— Sono invisibile e libera! Sono invisibile e libera!…
Dopo aver volato per un po’ sopra il suo vicolo, Margherita capitò sopra un altro che tagliava il primo ad angolo retto. In un attimo percorse questo vicolo rappezzato, rammendato, storto e lungo, con la porta sghemba della bottega dove vendono il petrolio a quartini e liquido insetticida in bottigliette, e a quel punto realizzò che, pur essendo perfettamente libera e invisibile, doveva però essere un po’ giudiziosa anche nel piacere. Soltanto per essere miracolosamente riuscita a frenarsi, non era andata a sfracellarsi contro il vecchio e storto lampione dell’angolo. Dopo averlo scansato, Margherita strinse piú forte la spazzola e si mise a volare piú lentamente, badando ai fili dell’elettricità e alle insegne appese trasversalmente al marciapiede.
Il terzo vicolo portava diritto all’Arbat. A questo punto Margherita s’era del tutto avvezzata a guidare la spazzola, aveva compreso che essa obbediva al minimo tocco delle mani o dei piedi e che sorvolando la città doveva stare molto attenta e non folleggiare troppo. Inoltre, fin dal vicolo, era apparso ben chiaro che i passanti non vedevano la volatrice. Nessuno alzava il capo, nessuno gridava «guarda, guarda!», nessuno si tirava bruscamente in là, nessuno strillava o sveniva o scoppiava in una risata balorda.
Margherita volava senza far nessun rumore, molto lentamente e a bassa quota, piú o meno all’altezza d’un secondo piano. Ma anche volando lentamente, proprio mentre sbucava sull’Arbat sfolgorante di luci, essa commise un lieve errore e picchiò la spalla contro un disco illuminato, sul quale era disegnata una freccia. Margherita si arrabbiò. Fece retrocedere la docile spazzola, scartò, poi, slanciandosi verso il disco, improvvisamente, col manico della spazzola, lo fece a pezzi. Le schegge piovvero giú con fracasso, i passanti si tirarono in là, qualcuno fischiò e Margherita, compiuto questo gesto inutile, scoppiò a ridere.
«Sull’Arbat bisogna essere ancora piú prudenti, — pensò Margherita, — lí c’è una confusione tale che non ci si raccapezza». Essa cominciò a tuffarsi tra i fili delle condutture. Sotto di lei scorrevano i tetti dei filobus, degli autobus e delle vetture, e sui marciapiedi, come sembrava a Margherita dall’alto, scorrevano fiumi di berretti. Da questi fiumi si dipartivano dei rivoletti che si riversavano nelle fauci infuocate dei magazzini notturni.
«Che baraonda! — pensò Margherita, seccata. — Qui non ci si può rigirare». Attraversò l’Arbat, si portò piú in alto, ai quarti piani e oltrepassati i cilindri sfolgoranti di luce sull’edificio d’angolo del teatro, entrò planando in un vicolo stretto dalle alte case. Tutte le finestre erano aperte e da tutte usciva musica trasmessa per radio. Per curiosità Margherita sbirciò in una di queste finestre. Scorse una cucina. Due fornelli a petrolio mugghiavano sulla stufa, accanto ad essi due donne con i cucchiai in mano bisticciavano.
— Bisogna spegner la luce uscendo dal gabinetto, ecco quel che le dico, Pelageja Petrovna, — diceva la donna che stava davanti a una casseruola di roba da mangiare dalla quale uscivano vortici di vapore, — se no le faremo dare lo sfratto.
— Anche lei è qualcosa di bello, — rispondeva l’altra.
— Siete tutt’e due qualcosa di bello, — disse Margherita con voce squillante, piombando dal davanzale nella cucina.
Le due litiganti si voltarono a quella voce e rimasero di stucco, con i cucchiai sporchi in mano. Margherita allungò cautamente la mano fra di loro, girò le chiavette dei due fornelli e li spense. Le donne mandarono un gemito e aprirono la bocca. Ma Margherita che s’era già annoiata di stare in cucina, volò fuori nel vicolo.
Alla fine la sua attenzione fu attratta dalla mole gigantesca di un lussuoso palazzone a otto piani, visibilmente costruito da poco. Margherita si abbassò e atterrando vide che la facciata del palazzo era rivestita di marmo nero, che la porta era larga, che al di là del cristallo s’intravedeva il berretto con gallone dorato e i bottoni d’un guardaportone e che sopra la porta spiccava la scritta in oro: «Casa del Dramlit».[18]
Margherita guardò di sottecchi la scritta, chiedendosi che cosa potesse significare la parola «Dramlit». Presa la spazzola sotto il braccio, essa penetrò nell’atrio urtando con la porta il guardaportone meravigliato e sulla parete a fianco dell’ascensore scorse un’enorme lavagna nera che recava scritti in bianco i numeri degli appartamenti e i cognomi degli inquilini. La scritta «Casa del drammaturgo e del letterato» che sormontava l’elenco strappò a Margherita un grido soffocato di cupidigia. Si alzò un po’ di piú in aria e cominciò a leggere avidamente i cognomi: Chustov, Dvubratskij, Kvant, Beskudnikov, Latunskij
— Latunskij! — strillò Margherita. — Latunskij! Ma è proprio lui… è quello che ha rovinato il Maestro!
Il guardaportone davanti all’ingresso, sbarrando gli occhi e saltellando addirittura dallo stupore, guardava la lavagna nera, sforzandosi di capire per quale prodigio l’elenco degli inquilini avesse improvvisamente cacciato uno strillo.
Nel frattempo, però, Margherita aveva già cominciato a volare con impeto su per le scale ripetendo come inebriata:
— Latunskij ottantaquattro… Latunskij ottantaquattro…Ecco a sinistra l’ottantadue, a destra l’ottantatre, poi ancora piú in alto, a sinistra, l’ottantaquattro! Ci siamo! Ed ecco anche il biglietto da visita: «O. Latunskij».
Margherita saltò giú dalla spazzola e il pianerottolo di pietra le rinfrescò piacevolmente le piante dei piedi accaldate. Suonò una volta, due. Ma nessuno apriva. Margherita si mise a premere piú forte il bottone e sentí lei stessa lo scampanellio che echeggiava nell’appartamento di Latunskij. Sí, colui che occupava l’appartamento n. 84 all’ottavo piano doveva essere grato fino alla morte al defunto Berlioz perché il presidente del MASSOLIT era finito sotto un tram e perché la seduta commemorativa era stata fissata appunto per quella sera. Era nato sotto una buona stella, il critico Latunskij, essa l’aveva salvato dall’incontro con Margherita, divenuta una strega quel venerdí.
Nessuno veniva ad aprire. Allora Margherita volò giú a tutto gas, contando via via i piani, arrivò da basso, irruppe nella via e, guardando in alto, contò e controllò i piani da fuori, chiedendosi quali fossero precisamente le finestre dell’appartamento di Latunskij. Non c’era dubbio, erano le cinque finestre buie all’angolo dell’edificio, all’ottavo piano. Quando l’ebbe accertato, Margherita si alzò in aria e pochi secondi dopo essa entrava dalla finestra aperta in una stanza non illuminata in cui s’inargentava soltanto un’esigua passatoia di chiaro di luna. Margherita la percorse, trovò a tastoni l’interruttore. Un minuto dopo tutto l’appartamento era illuminato. La spazzola stava in un angolo. Assicuratasi che non c’era nessuno in casa, Margherita aprí l’uscio delle scale e controllò se c’era quel biglietto da visita. Il biglietto c’era, Margherita l’aveva imbroccata. Già, si dice che ancora adesso il critico Latunskij impallidisca al ricordo di quella terribile sera e che pronunzi con venerazione il nome di Berlioz. S’ignora del tutto da quale fosco e infame delitto sarebbe stata contrassegnata quella sera: al ritorno dalla cucina Margherita si trovò tra le mani un pesante martello.
La nuda e invisibile volatrice si frenava e si esortava alla calma le mani le tremavano dall’impazienza. Mirando attentamente essa colpí la tastiera del pianoforte e per tutto l’appartamento si diffuse il primo urlo lamentoso. Gridava disperatamente il Becker a mezza coda che era del tutto innocente. I suoi tasti sprofondavano, i rivestimenti di osso volavano da ogni parte. Lo strumento rimbombava ululava, rantolava, tintinnava. Con un rumore che pareva quello di una rivoltellata, sotto il colpo del martello si spaccò la parte superiore, tirata a lucido, della cassa armonica. Ansimando, Margherita strappò e fracassò le corde col martello. Infine, stanca morta, si lasciò cadere di schianto su una poltrona per ripigliar fiato.
Nel bagno l’acqua rombava e cosí pure in cucina. «Credo che cominci già a scorrere sul pavimento…», pensò Margherita, e aggiunse ad alta voce:
— Però non è il caso di trattenersi a lungo.
Dalla cucina un torrente scorreva già nel corridoio. Guazzando a piedi nudi nell’acqua. Margherita portò secchi d’acqua dalla cucina nello studio del critico versandoli nei cassetti della scrivania. Poi, demolita col martello la porta della libreria in quello stesso studio, Margherita corse nella camera da letto. Dopo aver rotto l’armadio a specchio, ne tirò fuori un completo del critico e l’annegò nel bagno. Sul soffice, rigonfio letto a due piazze, vuotò tutto il calamaio che aveva preso nello studio.
La devastazione che essa andava operando le procurava un ardente piacere, ma ciononostante perdurava in lei l’impressione che i risultati fossero alquanto miseri. Si diede quindi a lavorare a casaccio. Prese a spaccare i grandi vasi di ficus nella stanza dove c’era il pianoforte, ma senza aver portato a termine la sua opera, tornò in camera da letto e con un coltello da cucina tagliò le lenzuola, mandò in frantumi le fotografie sotto vetro. Pur non sentendosi stanca, era grondante di sudore.
Intanto, nell’appartamento n. 82, sottostante quello di Latunskij, la cameriera del drammaturgo Kvant prendeva il tè in cucina, chiedendosi che cosa fossero quel fracasso, quel correre su e giú e quel tintinnio che provenivano dal piano di sopra. Alzò il capo verso il soffitto e s’accorse a un tratto che sotto i suoi occhi esso veniva mutando il suo color bianco, in un altro, cadaverico, bluastro. La macchia si allargava a vista d’occhio, e all’improvviso delle grosse gocce spuntarono sul soffitto. Per un paio di minuti la cameriera rimase seduta, meravigliandosi di questo fenomeno, finché dal soffitto cominciò a venir giú una vera pioggia che batteva sul pavimento. In quel punto essa balzò in piedi, mise una bacinella sotto lo zampillo la qual cosa non serví a nulla, giacché la pioggia si estendeva e cominciava ad allagare anche il fornello a gas e la tavola ingombra di stoviglie. Allora, gettando un grido, la cameriera di Kvant scappò sulle scale e subito dopo in casa di Latunskij cominciò a squillare il campanello.
— Già, hanno cominciato a suonare… È ora di andarsene, — disse Margherita. Si sedette a cavallo della spazzola, ascoltando una voce femminile che gridava attraverso il buco della serratura:
— Aprite! Aprite! Dusja, apri! Scorre l’acqua da voi? Noi siamo inondati!
Margherita si alzò di un metro e menò un colpo al lampadario. Due lampadine andarono in pezzi e le gocce di cristallo schizzarono da ogni parte. Le grida attraverso il buco cessarono, si sentí uno scalpiccio sulle scale. Margherita volò alla finestra, scivolò fuori, prese un piccolo slancio e col martello menò un colpo sul vetro. Esso esalò un singhiozzo e le schegge corsero giú come una cascata lungo il muro rivestito di marmo. Margherita volò verso la finestra seguente. Laggiú in basso qualcuno si mise a correre sul marciapiede, una delle due macchine ferme davanti all’ingresso azionò la sirena e partí.
Finito che ebbe con le finestre di Latunskij, Margherita volò verso quelle dell’appartamento attiguo. I colpi cominciarono a farsi piú frequenti, il vicolo si riempí di suoni e di fracasso. Dal primo ingresso uscí di corsa il guardaportone, guardò in su, esitò un po’, non sapendo lí per lí quel che doveva fare, poi si mise il fischietto in bocca e si diede a fischiare disperatamente. Piú che mai infervorata da quel fischio, Margherita frantumò il vetro dell’ultima finestra dell’ottavo piano, poi scese al settimo e anche lí cominciò a spezzare i cristalli.
Estenuato dal lungo oziare dietro i vetri della porta d’ingresso, il guardaportone metteva tutta l’anima nel suo fischio, e intanto osservava con attenzione Margherita, come per accompagnare musicalmente le sue mosse. Negli intervalli, quando essa volava da una finestra all’altra, lui riprendeva fiato, e a ogni colpo di Margherita, gonfiava le guance e fischiava freneticamente, trapassando fino al cielo l’aria notturna.
I suoi sforzi, congiunti con quelli della donna inferocita, sortirono un grande risultato. Il panico scoppiò nella casa. I vetri ancora sani si spalancavano, s’affacciavano delle teste che subito dopo sparivano, e viceversa, le finestre aperte si chiudevano. Alle finestre delle case dirimpetto, sagome scure spuntavano sullo sfondo illuminato; era gente che cercava di capire come mai, nell’edificio nuovo del Dramlit, i vetri si spaccassero senza alcun motivo.
Nel vicolo la gente correva verso il palazzo del Dramlit, mentre nell’interno altri scalpicciavano per le scale, affannandosi senza costrutto. La cameriera di Kvant gridava a coloro che correvano per le scale che l’alloggio di Kvant era allagato e ad essa si uní ben presto la cameriera di Chustov dell’appartamento n. 80, situato sotto quello di Kvant. Dai Chustov l’acqua scrosciava sia in cucina che nel gabinetto. Alla fine, nella cucina di Kvant un enorme pezzo di stucco precipitò dal soffitto, mandando in frantumi tutte le stoviglie sporche, dopo di che ebbe inizio un vero diluvio, dai riquadri del graticcio inzuppato del soffitto l’acqua veniva giú come da un secchio. Allora, per le scale del primo ingresso cominciarono le grida.
Mentre passava a volo davanti alla penultima finestra del quarto piano, Margherita guardò dentro e vide un tale che, preso dal panico, s’infilava la maschera antigas. Picchiando col martello sul vetro, Margherita lo spaventò ed egli scomparve dalla stanza.
E all’improvviso l’insensata opera di devastazione ebbe termine. Scivolata giú al terzo piano, Margherita s’affacciò all’ultima finestra, velata da una leggera tenda scura. Nella stanza ardeva una lampadina debole, coperta da un paralume. In un lettino con le reti ai lati sedeva un bimbo sui quattro anni e stava in ascolto, spaventato. Adulti non ce n’erano nella stanza, evidentemente tutti erano corsi via dall’alloggio.
— Rompono i vetri, — disse il bimbo e chiamò: — Mamma! Nessuno rispose, e allora egli disse:
— Mamma, ho paura.
Margherita scostò la tenda e entrò dalla finestra.
— Ho paura, — ripeté il bimbo e cominciò a tremare.
— Non aver paura, non aver paura, piccolino, — disse Margherita, sforzandosi di addolcire la sua voce di delinquente, arrochita dal vento, — sono stati dei ragazzacci a rompere i vetri.
— Con la fionda? — chiese il bimbo, smettendo di tremare.
— Con la fionda, con la fionda, — confermò Margherita, — ma tu, devi dormire.
— È stato Sitnik, — disse il bimbo, — lui ce l’ha, una fionda.
— Ma certo, è stato lui.
Il bimbo guardò dall’altra parte con aria maliziosa e chiese:
— Ma tu, zia, dove sei?
— Io non ci sono, — rispose Margherita, — tu mi stai sognando.
— Lo pensavo anch’io, — disse il bimbo.
— Coricati, — ordinò Margherita, — metti la mano sotto la guancia e mi sognerai.
— Va bene, ti sognerò, ti sognerò, — assentí il bimbo, e si coricò subito e mise la mano sotto la guancia.
— Ti racconterò una fiaba, — riprese Margherita, e posò la mano calda sulla testa rasata. — C’era una volta una zia… Non aveva figli e in generale non aveva neppure fortuna. Ed ecco che da principio essa pianse a lungo, ma poi diventò una strega… — Margherita tacque, tolse la mano, il bimbo dormiva.
Margherita depose pian piano il martello sul davanzale e volò via dalla finestra. Nei pressi del palazzo c’era una baraonda. Sul marciapiede asfaltato, cosparso di cocci di vetro, c’erano persone che correvano e gridavano non si sa cosa. In mezzo a loro giravano già dei poliziotti. A un tratto si udí un rintocco di campana e un’autopompa rossa con la scala irruppe dall’Arbat nel vicolo.
Ma quel che sarebbe accaduto in seguito non interessava piú Margherita. Prendendo bene la mira per non andare a urtare contro qualche filo, essa strinse forte la spazzola e in un attimo si trovò sopra lo sfortunato palazzo. Sotto di lei il vicolo s’inclinò da un lato e sprofondò in basso. Al suo posto sotto i piedi di Margherita spuntò un ammasso di tetti, intersecato agli angoli da strisce scintillanti. Tutto questo deviò bruscamente da un lato, e le file di luci si stemperarono e si fusero insieme.
Margherita diede un altro strattone, e allora la massa di tetti sprofondò sotto terra, e al suo posto apparve in basso un lago di tremolanti luci elettriche; questo lago si sollevò a un tratto verticalmente, dopo di che comparve sopra la testa di Margherita, e la luna brillò sotto i suoi piedi. Margherita capí che si era ribaltata, riprese la sua posizione normale e, voltandosi indietro, vide che il lago non c’era piú, e che laggiú, dietro di lei, era rimasto soltanto un bagliore rosato all’orizzonte. Anch’esso svaní dopo un attimo, e Margherita s’accorse d’esser sola con la luna che volava a sinistra sopra di lei. Da un pezzo i capelli di Margherita s’erano aggrovigliati insieme e il chiaro di luna le lambiva il corpo con un sibilo. Dal fatto che in basso le due file di luci rade si erano fuse in due linee ininterrotte e dalla rapidità con la quale esse scomparvero, Margherita intuí che volava a una fantastica velocità, e fu sorpresa di non rimanere senza fiato.
Trascorsi pochi secondi, laggiú in lontananza, nelle tenebre della terra s’accese un nuovo bagliore di luce elettrica che venne ad abbattersi sotto i piedi della volatrice, ma subito dopo si avvitò e precipitò sulla terra. Dopo qualche secondo, di nuovo lo stesso fenomeno.
— La città! La città! — gridò Margherita.
Dopo di questo per due o tre volte essa vide sotto di sé delle specie di sciabole baluginanti racchiuse entro nere guaine aperte e comprese che erano fiumi.
Volgendo la testa in su e a sinistra, essa ammirava la luna che, come impazzita, filava indietro sopra di lei verso Mosca e, cosa strana, nello stesso tempo rimaneva immobile, cosicché si vedeva distintamente su di essa un che di misterioso e di scuro, forse un drago, forse un cavallino alato col muso aguzzo rivolto verso la città abbandonata.
In quel punto Margherita fu assalita dal pensiero che, in fondo, non avrebbe dovuto far volare cosí freneticamente la spazzola, perché si privava della possibilità d’osservare bene le cose e d’inebriarsi del volo, come si conviene. Qualcosa le diceva che là dov’era diretta l’avrebbero aspettata e che quindi era inutile sottoporsi al fastidio di una velocità e di un’altezza cosí insensate.
Margherita inclinò in avanti la spazzola la cui coda si sollevò, e, rallentando molto, scese verso terra. E questo scivolare giú, come in toboga, le procurò un grandissimo piacere. La terra si alzò verso di lei e in quella che era stata fino allora un’informe massa nera si andavano palesando i segreti e i fascini della terra in una notte di luna. La terra saliva verso Margherita e già l’investiva l’odore dei boschi verdeggianti. Sorvolò, sfiorandola quasi, la bruma che copriva un prato rugiadoso, poi uno stagno. Sotto di lei le rane cantavano in coro e da lontano giungeva il rumore di un treno che la commuoveva profondamente, chi sa perché. Margherita non tardò a scorgerlo; strisciava lento come un bruco, seminando scintille nell’aria. Oltrepassatolo, essa volò ancora sopra uno specchio d’acqua in cui galleggiava una seconda luna, poi si abbassò ancora di piú e proseguí, sfiorando quasi coi piedi le vette dei pini giganteschi.
Dietro si sentiva un greve rumore di aria solcata che cominciava a raggiungere Margherita. A poco a poco a questo rumore di un oggetto volante, forse un proiettile, si uní una risata femminile, udibile a molte verste di distanza. Margherita si voltò e s’accorse che era inseguita da un oggetto scuro e complicato. Via via che s’avvicinava a lei, si profilava sempre meglio e si cominciava a vedere che era qualcuno che volava a cavallo. Infine si delineò completamente: rallentando, Nataša raggiunse Margherita.
Interamente nuda, coi capelli scarmigliati che volavano per aria, essa cavalcava un grosso verro il quale stringeva fra le zampe anteriori una cartella, e con le posteriori martellava l’aria. Di quando in quando un paio d’occhiali a molle che sfavillavano al chiaro di luna, e poi si spegnevano, cadendogli dal naso, svolazzavano a fianco del verro, appese a un cordoncino, e il cappello gli scivolava tutto il tempo sugli occhi. Esaminatolo ben bene, Margherita riconobbe nel verro Nikolaj Ivanovič, e allora la sua risata risuonò sopra il bosco, mischiandosi con quella di Nataša.
— Nataša! — gridò Margherita con voce acuta. — Ti sei data la crema?
— Gioia mia!! — rispose Nataša, ridestando con i suoi schiamazzi la pineta addormentata. — Mia regina francese, gliel’ho data anche a lui sulla zucca pelata, anche a lui!
— Principessa! — urlò il verro con voce piagnucolosa, portando al galoppo l’amazzone.
— Margherita Nikolaevna! Gioia mia! — gridava Nataša, galoppando a fianco di Margherita, — lo confesso, ho preso la crema! Anche noialtre, sa, vogliamo vivere e volare! Mi perdoni, sovrana, ma io non tornerò, neppure dipinta tornerò! Ah, che bellezza, Margherita Nikolaevna!…Ha chiesto la mia mano, — e Nataša indicò col dito il collo del verro ansimante e vergognoso, — me l’ha chiesta! Come mi hai chiamata, eh? — gridò Nataša, chinandosi all’orecchio del verro.
— O dea! — ululò questi, — non posso volare cosí presto! Potrei perdere qualche carta importante, Natal’ja Prokof’evna, io protesto!
— Va’ un po’ al diavolo, tu e le tue carte! — gridò Nataša, ridendo sguaiatamente.
— Che dice mai, Natal’ja Prokof’evna? Potrebbero sentirci! — urlò il verro in tono d’implorazione.
Mentre volava a fianco di Margherita, Nataša le raccontò fra le risa quanto era accaduto nella palazzina dopo che Margherita Nikolaevna aveva varcato in volo il portone.
Nataša confessò che, senza piú toccare alcuna delle cose a lei regalate, si era spogliata di furia, s’era buttata sulla crema e se l’era immediatamente spalmata addosso. E le era accaduto lo stesso che alla sua padrona. Mentre Nataša, ridendo di gioia, s’inebriava della sua magica bellezza davanti allo specchio, la porta si era aperta e le era comparso dinanzi Nikolaj Ivanovič. Era agitato, teneva in mano il camicino di Margherita Nikolaevna, nonché il proprio cappello e la cartella. Vedendo Nataša, Nikolaj Ivanovič era allibito. Riavutosi un po’, rosso come un gambero, aveva dichiarato che s’era creduto in dovere di raccattare il camicino, di riportarlo personalmente…
— Cosa non ha detto, quel mascalzone! — strillava e rideva Nataša. — Cosa non ha fatto per adescarmi! Quanto denaro ha promesso! Diceva che Klavdija Petrovna non ne avrebbe saputo nulla. Su, parla, dico bugie? — gridò Nataša al verro, e questi, tutto vergognoso, si limitò a voltare il muso dall’altra parte.
Dopo aver folleggiato in camera da letto, Nataša aveva unto con la crema Nikolaj Ivanovič, e lei stessa era rimasta sbalordita. La faccia del rispettabile inquilino del piano di sotto s’era ridotta a un grugno, ai piedi e alle mani gli erano spuntati gli zoccoli. Guardatosi nello specchio, Nikolaj Ivanovič aveva cacciato un urlo selvaggio e disperato, ma era troppo tardi. Pochi secondi dopo, cavalcato da Nataša, egli volava via da Mosca, sa il diavolo dove, singhiozzando di dolore.
— Esigo che mi venga restituito il mio aspetto normale! — rantolò e grugní a un tratto il verro con tono fra il disperato e il supplichevole. — E non intendo volare a un assembramento illegale! Margherita Nikolaevna, lei ha l’obbligo di ridurre alla ragione la sua cameriera!
— Ah, sicché adesso sarei la cameriera per te? La cameriera? — gridava Nataša, pizzicando l’orecchio del verro. — E non ero una regina? Non mi chiamavi cosí?
— Venere! — rispose lamentosamente il verro, volando sopra un torrente spumeggiante fra le rocce e sfiorando con gli zoccoli i cespugli di nocciolo.
— Venere! Venere! — proclamò vittoriosamente Nataša, mettendosi una mano sul fianco e protendendo l’altra verso la luna. — Margherita! Regina! Interceda per me, affinché mi lascino continuare a essere strega! Per lei faranno tutto, lei è potente!
E Margherita rispose:
— Va bene, lo prometto.
— Grazie! — esclamò Nataša, e all’improvviso si mise a gridare in tono brusco e anche un po’ malinconico: — Arri! Arri! Piú presto! Piú presto! Su, dài!
Ella strinse fra i calcagni i fianchi del verro, dimagriti durante la folle galoppata ed egli diede una strappata tale che riprese a fendere l’aria; dopo un attimo Nataša non era piú che un puntino nero, poi scomparve del tutto e il rumore del suo volo si dileguò.
Margherita seguitava a volare lentamente, in una contrada deserta e sconosciuta, sopra alture cosparse qua e là di massi erratici giacenti fra giganteschi pini isolati. Essa non volava sopra le vette di quei pini, ma in mezzo ai loro tronchi, da un lato inargentati dalla luna. L’ombra lieve precedeva Margherita scivolando sul suolo, adesso la luna le brillava alle spalle.
Margherita sentiva la vicinanza dell’acqua e intuiva che la meta era prossima. Al di là di quel dirupo, giú in fondo, nell’ombra, c’era un fiume. Incombeva una nebbia che s’impigliava fra i cespugli del dirupo, mentre la riva opposta era piatta e bassa. Là, sotto un solitario gruppo di alberi frondosi, vacillava la piccola luce di un falò e si scorgevano delle sagome minuscole che si muovevano. Sembrò a Margherita che di là giungesse una musica allegra e stuzzicante. Piú oltre, fin dove arrivava l’occhio, nella valle inargentata non si vedeva segno alcuno di abitazioni o di uomini.
Margherita saltò giú dal dirupo e s’affrettò a scendere verso l’acqua. Dopo la galoppata nell’aria, l’acqua l’attirava. Buttata via la spazzola, prese la rincorsa e si gettò giú a capofitto. Il suo corpo leggero s’infisse nell’acqua come una freccia, e sollevò fino alla luna una colonna liquida. Era un’acqua tiepida, come nella vasca, ed emergendo dall’abisso Margherita nuotò in quel fiume finché non fu sazia, nella completa solitudine della notte.
Vicino a lei non c’era nessuno, ma un po’ piú in là, oltre i cespugli, si sentiva sciaguattare e sbuffare: anche lí qualcuno faceva il bagno.
Margherita uscí dall’acqua e corse sulla riva. Il suo corpo ardeva dopo il bagno. Non si sentiva affatto stanca e ballava sull’erba umida.
A un tratto smise di danzare e tese l’orecchio. Il rumore s’avvicinava e dai cespugli di salice sbucò un grassone nudo con un serico cilindro nero calcato sulla nuca. I suoi piedi erano coperti di melma, sicché sembrava che il bagnante calzasse stivaletti neri. A giudicare da come stronfiava e singultava, era discretamente ubriaco, la qual cosa, del resto era confermata dall’odore di cognac che saliva dal fiume.
Scorgendo Margherita, il grassone la guardò in tralice, poi urlò, esultante:
— Che succede? Cosa vedono i miei occhi? Claudine vedova intrepida, sei proprio tu? Tu, qui? — e s’avvicinò per salutarla.
Margherita arretrò e rispose dignitosamente:
— Va’ un po’ al diavolo! Che c’entro io con Claudine? Guarda bene con chi parli! — e, dopo averci ripensato un attimo, aggiunse al suo discorso una lunga, irripetibile ingiuria. Lo sconsiderato grassone ci rimase cosí male che la sbornia gli passò di colpo.
— Ohi! — esclamò sottovoce, e trasalí. — Sia generosa e mi perdoni, illustre regina Margot! L’ho presa per un’altra. È tutta colpa del cognac, sia esso maledetto! — Il grassone piegò un ginocchio, mise via il cilindro, abbozzò un inchino e, mischiando frasi russe e francesi, cominciò a snocciolare un sacco di sciocchezze sulle tragiche nozze del suo amico Guessard a Parigi, nonché sul cognac e sulla sua costernazione per l’increscioso errore commesso.
— Potresti metterti i calzoni, figlio d’un cane, — disse Margherita, rabbonendosi.
Il grassone rise di gioia vedendo che essa non era adirata, e l’informò solennemente che era senza calzoni soltanto perché, per distrazione, li aveva lasciati in riva allo Enisej dove poc’anzi aveva fatto il bagno ma sarebbe subito volato a prenderli, visto che era vicinissimo dopo di che assicuratosi del favore e della protezione di Margherita cominciò a ritirarsi camminando a ritroso, e si ritirò fino ai momento in cui scivolò e cadde riverso nell’acqua. Ma, anche cadendo, conservò sul volto incorniciato da corti scopettoni un sorriso di giubilo e di devozione.
In quanto a Margherita, essa mandò un fischio acuto e, cavalcando la spazzola che l’aveva seguita al volo, si portò al disopra del fiume sulla riva opposta. L’ombra della collina di creta non arrivava fin là, e tutta la riva era inondata dal chiaro di luna.
Non appena essa toccò l’erba umida, la musica sotto i salici si fece piú forte e volò su piú allegro il fascio di scintille dal falò. Sotto i rami dei salici, costellati di teneri, soffici amenti, visibili sotto la luna, sedevano in due file certe rane dal grosso muso e, gonfiandosi come fossero di gomma, suonavano su pifferi di legno una marcia brillante. Pezzetti di legno putrido fosforescenti, appesi ai ramoscelli di salice davanti alle suonatrici, illuminavano gli spartiti, sui musi delle rane guizzava la luce irrequieta del falò.
La marcia era eseguita in onore di Margherita. L’accoglienza che le fu tributata non avrebbe potuto essere piú trionfale. Le diafane ondine interruppero la loro carola sopra il fiume per salutare Margherita agitando delle alghe, e sopra la deserta sponda verdastra risuonarono gemebondi, udibili da lontano i loro auguri di benvenuto. Streghe ignude, balzate fuori di dietro ai salici, si disposero in fila e cominciarono a fare riverenze e a strisciare inchini di corte. Un essere dal piede caprino accorse, si precipitò a baciarle la mano, stese sull’erba un drappo di seta, s’informò se la regina aveva fatto un buon bagno e l’invitò a sdraiarsi e a riposare.
La qual cosa Margherita fece. L’essere dal piede caprino le porse un calice di champagne, essa lo bevve d’un fiato e di colpo il suo cuore si scaldò. Informatasi dove fosse Nataša, le fu risposto che aveva già fatto il bagno ed era volata innanzi sul suo verro a Mosca per avvertire che Margherita sarebbe arrivata presto e per aiutare a preparare la sua toletta.
La breve permanenza di Margherita sotto i salici fu contrassegnata da un episodio. Si udí un sibilo nell’aria e un corpo nero che aveva evidentemente sbagliato la mira, precipitò nell’acqua. Dopo qualche attimo, Margherita si trovò davanti quello stesso grassone-scopettonista, che si era cosí infelicemente presentato sull’altra riva. Era riuscito, a quanto pareva, a fare un salto fino allo Enisej, poiché era in marsina, ma bagnato dalla testa ai piedi. Il cognac gli aveva di nuovo giocato un brutto tiro: atterrando, egli era finito in acqua. Ma anche in questo frangente non aveva perso il suo sorriso e Margherita gli concesse ridendo di baciarle la mano.
Dopo di che tutti si accinsero ad andarsene. Le ondine terminarono la loro danza al chiaro di luna e in esso si squagliarono. L’essere dal piede caprino domandò rispettosamente a Margherita con che mezzo avesse raggiunto il fiume. Saputo che c’era arrivata a cavallo di una spazzola, disse:
— Oh, ma perché? E scomodo! — In un attimo fabbricò con due ramoscelli un bizzarro telefono e richiese a qualcuno di mandare immediatamente una macchina, la qualcosa, infatti, fu fatta in un minuto.
Una macchina aperta, color sauro, piombò sull’isola, solo che al posto di guida, anziché un autista di quelli soliti sedeva un gracchio nero dal lungo becco, con berretto d’incerata e guanti alla moschettiera. L’isolotto rimase deserto. Nel fiammeggiare della luna volarono via dissolvendosi le streghe. Il falò si spense, le sue braci si coprirono di grigia cenere.
Lo scopettonista e l’essere dal piede caprino aiutarono Margherita a salire ed ella si adagiò sul largo sedile posteriore della macchina color sauro. L’auto ululò, diede un balzo, e si alzò fin quasi alla luna, l’isola scomparve, scomparve il fiume, Margherita volò verso Mosca.