell’ingresso. Gli passò davanti sulla punta dei piedi e scivolò fuori del portone principale. Per strada si riprese un po’. Tornò in sé al punto che, afferrandosi la testa, riuscí a capire di aver dimenticato il cappello nell’ufficio.

S’intende che non tornò a prenderlo ma corse ansimando, attraverso la larga via, verso l’angolo opposto vicino al cinema, presso il quale baluginava una fievole luce rossastra. Un minuto dopo le era accanto. Nessuno gli aveva portato via il tassí.

— Al rapido di Leningrado, le darò la mancia, — disse il vecchio respirando con sforzo e comprimendosi il cuore.

— Vado in rimessa, — rispose con odio il tassista e si girò dall’altra parte.

Rimskij allora aprí la cartella, ne tirò fuori cinquanta rubli e li tese all’autista attraverso il finestrino aperto.

Pochi istanti dopo, la macchina sferragliante volava come un turbine lungo la circonvallazione della Sadovaja. Il passeggero era sbatacchiato sul sedile, e nel frammento di specchietto retrovisivo, Rimskij vedeva ora gli occhi pieni di gioia dell’autista, ora i propri dall’espressione folle.

Balzato fuori dalla macchina davanti alla stazione Rimskij gridò al primo facchino col grembiule bianco e la piastra metallica che incontrò:

— Prima classe, un biglietto, trenta rubli di mancia, — tirava fuori dalla cartella banconote, stropicciandole, — se non c’è la prima, la seconda… se no, la terza!

L’uomo dalla piastra, voltandosi a guardare l’orologio luminoso, strappava le banconote di mano a Rimskij.

Cinque minuti dopo, da sotto la tettoia di vetro della stazione sparí il rapido, dissolvendosi completamente nell’oscurità. Col rapido scomparve anche Rimskij.




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