Le tenebre venute dal Mediterraneo coprirono la città odiata dal procuratore. Scomparvero i ponti sospesi che univano il tempio con la terribile torre Antonia, calò dal cielo un abisso che sommerse gli dèi alati sopra l’ippodromo, il palazzo Asmoneo con le feritoie, i mercati, i caravanserragli, i vicoli, gli stagni… sparí Jerushalajim, la grande città, come se non fosse mai esistita. Tutto era stato inghiottito dall’oscurità che aveva spaventato quanto di vivo c’era in Jerushalajim e dintorni. La strana nuvola giunse dalla parte del mare, il giorno quattordici del mese primaverile di Nisan, verso l’imbrunire.
Si riversò col ventre sul Golgota, dove i boia si affrettavano a dare il colpo di grazia ai condannati, si riversò sul tempio di Jerushalajim, quindi strisciò in torrenti fumosi dalla collina e inondò la città bassa. Affluiva nelle finestre e cacciava la gente dalle viuzze sghembe nell’interno delle case. Non si affrettava a liberarsi della sua umidità e si liberava soltanto della sua luce. Non appena la fumosa poltiglia nera veniva squarciata dal lampo, dal buio pesto balzava su la grande massa del tempio con lo scintillante tetto squamoso. Ma si spegneva in un attimo, e il tempio s’immergeva nel baratro nero. Diverse volte ne risorse, per sprofondarvi di nuovo, e ogni scomparsa veniva accompagnata da un fragore di catastrofe.
Altri bagliori tremuli traevano dall’abisso il palazzo di Erode il Grande che si ergeva sulla collina occidentale di fronte al tempio, e paurose statue d’oro decapitate balzavano verso il cielo nero protendendo le braccia. Ma di nuovo il fuoco celeste scompariva, e pesanti rombi di tuono ricacciavano gli idoli dorati nelle tenebre.
L’acquazzone s’abbatté all’improvviso, e il temporale si trasformò in un uragano. Nello stesso posto dove, verso mezzogiorno, presso la panchina di marmo nel giardino, conversavano il procuratore e il gran sacerdote, un colpo che sembrava una cannonata spaccò un cipresso come un fuscello. Insieme allo spolverio d’acqua e alla grandine, il vento portava, sul balcone sotto le colonne, rose strappate, foglie di magnolia, ramoscelli e sabbia. L’uragano si accaniva sul giardino.
In quel momento sotto il porticato si trovava una sola persona, il procuratore.
Non sedeva sulla scranna, ma giaceva su un letto presso un tavolino coperto di cibarie e di caraffe di vino. Un altro letto, vuoto, si trovava dall’altra parte del tavolino. Ai piedi del procuratore si stendeva una pozzanghera rossa, quasi fosse di sangue, e giacevano i cocci di una caraffa. Il servo che, prima del temporale, stava apparecchiando la mensa per il procuratore, si era confuso sotto lo sguardo di questi, era agitato per non aver soddisfatto in qualcosa il padrone, e il procuratore, arrabbiatosi, aveva spaccato la caraffa sul pavimento di mosaico dicendo:
— Perché non guardi in faccia quando servi? Hai forse rubato qualcosa?
Il volto nero dell’africano divenne grigio, nei suoi occhi apparve un terrore mortale, tremò, e mancò poco che spezzasse la seconda caraffa; ma l’ira del procuratore svaní con la stessa velocità con cui era sopraggiunta. Il negro stava precipitandosi a raccogliere i cocci e asciugare la pozzanghera, ma il procuratore gli fece un cenno con la mano, e lo schiavo corse via. La pozzanghera rimase.
Adesso, durante l’uragano, lo schiavo si nascondeva presso la nicchia dov’era posta la statua di una bianca donna nuda dalla testa reclinata, temeva di farsi vedere in un momento inopportuno, ma nello stesso tempo aveva paura di lasciarsi sfuggire l’attimo in cui il procuratore l’avrebbe potuto chiamare.
Steso sul letto nella penombra causata dal temporale, il procuratore si versava da sé il vino nella coppa, beveva a lunghi sorsi, di quando in quando toccava il pane, lo spezzava in briciole, lo inghiottiva a piccoli pezzi, ogni tanto succhiava un’ostrica, masticava un limone, e beveva di nuovo.
Se non fosse stato per lo scroscio dell’acqua e per gli schianti del tuono che, sembrava, minacciavano di sprofondare il tetto del palazzo, se non fosse stato per il battito della grandine che martellava gli scalini del balcone, si sarebbe potuto udire il procuratore borbottare qualcosa, mentre parlava tra sé. E se l’instabile baluginare del fuoco celeste si fosse tramutato in una luce fissa, l’osservatore avrebbe potuto vedere che il volto del procuratore, con gli occhi infiammati dalle ultime insonnie e dal vino, esprimeva l’impazienza, e che il procuratore non guardava solo due rose bianche annegate nella pozzanghera rossa, ma volgeva costantemente la testa verso il giardino, incontro al pulviscolo d’acqua e alla sabbia, aspettando qualcuno, e aspettandolo con impazienza.
Passò del tempo, e il velo d’acqua davanti agli occhi del procuratore divenne meno fitto. Per quanto fosse stato furioso, l’uragano si stava indebolendo. I rami non scricchiolavano e non cadevano piú. I tuoni e le saette si diradavano. Su Jerushalajim non galleggiava piú un velo viola dal bordo bianco, ma una comune nuvola grigia di retroguardia. Il temporale si spostava verso il Mar Morto.
Adesso si potevano anche percepire isolati il rumore della pioggia e quello dell’acqua che precipitava per le grondaie e giú dai gradini della scala che il procuratore aveva disceso quel giorno per proclamare in piazza la sentenza. Infine risuonò anche la fontana, fino a quel momento soffocata. Il cielo si rasserenava. Nel velo grigio che fuggiva verso oriente cominciavano ad apparire finestre azzurre.
A questo punto, da lontano, irrompendo attraverso il picchiettare della pioggia ormai leggera, giunsero alle orecchie del procuratore lievi squilli di tromba e lo scalpitio di alcune centinaia di zoccoli. Udendoli il procuratore si mosse e il suo volto si animò. L’alaria ritornava dal Calvario. A giudicare dal rumore, stava attraversando quella stessa piazza dove era stata proclamata la sentenza.
Infine il procuratore udí i tanto attesi passi strascicati sulla scala che portava alla terrazza superiore del giardino proprio davanti alla loggia. Tese il collo, i suoi occhi brillarono esprimendo gioia.
Tra i due leoni di marmo apparve dapprima una testa coperta da un cappuccio, poi un uomo fradicio col mantello appiccicato al corpo. Era quello stesso che, prima della sentenza, aveva conferito a voce bassa col procuratore nella camera oscurata e che, durante il supplizio, sedeva su uno sgabello a tre piedi, giocherellando con un rametto.
Senza fare caso alle pozzanghere, l’uomo col cappuccio attraversò la terrazza del giardino, avanzò sul pavimento di mosaico della loggia e, alzando il braccio, disse con una voce alta dal timbro gradevole:
— Salute e gioia al procuratore! — Il nuovo venuto parlava latino.
— Oh numi! — esclamò Pilato. — Ma non hai un filo asciutto addosso! Che razza d’uragano! Eh? Ti prego di entrare subito in casa mia. Cambiati, fammi il piacere.
Il nuovo venuto rigettò indietro il cappuccio, scoprendo una testa fradicia con i capelli appiccicati alla fronte, e, atteggiando il volto ben raso a un cortese sorriso, rifiutò di andarsi. a cambiare, asserendo che quella pioggerella non gli poteva certo fare male.
— Non voglio sentire niente! — rispose Pilato e batté le mani. Con questo segnale richiamò i servi che stavano nascosti e diede loro l’ordine di occuparsi dell’uomo, e di servire subito dopo una pietanza calda.
Per asciugarsi i capelli, per cambiarsi d’abito e di scarpe e in genere per rimettersi in ordine, all’uomo occorse pochissimo tempo, e poco dopo giunse sul balcone con sandali asciutti, un mantello militare purpureo e i capelli ravviati.
Nel frattempo il sole era tornato su Jerushalajim e, prima di andar ad affogare nel Mediterraneo, inviava raggi di addio alla città odiata dal procuratore e indorava i gradini del balcone. La fontana si era completamente ripresa e cantava a piena voce, i colombi erano ritornati sulla sabbia, tubavano, saltellavano tra i rami rotti, beccavano qualcosa nella sabbia bagnata. La pozzanghera rossa era stata asciugata, i cocci portati via, sul tavolo fumava un piatto di carne.
— Ascolto gli ordini del procuratore, — disse l’uomo avvicinandosi al tavolo.
— Non udrai niente finché non ti sarai seduto e avrai bevuto un po’ di vino, — rispose gentilmente Pilato e indicò l’altro letto.
L’uomo si sdraiò e un servo gli versò del denso vino rosso. Un altro servo, chinandosi con cautela sulla spalla di Pilato, riempí la coppa del procuratore. Poi questi allontanò i due servi con un gesto.
Mentre l’uomo mangiava e beveva, Pilato, sorseggiando il vino, lo guardava attraverso le palpebre socchiuse. Era un uomo di mezza età, con un volto tondeggiante piacevole e pulito, col naso carnoso. I suoi capelli erano di un colore indefinibile. Adesso, asciugandosi, si stavano schiarendo Sarebbe stato difficile determinare la nazionalità dell’uomo. La cosa principale che caratterizzava il suo volto era, forse, un’espressione bonaria, che tuttavia era in contrasto coi suoi occhi, o meglio, non cogli occhi, ma col suo modo di guardare l’interlocutore. Di solito, l’uomo teneva i piccoli occhi sotto le palpebre socchiuse un poco strane, che parevano enfiate. Allora nelle fessure di quegli occhi brillava una furbizia placida. Era lecito pensare che l’ospite del procuratore avesse dello spirito. Ma in certi momenti, scacciando completamente quello spirito brillante dalle fessure, l’ospite spalancava le palpebre e fissava all’improvviso il suo interlocutore, come se mirasse a scoprire rapidamente una macchiolina insignificante sul suo naso. Questo durava un istante, poi le palpebre si riabbassavano, le fessure si rimpicciolivano, e ricominciava a brillarvi la bonarietà e una furba intelligenza.
Il nuovo venuto non rifiutò neppure una seconda coppa di vino, inghiottí con evidente soddisfazione un paio di ostriche, assaggiò la verdura lessa, mangiò un pezzo di carne. Saziatosi, lodò il vino:
— Ottimo vitigno, procuratore, ma non è Falerno?
— Cecuba, di trent’anni, — replicò affabile il procuratore.
L’ospite si mise una mano sul cuore, rifiutò di mangiare altro, affermò di essere sazio. Allora Pilato riempí la propria coppa, l’ospite lo imitò. Entrambi rovesciarono un po’ di vino nel vassoio, e il procuratore disse a voce alta, alzando la coppa:
— Per noi, per te, Cesare, padre dei romani, il piú caro e il piú buono degli uomini!
Dopo queste parole vuotarono la coppa e gli schiavi africani tolsero le pietanze dal tavolo lasciandovi la frutta e le caraffe. Di nuovo il procuratore li allontanò con un gesto, e rimase solo con il suo ospite nel porticato.
— E allora, — disse sommesso Pilato, — che cosa mi puoi riferire dell’umore che regna in questa città?
Senza volerlo, volse lo sguardo nella direzione in cui, oltre le terrazze del giardino, in basso, finivano di ardere le colonne e i tetti piatti, indorati dagli ultimi raggi.
— Io credo, procuratore, — rispose l’ospite, — che lo stato d’animo a Jerushalajim sia adesso soddisfacente.
— Si può allora garantire che non c’è minaccia di altri disordini?
— Si può garantire, — rispose l’ospite guardando soavemente il procuratore, — una cosa sola al mondo: la potenza del grande Cesare.
— I numi gli diano lunga vita! — disse subito Pilato, — e la pace universale! — Tacque, poi riprese: — Allora credi che si possa ritirare l’esercito?
— Ritengo che la coorte della Fulminante possa andarsene, — rispose l’ospite e aggiunse: — Sarebbe bene che, prima di partire, sfilasse per la città.
— Ottima idea, — approvò il procuratore, — dopodomani la farò partire, e me ne andrò anch’io; e ti giuro per il festino dei dodici dèi, giuro per i lari: darei chi sa che cosa per poterlo fare oggi stesso!
— Il procuratore non ama Jerushalajim? — chiese bonario l’ospite.
— Per carità! — esclamò il procuratore con un sorriso, non esiste un posto piú disperato sulla terra. Non parlo della natura — mi ammalo ogni volta che mi tocca venire qui — , fosse solo questo!… Ma queste feste!… Maghi, stregoni, incantatori, queste folle di pellegrini!… Fanatici, fanatici!… Prendi solo quel messia che di colpo si sono messi ad attendere per quest’anno! Ogni momento ti aspetti solo di dover assistere a uno sgradevolissimo spargimento di sangue. Tutto il tempo spostare le truppe, leggere denunce e delazioni, metà delle quali poi è diretta contro te stesso! Ammetti che è noioso. Oh, se non fosse per il servizio dell’imperatore!
— Già, le feste qui sono difficili, — acconsentí l’ospite.
— Mi auguro di tutto cuore che finiscano presto, — aggiunse Pilato con energia. — Avrò finalmente la possibilità di tornare a Cesarea. Non mi crederai, ma questo edificio opprimente costruito da Erode, — il procuratore fece un gesto della mano verso il porticato, cosí che divenne chiaro che stava parlando del palazzo, — mi rende veramente pazzo! Non riesco a dormirci. Il mondo non ha mai conosciuto un’architettura piú stravagante!… Sí, torniamo agli affari Anzitutto, quel maledetto Bar-Raban non ti preoccupa?
A questo punto l’ospite lanciò quel suo sguardo particolare verso la guancia del procuratore. Ma quello guardava lontano con gli occhi annoiati e una smorfia di disgusto, contemplando la zona della città che giaceva ai suoi piedi e si andava spegnendo nel tramonto. Si spense anche lo sguardo dell’ospite, e le sue palpebre si abbassarono.
— Direi che Bar è diventato innocuo come un agnello, — disse l’ospite, e le rughe comparvero sul suo volto rotondo — adesso per lui ribellarsi è sconveniente.
— Troppo celebre? — chiese Pilato con un sogghigno.
— Il procuratore, come sempre, afferra con finezza la questione.
— Ma ad ogni buon conto, — osservò preoccupato il procuratore, e il lungo dito sottile con una pietra nera incastonata nell’anello si alzò, — bisognerà…
— Oh, il procuratore può essere certo che finché ci sarò io in Giudea, Bar non farà un solo passo senza essere pedinato.
— Adesso sono tranquillo, come del resto lo sono sempre quando ci sei tu.
— Il procuratore è troppo buono!
— Adesso ti prego di parlarmi dell’esecuzione, — disse il procuratore.
— Che cosa di preciso interessa il procuratore?
— Non ci sono stati da parte della folla tentativi di manifestare indignazione? Questa è la cosa principale, naturalmente.
— Per nulla, — rispose l’ospite.
— Benissimo. Hai constatato tu stesso che la morte è sopravvenuta?
— Il procuratore può esserne certo.
— E dimmi… la bevanda è stata loro data prima che fossero appesi ai pali?
— Sí. Ma lui, — l’ospite chiuse gli occhi, — si è rifiutato di berla.
— Quale dei tre? — chiese Pilato.
— Scusami, egemone! — esclamò l’ospite. — Non ti ho detto il nome? Era Hanozri.
— Pazzo! — disse Pilato, facendo una smorfia. Sotto l’occhio sinistro gli tremò una vena. — Morire bruciato dal sole! Perché rifiutare ciò che è proposto conformemente alla legge? Con quali termini ha rifiutato?
— Ha detto, — rispose l’ospite, chiudendo di nuovo gli occhi, — che ringraziava e che non accusava perché gli toglievano la vita.
— Non accusava chi? — chiese con voce sorda Pilato.
— Questo, egemone, non l’ha detto…
— Non ha tentato di predicare qualcosa in presenza dei soldati?
— No, egemone, questa volta non era loquace. L’unica cosa che ha detto è che, tra i vizi umani, uno dei maggiori è, secondo lui, la codardia.
— A quale proposito lo disse? — l’ospite udí una voce improvvisamente incrinata.
— Non lo si poteva capire. Si comportava in modo strano, come del resto fa sempre.
— In che consisteva la stranezza?
— Tentava continuamente di fissare negli occhi ora uno ora un altro di coloro che lo circondavano, e per tutto il tempo sorrideva d’un sorriso smarrito.
— Nient’altro? — chiese la voce rauca.
— Nient’altro.
Il procuratore urtò la coppa mescendosi del vino. Dopo averla vuotata fino in fondo, disse:
— Si tratta di questo: anche se non siamo in grado di scoprire — almeno per ora — suoi ammiratori o seguaci, tuttavia non si può garantire che non ne esistano.
L’ospite ascoltava con attenzione, chinando la testa.
— Perciò, ad evitare sorprese di qualsiasi genere, — continuava il procuratore, — ti prego di far scomparire immediatamente e senza rumore dalla faccia della terra i corpi dei tre giustiziati e di seppellirli in segreto, in modo che non se ne senta piú parlare.
— Ubbidisco, egemone, — disse l’ospite, e si alzò dicendo: — Data la complessità e la responsabilità della cosa, permettimi di andare subito.
— No, siedi ancora un istante, — disse Pilato, fermandolo con un gesto, — ci sono ancora due questioni. La prima: le tue immense benemerenze nel difficilissimo lavoro di capo del servizio segreto presso il procuratore della Giudea mi danno la gradita possibilità di farne rapporto a Roma.
A queste parole, il volto dell’ospite divenne roseo; egli si alzò e fece un inchino al procuratore, dicendo:
— Non faccio che compiere il mio dovere al servizio dell’imperatore.
— Ma vorrei pregarti, — continuava l’egemone, — se ti proponessero un trasferimento con una promozione, di rifiutarlo e di restare qui. Non vorrei assolutamente separarmi da te. Ti ricompensino in qualche altro modo.
— Sono felice di servire sotto i tuoi ordini, egemone.
— Ne sono ben lieto. Ora, la seconda questione. Riguarda quel… come si chiama… Giuda di Kiriat.
Qui l’ospite lanciò al procuratore il suo sguardo, e subito, com’era doveroso, lo spense.
— Dicono, — continuò il procuratore abbassando la voce, — che abbia ricevuto del denaro per aver accolto cosí cordialmente a casa sua quel filosofo pazzo.
— Ne riceverà, — lo corresse sommesso il capo del servizio segreto.
— Una grossa somma?
— Questo non lo può sapere nessuno, egemone.
— Neanche tu? — chiese l’egemone, la cui sorpresa equivaleva a una lode.
— Ahimè, neanch’io, — rispose calmo l’ospite. — Ma che riceverà il denaro questa sera, lo so. È stato convocato per oggi al palazzo di Caifa.
— Ah, l’avido vecchio di Kiriat, — osservò il procuratore sorridendo; — è un vecchio, nevvero?
— Il procuratore non sbaglia mai, ma questa volta si è sbagliato, — rispose affabile l’ospite. — L’uomo di Kiriat è un giovanotto.
— Ma no! Mi puoi dire qualcosa di lui? È un fanatico?
— Oh no, procuratore.
— Bene. Qualcos’altro?
— È bellissimo.
— E poi? Ha forse qualche passione?
— È difficile conoscere a fondo tutti in questa immensa città, procuratore…
— Oh no, no, Afranio! Non sminuire i tuoi meriti!
— Ha una passione, procuratore — . L’ospite fece una brevissima pausa. — La passione del denaro.
— Che fa?
Afranio alzò gli occhi al cielo, rifletté un istante, poi disse:
— Lavora nella bottega di un cambiavalute suo parente.
— Ah, già, già, già, già… — Qui il procuratore tacque, si voltò a guardare che non vi fosse nessuno sul balcone, e disse con voce sommessa: — Ecco di che si tratta: oggi ho saputo che stanotte lo ammazzeranno.
Qui non solo l’ospite lanciò il suo sguardo sul procuratore, ma ve lo trattenne addirittura un istante, poi rispose:
— Tu, procuratore, hai dato un giudizio troppo lusinghiero su di me. Non credo di meritare il tuo rapporto. Non ho notizie del genere.
— Tu sei degno della piú alta ricompensa, — rispose il procuratore, — ma queste notizie esistono.
— Posso permettermi di chiedere da dove provengono?
— Consentimi di non dirlo per ora, tanto piú che sono notizie casuali, oscure e dubbie. Ma sono obbligato a prevedere tutto. È questo il mio incarico, ma, soprattutto, ho fede nel mio presentimento che non mi ha mai ingannato. Le informazioni sono queste: un ignoto amico di Hanozri, sdegnato dal mostruoso tradimento di quel cambiavalute, si sta accordando coi suoi complici per ucciderlo questa notte, e fare avere di nascosto il denaro del tradimento al gran sacerdote con il biglietto: «Restituisco il denaro maledetto».
Il capo del servizio segreto non lanciò piú occhiate inattese all’egemone, e continuò ad ascoltarlo strizzando gli occhi, mentre Pilato proseguiva:
— Pensa un po’, al gran sacerdote farà piacere ricevere un regalo cosí in una notte di festa?
— Non solo non gli farà piacere, — rispose l’ospite con un sorriso, — ma immagino, procuratore, che questo causerà un grosso scandalo.
— Sono dello stesso parere. Proprio per questo ti prego di occuparti di questa faccenda, cioè di prendere le misure opportune per proteggere Giuda di Kiriat.
— L’ordine dell’egemone sarà eseguito, — disse Afranio, — ma devo tranquillizzarlo: il proposito dei malfattori è assai difficilmente realizzabile. Basta pensare, — senza smettere di parlare, l’ospite si voltò e proseguí: — pedinare un uomo, ammazzarlo, e per di piú sapere quanto ha preso e riuscire a restituire il denaro a Caifa, e tutto questo in una sola notte! Oggi!
— Eppure lo ammazzeranno oggi, — ripeté Pilato con ostinazione. — Ti dico che ne ho il presentimento! Non è mai successo che m’ingannasse! — Il volto del procuratore fu percorso da una smorfia, ed egli si fregò in fretta le mani.
— Ubbidisco, — rispose l’ospite docilmente, si alzò, si drizzò, e all’improvviso chiese con severità: — Allora lo ammazzeranno, egemone?
— Sí, — rispose Pilato, — e ogni speranza è riposta nella tua sbalorditiva efficienza.
L’ospite si aggiustò il pesante cinturone sotto il mantello e disse:
— Ti saluto, ti auguro salute e gioia!
— Ah sí, — esclamò sommessamente Pilato, — me ne ero dimenticato! Ti sono debitore!…
L’ospite si stupí:
— Davvero, procuratore, non mi devi niente.
— Ma come? Quando arrivai a Jerushalajim, ricordi, la folla di mendicanti… volevo buttar loro del denaro, ma non ne avevo con me, e ne presi da te.
— Oh, procuratore, è un’inezia!
— Bisogna ricordare anche le inezie — . Pilato si voltò, sollevò il mantello che stava sulla scranna dietro di lui, prese una borsa di pelle che si trovava sotto ad esso e la tese all’ospite. Questi fece un inchino accettandola, e la nascose sotto il suo mantello.
— Aspetto, — disse Pilato, — la relazione sulla sepoltura nonché su Giuda di Kiriat questa notte stessa, mi senti, Afranio, oggi. La guardia avrà l’ordine di svegliarmi non appena tu arriverai. Ti aspetto.
— Ti saluto, — disse il capo del servizio segreto e voltandosi, uscí dal balcone. Si udí la sabbia bagnata scricchiolare sotto i suoi piedi, poi si sentí lo scalpiccio dei suoi stivali sul marmo tra i leoni, poi gli sparirono le gambe, il torso, e infine scomparve anche il cappuccio. Solo allora il procuratore si accorse che il sole non c’era piú, e che era sopraggiunto il crepuscolo.