CAPITOLO VENTOTTESIMO Ultime avventure di Korov’ev e Behemoth



Fossero davvero sagome, o si trattasse solo di un’allucinazione dei terrorizzati inquilini della malaugurata casa sulla Sadovaja, non lo si può naturalmente dire con esattezza. Se erano loro, dove fossero diretti non lo sa nessuno. Dove si separarono, neppure questo si può dire.

Sappiamo però che dopo un quarto d’ora circa dall’inizio dell’incendio sulla Sadovaja, presso le porte a vetri del Torgsin[22] sul mercato Smolenskij apparve un signore alto vestito a quadretti, e con lui c’era un grosso gatto nero.

Sgusciando agilmente tra i passanti, il signore aprí la porta esterna del negozio. Ma un portiere piccolo, ossuto e oltremodo malevolo gli sbarrò il passo dicendogli con irritazione:

— Proibito entrare coi gatti!

— Chiedo scusa, — dice con voce tremula lo spilungone e avvicinò la mano nodosa all’orecchio come se fosse duro di udito: — coi gatti, dice? Ma dove li vede, i gatti?

Il portiere strabuzzò gli occhi, e c’era di che: ai piedi del signore non c’era piú alcun gatto, invece, alle sue spalle, sporgeva, spingendosi nel negozio, un grassone dal berretto strappato, la cui grinta somigliava effettivamente un po’ a quella d’un gatto. In mano, il grassone teneva un fornello a petrolio.

Quella coppietta di visitatori non piacque al portiere misantropo.

— Da noi si compra solo con valuta estera![23] — borbogliò, guardando irritato da sotto le cespugliose sopracciglia grigie che parevano rosicchiate dalle tarme.

— Carissimo, — disse con voce tremula lo spilungone, il cui occhio scintillava attraverso gli occhiali a stringinaso rotti, — ma lei come fa a sapere che io non ne ho? Lei giudica dal vestito? Non lo faccia mai, eccellentissimo guardiano! Potrebbe sbagliare, e di grosso. Si rilegga almeno la storia del celebre califfo Harun al-Rashid. Ma nel presente caso, tralasciando per il momento questa storia, desidero dirle che mi lagnerò di lei col direttore, e gli dirò tali cose sul suo conto che temo le toccherà lasciare il suo posto tra queste porte scintillanti.

— Magari il mio fornello è pieno di valuta, — s’intromise con foga nella conversazione il grassone dall’aspetto di gatto, che continuava a spingere per entrare.

Dietro, il pubblico stava già premendo e arrabbiandosi. Guardando con odio e sospetto la strana coppietta, il portiere si scostò, e i nostri conoscenti, Korov’ev e Behemoth, si ritrovarono nel negozio. Qui, per prima cosa, si guardarono intorno, e poi, con voce sonora, che si sentiva decisamente in tutti gli angoli, Korov’ev dichiarò:

— Splendido negozio! Bello, bellissimo!

Il pubblico intorno ai banchi di vendita si voltò a guardare con sorpresa chi aveva parlato, anche se questi aveva ben ragione di lodare il negozio.

Centinaia di pezze d’indiana dai ricchissimi disegni facevano bella mostra sugli scaffali. Dietro di loro si ammucchiavano calicò e mussole e panni finissimi. In prospettiva si vedevano intere colonne di scatole di calzature, e alcune signore sedevano su bassi seggiolini col piede destro calzato in una scarpa vecchia e logora, e quello sinistro infilato in una scarpina nuova, luccicante, con la quale pestavano preoccupate il tappeto. In fondo, dietro l’angolo, cantavano e suonavano grammofoni.

Tuttavia, trascurando queste delizie, Korov’ev e Behemoth si diressero verso i reparti gastronomici e dolciari. Qui c’era molto spazio, e le signore con in testa fazzoletti o berrettini non si accalcavano contro i banchi di vendita come nel reparto tessuti.

Un uomo piccolo, completamente quadrato, rasato tanto da avere una sfumatura azzurra con gli occhiali cerchiati di corno, con un cappello nuovissimo non sgualcito, dal nastro senza alcuna macchia, con un soprabito violetto e guanti rossicci di daino, stava presso il banco e mugolava qualcosa in tono imperioso. Il commesso col lindo camice bianco e il berrettino azzurro serviva il cliente violetto. Con un taglientissimo coltello, che assomigliava molto a quello rubato da Levi Matteo, a un roseo salmone che stillava lacrime di grasso stava togliendo la pelle dai riflessi argentei simile a quella d’un serpente.

— Anche questo reparto è stupendo, — riconobbe solennemente Korov’ev, — e anche lo straniero è simpatico, — e indicò benevolmente col dito la schiena violetta.

— No, Fagotto, no, — rispose pensieroso Behemoth, — ti sbagli, amico mio: sulla faccia del gentiluomo violetto, secondo me, manca qualcosa.

La schiena violetta sussultò, ma probabilmente per caso, poiché lo straniero non poteva capire ciò che stavano dicendo in russo Korov’ev e il suo accompagnatore.

— Bono? — chiese severo l’acquirente violetto.

— Stupendo! — rispose il commesso, frugando civettuolo con la punta del coltello sotto la pelle.

— Bono io amare, cattivo no amare, — disse con austerità lo straniero.

— Certamente! — rispose con entusiasmo il commesso.

A questo punto, i nostri conoscenti si allontanarono dallo straniero e dal suo salmone, dirigendosi verso il banco della pasticceria.

— Fa caldo oggi, — disse Korov’ev a una giovane commessa dalle guance rosse, che non gli diede risposta alcuna. — Quanto costano i mandarini? — le chiese allora Korov’ev.

— Trenta copeche al chilo, — rispose la commessa.

— È proprio cattiva, — osservò Korov’ev con un sospiro, — he… he… — rifletté ancora un po’, poi propose al compagno: — Mangia, Behemoth.

Il grassone si mise il fornello sotto un braccio, si impadroní del mandarino in cima alla piramide, e dopo averlo inghiottito con la buccia, ne addentò un altro.

La commessa fu presa da un terrore mortale.

— Siete pazzi! — gridava, perdendo il suo colore, — datemi lo scontrino! Lo scontrino! — e lasciò cadere la pinza dei dolci.

— Tesoro, cara, bellezza mia, — disse rauco Korov’ev chinandosi sopra il banco e facendo l’occhiolino alla commessa, — non abbiamo valuta oggi, che ci vuoi fare? Ma giuro che la prossima volta, e comunque non oltre lunedí, pagheremo tutto in contanti! Stiamo qui vicino, sulla Sadovaja, dove c’è l’incendio…

Behemoth, inghiottito il terzo mandarino, infilò la zampa in un complicato castello di tavolette di cioccolata, ne tirò fuori una dal basso, il che naturalmente fece crollare tutta la costruzione, e la trangugiò insieme con la stagnola dorata.

I venditori del banco del pesce impietrirono con i loro coltelli in mano, lo straniero violetto si voltò verso i malandrini, e qui si scoprí che Behemoth aveva avuto torto: non solo all’uomo violetto non mancava nulla in faccia, anzi, aveva qualcosa di troppo: guance pendule e occhi sfuggenti.

Completamente ingiallita, la commessa gridò attraverso tutto il negozio con voce angosciata:

— Palosič! Palosič!

Il pubblico del reparto tessuti si riversò verso il punto da cui proveniva il grido, mentre Behemoth si allontanò dalle tentazioni dolciarie e ficcò la zampa in una botte con la scritta: «Aringhe scelte di Kerč’», ne trasse fuori un paio e le inghiottí, sputando le code.

— Palosič! — si ripeté il grido disperato dietro il banco della pasticceria, mentre dietro quello del pesce un commesso con la barbetta a punta ringhiò:

— Cosa fai, porcaccione?!

Pavel Iosifovič stava già affrettandosi verso il luogo dell’azione. Era un uomo prestante, col lindo camice bianco da chirurgo e con la matita che sporgeva dal taschino. Pavel Iosifovič era evidentemente una persona navigata. Quando vide nella bocca di Behemoth la coda della terza aringa, afferrò in un batter d’occhio la situazione, capí tutto e, senza perdersi in discussioni con gli insolenti, fece un gesto con la mano e ordinò:

— Fischia!

Il portiere balzò dalla porta a vetri sull’angolo dello Smolenskij e lanciò un fischio sinistro. Il pubblico cominciò a circondare i furfanti, e allora Korov’ev intervenne.

— Signori! — esclamò con sottile voce vibrante, — che succede? Eh? Permettete che ve lo chieda! Un pover’uomo, — Korov’ev fece tremare la voce e indicò Behemoth che assunse immediatamente un’espressione piagnucolosa, — un pover’uomo trascorre il giorno intero ad aggiustare fornelli a petrolio. Ha fame… Dove la prende la valuta?

Pavel Iosifovič, di solito controllato e calmo, gridò allora con severità:

— Lascia perdere! — e fece di nuovo un gesto con la mano, questa volta con impazienza. Allora i trilli alla porta risuonarono piú allegri.

Ma Korov’ev, senza lasciarsi turbare dall’intervento di Pavel Iosifovič, continuava:

— Dove? Lo chiedo a tutti! È sfinito dalla fame e dalla sete, ha caldo! Ma sí, il poveretto ha assaggiato un mandarino. Un mandarino che vale tre copeche. E già stanno fischiando, come gli usignoli in primavera nella foresta, disturbano la polizia, non la lasciano lavorare. Ma lui, il diritto lo ha, lui sí? — qui Korov’ev indicò il grassone violetto, al che sul suo volto si dipinse una profondissima inquietudine. — Chi è? Eh? Da dove viene? Perché? Stavamo male senza di lui? L’abbiamo forse invitato noi? Certo, storcendo sarcasticamente la bocca urlava l’ex maestro di cappella con quanta voce aveva in corpo, — lui ha un elegante vestito violetto, è grasso per tutto il salmone che si è pappato, è imbottito di valuta straniera, ma il concittadino nostro eh?!… Oh, che amarezza! Che amarezza! — ululò Korov’ev come un testimone degli sposi a un antico matrimonio.[24]

Tutto questo discorso stupidissimo, senza tatto, e, probabilmente, politicamente pericoloso, fece sussultare irosamente Pavel Iosifovič, ma, per quanto strano, dagli occhi del pubblico che si affollava intorno, si vedeva che in molte persone esso aveva suscitato simpatia. E quando Behemoth, portando la sporca manica stracciata all’occhio, esclamò tragicamente:

— Grazie, amico fedele, hai difeso un innocente! — successe un miracolo. Un distintissimo quieto vecchietto, dal vestito dimesso ma pulito, un vecchietto che stava comperando tre paste alla mandorla nel reparto pasticceria, a un tratto si trasformò. I suoi occhi scintillarono di un fuoco battagliero, divenne di porpora, gettò in terra il picchettino di dolci e gridò:

— È vero! — con un’esile vocetta infantile. Poi afferrò il vassoio, spazzandone i resti della torre Eiffel di cioccolata che Behemoth aveva fatto crollare, lo sollevò, con la sinistra strappò via il cappello dalla testa dello straniero e con la destra sbatté di slancio il vassoio sulla sua testa calva. Echeggiò un suono come quando da un autocarro si gettano per terra delle lamiere. Il grassone, impallidendo cadde all’indietro e si sedette nella tinozza delle aringhe di Kerč’, sollevando una fontana di salamoia. Allora avvenne il secondo miracolo: l’uomo violetto, caduto nella tinozza, urlò in purissima lingua russa, senza la minima traccia di accento straniero:

— Aiuto! Polizia! Dei banditi mi ammazzano! — Evidentemente, in seguito alla scossa, era diventato improvvisamente padrone di una lingua che fino allora gli era sconosciuta.

Allora il trillo del portiere cessò, e tra i capannelli di acquirenti agitati balenarono, avvicinandosi, gli elmetti di due poliziotti. Ma il perfido Behemoth, come in un bagno a vapore gettano l’acqua da una bacinella sopra la panca col fornello gettò del petrolio sul banco, che si incendiò. La fiammata guizzò in alto e corse lungo il banco, divorando i bei nastri di carta disposti sui cestini della frutta. Le commesse, strillando, si precipitarono fuori dal banco e non appena ne furono balzate, presero fuoco le tende di lino delle finestre, e si accese il petrolio sparso in terra.

Il pubblico, con urla terribili, si gettò fuori dalla pasticceria travolgendo l’ormai inutile Pavel Iosifovič, mentre da dietro il banco del pesce i commessi coi loro coltelli taglienti trottavano in fila indiana verso l’uscita di servizio.

L’uomo violetto, strappatosi dalla tinozza, tutto bagnato di salamoia, scavalcò il salmone sul banco e li seguí. Tintinnarono e caddero i vetri della porta d’uscita, sfondati dalla gente che cercava scampo, mentre i due furfanti, sia Korov’ev sia quel ghiottone di Behemoth, erano scomparsi, e non si capiva dove. Solo piú tardi i testimoni che avevano assistito all’inizio dell’incendio nel Torgsin sullo Smolenskij raccontarono che i due lestofanti sarebbero volati verso il soffitto e là sarebbero entrambi scoppiati come palloncini. Naturalmente, è dubbio che le cose fossero andate proprio cosí, ma quello che non sappiamo, non possiamo raccontarlo.

Sappiamo tuttavia che un minuto esatto dopo gli avvenimenti sullo Smolenskij, Behemoth e Korov’ev si trovavano già sul marciapiede di un viale, vicino alla casa della zia di Griboedov. Korov’ev si fermò presso la cancellata e disse:

— Ehi! Ma è la casa degli scrittori! Sai, Behemoth, ne ho sentito parlare in termini molto lusinghieri. Rivolgi la tua attenzione a questa casa, amico mio. Fa piacere pensare che sotto questo tetto si nasconde e matura un subisso di ingegni.

— Come ananas nelle serre, — disse Behemoth e, per meglio ammirare la casa color crema con le colonne, salí sullo zoccolo di cemento armato della cancellata di ghisa.

— Esattissimo, — convenne Korov’ev col suo inseparabile compagno, — e un turbamento soave s’appressa al cuore, se pensi che in questa casa sta maturando il futuro autore del Don Chisciotte, o del Faust, o, il diavolo mi porti, delle Anime morte! Eh?

— Fa paura pensarlo, — confermò Behemoth.

— Sí, — continuò Korov’ev, — ci si può aspettare cose stupefacenti dalle serre di questa casa, che sotto il suo tetto unisce alcune migliaia di asceti decisi a consacrare la propria vita al servizio di Melpomene, Polinnia e Talia. Te lo immagini lo scalpore, quando uno di loro, tanto per cominciare, offrirà ai lettori L’ispettore o, nel peggiore dei casi, l’Evgenij Onegin?

— Semplicissimo! — confermò di nuovo Behemoth.

— Sí, — continuò Korov’ev e alzò preoccupato un dito: Ma!… Ma, dico io, e ripeto questo «ma»!… Se su questi teneri virgulti da serra non piomberà qualche microrganismo, se esso non li roderà alla radice, se non marciranno! E questo capita con gli ananas! Ahi-ahi-ahi! E come capita!

— A proposito, — s’informò Behemoth ficcando la testa rotonda in un buco della cancellata, — che stanno facendo sulla veranda?

— Pranzano, — spiegò Korov’ev, — e aggiungerò, caro mio, che c’è qui un ristorante niente male e niente caro. E io, tra l’altro, come qualsiasi turista in procinto di riprendere il viaggio, sento il desiderio di fare uno spuntino e di bere un bel boccale di birra gelata.

— Anch’io, — rispose Behemoth, e i due furfanti si incamminarono per il sentiero asfaltato sotto i tigli, dritti verso la veranda del ristorante che non presentiva la sciagura.

Una donna pallida e annoiata con i calzini bianchi e un basco bianco sedeva su una sedia di vimini presso l’ingresso della veranda all’angolo, dove tra il verde del pergolato era stata praticata un’apertura d’accesso. Davanti a lei, su un comune tavolo da cucina, stava un grosso registro, in cui la donna, per scopi ignoti, scriveva i nomi di coloro che entravano nel ristorante. Fu proprio lei a fermare Korov’ev e Behemoth.

— Le loro tessere? — disse, guardando con stupore gli occhiali a molla di Korov’ev, nonché il fornello di Behemoth e il gomito lacerato dello stesso.

— Mi scusi tanto, quali tessere? — chiese sorpreso Korov’ev.

— Sono scrittori? — chiese a sua volta la donna.

— Indubbiamente, — rispose Korov’ev con dignità.

— Le loro tessere? — ripeté la donna.

— Bellezza mia… — cominciò tenero Korov’ev.

— Non sono una bellezza, — lo interruppe la donna.

— Oh, che peccato, — disse deluso Korov’ev, e continuò

— Va bene, se lei non desidera essere una bellezza, il che sarebbe stato molto piacevole, può fare a meno di esserla. Dunque, per convincersi che Dostoevskij è uno scrittore, possibile che sia necessario chiedergli la tessera? Ma prenda cinque pagine qualsiasi di qualsiasi suo romanzo, e senza alcuna tessera si convincerà di avere a che fare con uno scrittore. Del resto, immagino che di tessere, non ne avesse neppure una! Che ne pensi? — chiese a Behemoth.

— Scommetto che non ne aveva, — rispose quello, posando il fornello sul tavolo vicino al registro e asciugandosi con una mano il sudore dalla fronte sporca di fuliggine.

— Lei non è Dostoevskij, — disse la donna a cui Korov’ev faceva perdere il filo.

— Be’, chi lo sa, chi lo sa, — rispose lui.

— Dostoevskij è morto, — disse la donna, ma con poca convinzione.

— Protesto! — esclamò calorosamente Korov’ev. — Dostoevskij è immortale.

— Le loro tessere, signori, — disse la donna.

— Ma scusi, alla fin fine sta diventando ridicolo! — non si dava pace Korov’ev. — Non è la tessera che determina lo scrittore, ma ciò che egli scrive. Come fa a sapere quali idee sciamano nella mia testa? O in questa? — e indicò la testa di Behemoth, che si tolse immediatamente il berretto, come se facesse quel gesto affinché la donna potesse esaminarla meglio.

— Lascino libero il passaggio, — disse la donna, innervosendosi.

Korov’ev e Behemoth si scostarono e lasciarono passare uno scrittore vestito di grigio, con la bianca camicia estiva senza cravatta dal colletto largamente rovesciato sopra la giacca, e con un giornale sotto il braccio. Lo scrittore salutò affabilmente con un cenno del capo la donna, quasi senza fermarsi fece uno scarabocchio nel registro che gli era stato presentato, e si diresse verso la veranda.

— Ahimè, non a noi, — disse triste Korov’ev, — ma a lui andrà a finire quel boccale di birra gelata che noi due, poveri pellegrini, avevamo tanto sognato. La nostra posizione è triste e difficoltosa, e non so come fare.

Behemoth si limitò ad allargare sconsolato le braccia, e infilò il berretto a visiera sulla testa rotonda coperta dai folti capelli molto simili ai peli di un gatto.

In quel momento, una voce sommessa ma imperiosa risuonò sopra la testa della donna:

— Li lasci entrare, Sof’ja Pavlovna.

La donna col registro si stupí. Tra il verde del pergolato era comparso il bianco sparato e la barba a punta del filibustiere. Guardava affabilmente quei due equivoci pezzenti, anzi, rivolgeva loro gesti d’invito. L’autorità di Arčibald Arčibal’dovic aveva molto peso nel ristorante da lui diretto, e Sof’ja Pavlovna chiese docilmente a Korov’ev:

— Come si chiama?

— Panaev, — rispose quegli urbanamente. La donna segnò il nome e alzò gli occhi con espressione interrogativa verso Behemoth.

— Skabicevskij, — pigolò quegli, indicando, chi sa perché, il suo fornello. Sof’ja Pavlovna segnò anche questo nome, e porse il registro ai visitatori, affinché vi apponessero le proprie firme. Korov’ev scrisse «Skabicevskij» sulla riga di Panaev, mentre Behemoth segnò «Panaev» su quella di Skabicevskij.[25]

Arčibal’d Arčibal’dovic, lasciando Sof’ja Pavlovna totalmente sbalordita, con un sorriso affascinante condusse gli ospiti verso il tavolo migliore all’estremità opposta della veranda, là dove si stendeva l’ombra piú fitta, un tavolo vicino al quale scintillava gaiamente il sole in uno squarcio del pergolato. Intanto, Sof’ja Pavlovna, sbattendo le palpebre dallo sbalordimento, studiò a lungo le strane firme apposte nel registro dagli inattesi ospiti.

Arčibal’d Arčibal’dovic sbalordí i camerieri non meno di Sof’ja Pavlovna. Scostò personalmente la sedia dal tavolo invitando Korov’ev a sedersi, ammiccò a uno, sussurrò qualcosa a un altro, e due camerieri s’indaffararono presso i nuovi ospiti, uno dei quali aveva messo il fornello a petrolio in terra vicino alla propria scarpa scolorita.

Scomparve immediatamente dal tavolo la vecchia tovaglia coperta di macchie gialle, ne volò in aria, cricchiando d’amido, un’altra bianchissima come un burnus beduino e intanto Arčibal’d Arčibal’dovic stava già sussurrando sommessamente, ma in modo molto espressivo, all’orecchio di Korov’ev su cui si era chinato

— Che cosa posso offrirle? Ho dello storione specialissimo… me lo sono procurato al congresso degli architetti…

— Lei… mm… ci porti degli antipasti… mm… — mugolò benevolo Korov’ev, sdraiandosi nella sedia.

— Capisco, — rispose con fare significativo Arčibal’d Arčibal’dovic, chiudendo gli occhi.

Vedendo il modo in cui il capo del ristorante trattava quei visitatori piú che equivoci, i camerieri abbandonarono i propri sospetti e si misero a lavorare sul serio. Uno stava già porgendo un fiammifero a Behemoth che aveva tolto dalla tasca un mozzicone e se lo era infilato in bocca un altro arrivò di volata con della cristalleria verde tintinnante e collocò presso le posate bicchierini, coppe e calici sottili da cui è cosí bello bere acqua minerale sotto il tendone… no, precorrendo i tempi dico: era cosí bello bere acqua minerale sotto il tendone dell’indimenticabile veranda del Griboedov.

— Posso proporre un filettino di pernice, — gorgheggiava musicalmente Arčibal’d Arčibal’dovic. L’ospite con gli occhiali incrinati approvò senza riserve l’offerta del comandante del brigantino e lo guardò benevolmente attraverso l’inutile vetro.

Il romanziere Petrakov-Suchovej, che, seduto al tavolo accanto in compagnia della consorte, stava terminando una costoletta di maiale, con il senso di osservazione proprio a tutti gli scrittori notò le premure di Arčibal’d Arčibal’dovic e si stupí molto, ma molto davvero. La sua consorte, una signora rispettabilissima, divenne addirittura gelosa delle premure che il pirata dimostrava per Korov’ev, e picchiettò perfino col cucchiaino, come a dire: «perché ci fanno aspettare?… Sarebbe ora di servire il gelato. Che succede?…»

Però, dopo aver fatto un affascinante sorriso all’indirizzo della Petrakova, Arčibal’d Arčibal’dovic mandò da lei un cameriere, ma non abbandonò i suoi cari ospiti. Oh, era acuto Arčibal’d Arčibal’dovic! E osservatore, poi, non meno degli stessi scrittori! Arčibal’d Arčibal’dovic sapeva dello spettacolo al Varietà e di molti altri avvenimenti successi in quei giorni, aveva sentito e, a differenza degli altri, aveva fatto attenzione alle parole «vestito a quadretti» e «gatto». Arčibal’d Arčibal’dovic aveva subito indovinato chi fossero i suoi visitatori. E avendolo indovinato, naturalmente non si era messo a litigare con loro. Quanto a Sof’ja Pavlovna, furba lei! Sbarrare l’ingresso della veranda a quei due! Come si fa a pensare una cosa simile! Ma sí in fondo, che cosa si può pretendere da una cosí!…

Infilando alteramente il cucchiaino nel gelato alla panna che si stava squagliando, la Petrakova guardava con aria insoddisfatta il tavolo che, davanti a quei due tipi vestiti come buffoni, si copriva di vivande come per magia. Foglie d’insalata lavate alla perfezione spuntavano da un vasetto pieno di caviale fresco… un attimo, e su un tavolino accostato appositamente per loro apparve un secchiello d’argento appannato…

Solo dopo aver controllato che tutto fosse stato eseguito a puntino, solo quando nelle mani dei camerieri arrivò di volo un tegame coperto in cui sfrigolava qualcosa, solo allora Arčibal’d Arčibal’dovic si permise di lasciare i due enigmatici visitatori, non senza prima aver sussurrato:

— Vogliano scusarmi! Un attimo solo! Vado soltanto a dare un’occhiata ai filettini!

Volò via dal tavolo e scomparve nel corridoio interno del ristorante. Se qualche osservatore avesse potuto seguire le ulteriori attività di Arčibal’d Arčibal’dovic queste gli sarebbero indubbiamente apparse alquanto enigmatiche.

Il capo non era affatto andato in cucina a sorvegliare i filettini, ma nella dispensa del ristorante. Aprí con la sua chiave, vi si rinchiuse, da un cassone pieno di ghiaccio tolse — accuratamente, per non sporcarsi i polsini — due pesanti storioni, li avvolse in carta da giornale, li legò per bene con dello spago e li mise da parte. Poi nella camera vicina controllò che fossero al loro posto il suo soprabito foderato di seta e il cappello, e solo allora si recò in cucina, dove il cuoco stava preparando con ogni cura i filettini promessi agli ospiti dal pirata.

Bisogna dire che di strano o d’incomprensibile nelle azioni di Arčibal’d Arčibal’dovic non c’era nulla, e strane queste azioni potevano sembrare soltanto a un osservatore superficiale. L’operato di Arčibal’d Arčibal’dovic derivava nel modo piú logico da tutto quanto precedeva. La conoscenza degli ultimi avvenimenti, ma soprattutto il formidabile intuito suggerivano al capo del ristorante del Griboedov che il pasto dei suoi ospiti, anche se copioso e fastoso, sarebbe stato oltremodo breve. E l’intuito che non ingannava mai l’ex filibustiere non lo ingannò neanche quella volta.

Mentre Korov’ev e Behemoth brindavano col secondo bicchierino di una meravigliosa vodka fresca speciale, apparve sulla veranda, sudato e agitato, il reporter Boba Kandalupskij, noto in tutta Mosca per la sua stupefacente onniscienza, e subito si sedette vicino ai Petrakov. Dopo aver poggiato sul tavolo la sua cartella rigonfia, Boba infilò immediatamente le labbra nell’orecchio di Petrakov e cominciò a sussurrarvi cose allettantissime. Madame Petrakova, che non ne poteva piú dalla curiosità, offrí anche il suo orecchio alle gonfie labbra burrose di Boba. Quello, lanciando ogni tanto intorno a sé occhiate furtive, sussurrava e sussurrava, e si potevano afferrare parole isolate come queste:

— Giuro sul mio onore! Sulla Sadovaja, sulla Sadovaja!… — Boba abbassò ancora di piú la voce, — non restano colpiti dalle pallottole… pallottole… pallottole… petrolio… incendio… pallottole…

— Questi impostori che diffondono voci vergognose, rombò con voce di contralto madame Petrakova alquanto piú forte di quanto avrebbe desiderato Boba, — quelli sí che andrebbero smascherati! Ma non importa, finirà proprio cosí, saranno messi a posto! Che malefiche menzogne!

— Ma che menzogne, Antonida Porfir’evna! — esclamò Boba rattristato dall’incredulità della moglie dello scrittore, e riprese a bisbigliare: — Ve lo dico che non restano colpiti dalle pallottole!… E adesso l’incendio… attraverso l’aria… l’aria! — Boba sibilava senza sospettare che coloro di cui parlava sedevano vicini a lui, godendosi i suoi sibili.

Del resto, questo godimento ebbe breve durata. Dal corridoio interno del ristorante irruppero sulla veranda tre uomini con la vita stretta da cinturoni, con le ghette e con le rivoltelle in mano. Il primo gridò con voce sonora e imperiosa:

— Fermi tutti! — e subito tutti e tre cominciarono a sparare nella veranda, mirando alla testa di Korov’ev e di Behemoth. Entrambi i bersagli si dissolsero immediatamente nell’aria, e dal fornello una colonna di fuoco guizzò dritta sul tendone. In esso si aprí un enorme buco dai bordi neri che cominciò ad allargarsi da ogni lato. Attraversato il tendone, il fuoco si alzò fino al tetto della casa di Griboedov. Le cartelle poste sulla finestra di una stanza della redazione al primo piano s’incendiarono di colpo, poi fu la volta delle tende, e da quel momento il fuoco, rombando come se qualcuno vi soffiasse dentro, penetrò a colonne nella casa della zia.

Alcuni secondi dopo, per i sentieri asfaltati che portavano ai cancelli di ghisa sul viale, da dove mercoledí sera era giunto, da tutti misconosciuto, il primo messaggero della sciagura, Ivanuška, ora correvano gli scrittori che avevano interrotto il pranzo, Sof’ja Pavlovna, la Petrakova, Petrakov.

Uscito tempestivamente dalla porta laterale, senza correre e senza affrettarsi, come un capitano che ha l’obbligo di abbandonare per ultimo il brigantino in fiamme, Arčibal’d Arčibal’dovic, con il soprabito estivo foderato di seta, se ne stava lí coi due pezzi di storione sotto il braccio.




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