Seguimi, lettore! Chi ti ha detto che non c’è al mondo un amore vero, fedele, eterno? Gli taglino la lingua malefica, a quel bugiardo.
Seguimi, lettor mio, segui me solo, e io ti mostrerò un simile amore!
No! S’ingannava il Maestro quando all’ospedale, verso mezzanotte, diceva con amarezza a Ivanuška che essa l’aveva dimenticato. Questo non poteva accadere. Lei, naturalmente, non l’aveva dimenticato.
Sveleremo, prima di tutto, un segreto che il Maestro non aveva voluto svelare a Ivanuška. La sua amante si chiamava Margherita Nikolaevna. Tutto quello che egli aveva detto di lei al povero poeta era la pura verità. Aveva descritto fedelmente la sua diletta. Essa era bella e intelligente. A questo va aggiunto qualcos’altro: si può dire con sicurezza che molte donne avrebbero dato qualunque cosa per scambiare la loro sorte con quella di Margherita Nikolaevna. Trentenne, senza figli, era la moglie di un insigne specialista il quale, inoltre, aveva fatto una grandissima. Scoperta d’importanza nazionale. Era un uomo giovane, bello, onesto e adorava sua moglie. Margherita Nikolaevna e il marito occupavano da soli tutto il piano superiore di una bellissima palazzina con giardino in uno dei vicoli vicino all’Arbat. Un sito incantevole! Chiunque potrà convincersene se vorrà recarsi in quel giardino. Basterà rivolgersi a me, gli darò l’indirizzo, gl’insegnerò la strada, la palazzina è tuttora intatta.
Margherita Nikolaevna non era a corto di quattrini, poteva comprarsi tutto quel che voleva. Fra i conoscenti di suo marito c’erano anche degli uomini interessanti. Margherita Nikolaevna non toccava mai il fornello a petrolio, non sapeva quanto fosse orribile la vita in un appartamento in comune. Insomma… era una donna felice? No, nemmeno per un minuto. Da quando, a diciannove anni, si era sposata ed era andata a vivere nella palazzina, non aveva conosciuto la felicità. Oh numi! Di che cosa, dunque, aveva bisogno quella donna? Di che cosa aveva bisogno quella donna nei cui occhi ardeva sempre un incomprensibile fuocherello? Di che cosa aveva bisogno quella strega, lievemente strabica da un occhio, che in quella primavera si era adornata di mimose? Non lo so, lo ignoro. Evidentemente essa diceva la verità, aveva bisogno di lui, del Maestro, e non d’una palazzina gotica, né di un giardino particolare, né di quattrini. Essa lo amava, diceva la verità.
Anche a me, narratore veridico, ma persona estranea, si stringe il cuore pensando a quel che provò Margherita quando arrivò il giorno dopo nella casetta del Maestro (senza aver potuto, per fortuna, parlare col marito che non era tornato all’ora stabilita) e apprese che il Maestro non c’era piú. Essa fece di tutto per sapere qualcosa di lui e, naturalmente, non riuscí a scoprir nulla. Allora ritornò alla palazzina e qui riprese a vivere.
Ma non appena scomparve la neve sudicia dai marciapiedi e dai selciati, non appena dallo sportellino della finestra entrò il primo soffio di vento primaverile, umidiccio e inquieto, Margherita Nikolaevna si sentí piú depressa che durante l’inverno. Spesso piangeva di nascosto un lungo amaro pianto. Non sapeva se amava un vivo o un morto. E piú passavano i giorni desolati, tanto piú spesso e soprattutto al crepuscolo, le veniva da pensare che era legata a un morto.
Bisognava che lo dimenticasse o morisse a sua volta.
Non poteva infatti continuare a far quella vita. Non poteva! Dimenticarlo a ogni costo… dimenticarlo! Ma lui non si lasciava dimenticare, questo era il guaio.
— Sí, sí, sí, questo fu lo sbaglio! — diceva Margherita, seduta davanti alla stufa e guardando il fuoco acceso in memoria di quello che ardeva ai tempi in cui egli scriveva Ponzio Pilato. — Perché andai via da lui quella notte? Perché? Fu una vera pazzia! Tornai il giorno dopo, lealmente, come avevo promesso, ma era tardi ormai. Sí, tornai come l’infelice Levi Matteo, troppo tardi!
Tutti questi discorsi erano, naturalmente, assurdi perché, diciamo la verità, che cosa sarebbe cambiato se quella notte essa fosse rimasta dal Maestro? L’avrebbe forse salvato? — Che idea ridicola!… — esclameremmo noi, ma non lo faremo di fronte a una donna ridotta alla disperazione.
Il giorno stesso in cui successe tutto l’assurdo scompiglio provocato dall’arrivo del mago nero a Mosca, il venerdí in cui lo zio di Berlioz fu spedito indietro a Kiev, in cui fu arrestato il ragioniere e accaddero tante altre cose stupide e incomprensibili, Margherita si destò verso mezzogiorno nella sua camera da letto in cui c’era un bovindo che terminava con la torre della palazzina.
Al suo risveglio Margherita non scoppiò a piangere come le succedeva spesso, giacché si era svegliata col presentimento che quel giorno, finalmente, qualcosa sarebbe avvenuto. Appena fu conscia di questo presentimento, si diede a scaldarlo e ad alimentarlo nella sua anima per timore che esso l’abbandonasse.
— Ci credo! — sussurrava solennemente Margherita. — Ci credo! Qualcosa accadrà! Non può non accadere, poiché, infatti, per qual motivo dovrei esser condannata a un tormento che dura tutta la vita? Riconosco d’aver mentito e ingannato d’aver vissuto una vita segreta, celata alla gente, ma non si può punirmi per questo cosí crudelmente… Qualcosa accadrà di sicuro giacché è impossibile che qualcosa duri in eterno. E inoltre il mio era un sogno profetico, questo lo garantisco…
Cosí sussurrava Margherita Nikolaevna, mentre guardava le tende color rosso acceso inondate dal sole, si vestiva febbrilmente, si pettinava davanti allo specchio a tre luci i corti capelli arricciati.
Il sogno che Margherita aveva fatto quella notte era veramente insolito. È un fatto che durante il suo martirio invernale essa non aveva mai sognato il Maestro. Di notte la lasciava ed essa si tormentava soltanto durante le ore diurne. Ma quella volta l’aveva sognato.
Margherita aveva sognato un sito sconosciuto, desolato triste, sotto il cielo fosco della primavera precoce. Aveva sognato quel cielo grigiognolo, pezzato di nuvole in corsa e sotto uno stormo silenzioso di cornacchie. Un piccolo ponte rozzo, sotto di esso un torbido fiumicello primaverile. Alberi malinconici, stenti, semispogli. Una tremula solitaria e piú lontano, fra gli alberi, al di là di un orto, una casupola di tronchi, forse una cucina isolata, oppure un capanno da bagno o sa il diavolo che cosa! Tutto intorno un non so che di morto e di cosí triste, che veniva voglia d’impiccarsi a quella tremula vicino al ponticello. Che sito infernale per una persona viva!
Ed ecco, figuratevi, si spalanca la porta di questo edificio di tronchi e appare lui. È piuttosto lontano, ma chiaramente visibile. E lacero, non si riesce a capire che cosa indossi. Ha i capelli arruffati, la barba lunga. Occhi da ammalato, pieni d’apprensione. Le fa cenno con la mano, la chiama. Soffocando nell’aria morta, Margherita corse sulle zolle verso di lui e in quel momento si destò.
«Questo sogno significa soltanto due cose, — ragionava fra sé Margherita Nikolaevna. — Se è morto e mi faceva cenno, significa che è venuto a prendermi e che presto morrò. Sarebbe una bella cosa, perché cosí avrei finito di soffrire. Oppure è vivo, e allora il sogno può significare una cosa sola, che egli si ricorda di me! Vuol dire che ci rivedremo ancora… Sí, ci rivedremo molto presto!»
In quello stesso stato di eccitazione, Margherita si vestí e cominciò a persuadersi che, in fondo, tutto prendeva una piega molto favorevole e questi momenti favorevoli bisogna saperli cogliere e approfittarne. Suo marito era partito in missione per tre giorni interi. Per questi tre giorni essa era lasciata a se stessa, nessuno le avrebbe impedito di pensare a quel che voleva, di sognare quel che le piaceva. Tutte le cinque stanze dell’ultimo piano della palazzina, tutto questo appartamento che a Mosca le avrebbero invidiato decine di migliaia di persone, era a sua completa disposizione.
Eppure, rimasta libera per tre giorni interi, di tutto questo lussuoso appartamento Margherita scelse il posto di gran lunga peggiore. Dopo aver preso il tè, andò nella stanza buia, senza finestre, dove si custodivano le valige e ciarpame d’ogni genere in due grandi armadi. Si accoccolò davanti al primo di essi, aprí il cassetto inferiore e di sotto a un mucchio di ritagli di seta trasse l’unica cosa preziosa che possedesse nella vita. Fra le mani di Margherita comparve cosí un vecchio album di pelle bruna in cui c’era una fotografia del Maestro, un libretto di risparmio con un deposito di diecimila rubli, intestato a lui, i petali di una rosa secca, appiattiti in mezzo a foglietti di carta velina e un pezzo di quaderno, tutto un quinterno, scritto a macchina e col margine inferiore bruciacchiato.
Tornata con queste ricchezze nella sua camera da letto, Margherita Nikolaevna collocò la foto sullo specchio a tre luci e rimase seduta circa un’ora, tenendo sulle ginocchia il quaderno rovinato dal fuoco, sfogliandolo e rileggendo quello che, dopo la bruciatura, non aveva né capo né coda: «… Le tenebre venute dal Mediterraneo coprirono la città odiata dal procuratore. Scomparvero i ponti sospesi che univano il tempio alla terribile torre Antonia, calò dal cielo un gorgo che sommerse gli dèi alati sopra l’ippodromo, il palazzo degli Asmonei con le sue feritoie, i mercati, i caravanserragli, i vicoli, gli stagni… Sparí Jerushalajim, la grande città, come se non fosse mai esistita…»
Margherita avrebbe voluto leggere piú avanti, ma piú avanti non c’era nulla, all’infuori di una frangia disuguale carbonizzata.
Asciugandosi gli occhi, Margherita Nikolaevna depose il quaderno, appoggiò i gomiti sul tavolinetto che reggeva la specchiera e, riflessa nello specchio, rimase a lungo seduta senza staccare gli occhi dalla fotografia. Poi le lacrime si esaurirono. Margherita rimise insieme accuratamente i suoi averi; pochi minuti dopo erano di nuovo sepolti sotto gli straccetti di seta e la serratura si chiuse risonando nella stanza buia.
Margherita Nikolaevna indossò il mantello nell’ingresso per andare a passeggio. La bella Nataša, la sua cameriera, chiese che cosa doveva preparare come secondo piatto e ricevuta la risposta che ciò era indifferente, tanto per divertirsi avviò un discorso con la sua padrona e si mise a raccontare cose inaudite, per esempio che la sera prima al teatro un prestigiatore aveva eseguito certi giochi per cui tutti erano rimasti di stucco, aveva distribuito gratis a ognuno due boccette di profumo importato dall’estero e calze, ma poi, finito lo spettacolo, il pubblico era uscito nella via e tàcchete, tutti erano apparsi nudi! Margherita Nikolaevna si lasciò cadere sulla sedia sotto lo specchio dell’anticamera e scoppiò a ridere di gusto.
— Nataša! Via, come non si vergogna? — diceva Margherita Nikolaevna. — Una ragazza istruita, intelligente come lei… mentre fanno la coda raccontano tante di quelle frottole, e lei le ripete!
Nataša arrossí e replicò tutta infervorata che nessuno aveva raccontato frottole e che lei stessa quel giorno aveva visto coi suoi occhi nella drogheria sull’Arbat una signora che era entrata nel negozio con le scarpe e mentre pagava alla cassa, le scarpe le erano scomparse dai piedi ed era rimasta con le sole calze. Aveva sgranato gli occhi, nel calcagno c’era un buco! Ed erano scarpe fatate provenienti da quello stesso spettacolo!
— E se n’è andata via cosí?
— Sí, se n’è andata via cosí! — gridò Nataša, arrossendo sempre piú perché non le credevano. — E ieri notte, Margherita Nikolaevna, la polizia ha messo dentro un centinaio di persone. Dopo quello spettacolo c’erano delle signore che correvano per la Tverskaja con le sole mutandine addosso!
— Questo, naturalmente, l’avrà raccontato Dar’ja, — disse Margherita Nikolaevna. — Da un pezzo mi sono accorta che è una gran bugiarda.
Il comico discorso terminò con una sorpresa piacevole per Nataša. Margherita Nikolaevna andò in camera da letto e ne uscí tenendo in mano un paio di calze e un flacone d’acqua di colonia. Dicendo a Nataša che anche lei voleva fare un gioco di prestigio, Margherita Nikolaevna le regalò sia le calze che la boccetta e disse che la pregava di una cosa sola, di non correre con le sole calze per la Tverskaja e di non dar retta a Dar’ja. Dopo essersi abbracciate e baciate, padrona e cameriera si separarono.
Appoggiata al comodo, soffice schienale della poltrona del filobus, Margherita Nikolaevna procedeva lungo l’Arbat e a tratti pensava ai casi suoi, a tratti porgeva l’orecchio a quel che si bisbigliavano due signori seduti davanti a lei.
Ma quei due, che si voltavano ogni tanto per timore che qualcuno li sentisse, si sussurravano una storia assurda. Il tipo robusto, bene in carne, dai vispi occhietti porcini, seduto accanto al finestrino, parlava sottovoce col suo piccolo vicino di una bara che avevano dovuto chiudere con un panno nero…
— Ma non può essere! — sussurrava il piccoletto, sbalordito. — È una cosa inaudita!… E che ha fatto Želdybin?
In mezzo al rombo uniforme del filobus si sentiva dire dal finestrino:
— Istruttoria penale… uno scandalo… Insomma, un vero mistero!…
Con quei pezzetti frammentari Margherita Nikolaevna mise insieme alla meglio qualcosa di coerente. I due si sussurravano la storia di un defunto (di cui però non facevano il nome) al quale quel mattino avevano rubato la testa dalla bara. Era questo il motivo per cui, ora, quello stesso Želdybin era cosí turbato. E anche quei due che bisbigliavano in filobus dovevano avere a che fare col defunto derubato della testa.
— Avremo il tempo d’andare a comprare fiori? — chiese il piccolino, preoccupato. — La cremazione è fissata per le due, hai detto?
Alla fine Margherita Nikolaevna si stancò di stare ad ascoltare quelle chiacchiere misteriose su una testa trafugata dalla bara e si rallegrò che fosse venuto per lei il momento di scendere.
Pochi minuti dopo essa sedeva già su una panchina sotto il muro del Cremlino, in un posto dal quale poteva vedere il Maneggio.
Margherita socchiudeva gli occhi al sole smagliante, ripensava al sogno della notte, ricordava che esattamente un anno prima, giorno per giorno e ora per ora, essa sedeva su quella stessa panchina vicino a lui. E proprio come allora la sua borsetta nera le stava accanto sulla panchina. Quel giorno egli non era lí vicino, ma ciò nonostante Margherita Nikolaevna discorreva nel pensiero con lui. «Se t’hanno mandato al confino, perché non dài notizie di te? Dal confino si può scrivere. Non mi ami piú? No, non so perché ma non ci credo. Dunque, t’hanno mandato al confino, e sei morto… Allora, ti prego, lasciami stare, dammi finalmente la libertà di vivere, di respirare l’aria!…» Margherita Nikolaevna rispondeva lei stessa per lui: «Sei libera… ti trattengo forse?» Poi ribatteva: «No, che risposta è questa? No, escimi di mente, allora diventerò libera…»
La gente passava davanti a Margherita Nikolaevna. Un uomo sbirciò quella donna ben vestita, attratto dalla sua bellezza e dalla sua solitudine. Tossicchiò e s’accomodò all’estremità della panchina sulla quale sedeva Margherita Nikolaevna. Fattosi coraggio, egli cominciò a dire:
— Indiscutibilmente fa bel tempo, oggi…
Ma Margherita gli diede un’occhiata cosí cupa che egli si alzò e se n’andò.
«Eccoti un esempio, — disse mentalmente Margherita a colui che la possedeva. — Perché, in fondo, ho cacciato via quell’uomo? Mi annoio e in quel dongiovanni non c’era nulla di brutto, eccetto forse quella stupida parola «indiscutibilmente»… Perché siedo, come un barbagianni, sola sotto il muro? Perché sono esclusa dalla vita?»
S’immalinconí tutta e chinò il capo, sconsolata. Ma a questo punto un’ondata d’attesa e di eccitazione, la stessa che al mattino, le urtò d’un tratto il petto. «Sí, accadrà!» L’onda l’urtò una seconda volta e allora essa comprese che era un’onda sonora. Attraverso il rumore della città si udivano sempre piú distinti i colpi di un tamburo e il suono di alcune trombe stonate che s’avvicinavano.
Apparve per primo un poliziotto a cavallo che andava al passo lungo la cancellata del giardino e dietro di lui altri tre a piedi. Poi un autocarro con la banda, che avanzava lentamente. Piú lontano procedeva adagio un autofurgone funebre aperto, nuovo di zecca, sopra di esso una bara coperta di corone, e agli angoli della piattaforma quattro persone in piedi: tre uomini e una donna. Anche da lontano Margherita poteva notare che le persone che stavano nell’autofurgone funebre e accompagnavano il defunto nel suo ultimo viaggio, avevano delle facce stranamente sconcertate. Questo valeva soprattutto per la signora in piedi nell’angolo posteriore sinistro del furgone. Sembrava che qualche segreto piccante gonfiasse dall’interno le guance di questa signora, già di per sé paffute, e che nei suoi occhietti sepolti nel grasso brillassero piccole luci equivoche. Si aveva l’impressione che, da un momento all’altro, la signora, non potendo piú resistere, avrebbe ammiccato accennando al defunto e avrebbe detto: «S’è mai visto nulla di simile? Un vero mistero…» Non meno sconcertate erano le facce delle trecento persone, all’incirca, che seguivano a piedi, lentamente, l’autofurgone funebre.
Margherita seguiva con gli occhi il corteo, intanto porgeva orecchie alla lugubre grancassa che dileguava in lontananza emettendo sempre lo stesso «bum, bum bum» e pensava: «Che strano funerale… e che tristezza mette addosso quel «bum»! Ah, davvero, darei in pegno l’anima al diavolo pur di riuscire a sapere se lui è vivo o no!… Sarei curiosa di sapere chi portano a seppellire, con quelle facce cosí strane».
— Michail Aleksandrovič Berlioz, — disse accanto a lei una voce maschile un po’ nasale, — presidente del MASSOLIT.
Margherita Nikolaevna, stupita, si voltò e vide sulla sua panchina un signore che, evidentemente, le si era seduto a fianco senza far rumore mentre essa s’incantava a guardare il corteo e, com’è da presumere, nella sua distrazione aveva formulato ad alta voce la sua ultima domanda.
Il corteo, nel frattempo s’era soffermato, trattenuto probabilmente dai semafori che aveva davanti.
— Già, — continuò lo sconosciuto, — la loro situazione è straordinaria. Accompagnano un morto e si chiedono soltanto dove sia andata a finire la sua testa.
— Che testa? — domandò Margherita, guardando attentamente il suo inatteso vicino. Il quale vicino risultò essere un individuo di piccola statura, di pelo rosso fiamma, con una zanna che fuoriusciva, una camicia inamidata, un vestito a righe di buona qualità, scarpe basse di coppale e in testa una bombetta. Aveva una cravatta sgargiante. Quel che colpiva in lui era il fatto che dal taschino dove di solito gli uomini portano un fazzoletto o la stilografica spuntasse fuori un osso di pollo rosicchiato.
— Insomma, — spiegò il rosso — voglia considerare che questa mattina nella sala del Griboedov hanno portato via dalla bara la testa del defunto.
— Ma com’è possibile? — chiese suo malgrado Margherita, ricordandosi in quel momento del bisbiglio in filobus.
— Lo sa il diavolo, come! — rispose con impertinenza il rosso. — Io, però, credo che non sarebbe male chiederlo a Behemoth. L’hanno sgraffignata con un’abilità straordinaria! Una cosa mai vista!… E quel che piú conta è che non si capisce a chi e per quale uso possa servire quella testa!
Per quanto assorta nei suoi pensieri, Margherita Nikolaevna fu tuttavia colpita dalle strane fandonie dello sconosciuto.
— Permetta! — esclamò a un tratto. — Quale Berlioz?
Quello che oggi sui giornali…
— Già, già…
— Sicché, dunque, sono letterati quelli che camminano dietro la bara? — chiese Margherita e a un tratto digrignò i denti.
— Be’, naturalmente, lo sono!
— E lei li conosce di vista?
— Sí, tutti quanti, — rispose il rosso.
— Dica un po’, — prese a dire Margherita, e la sua voce si fece fioca, — non c’è fra di loro il critico Latunskij?
— Come potrebbe non esserci? — rispose il rosso. — È quello là, l’ultimo della quarta fila.
— Quel biondino? — domandò Margherita, socchiudendo le palpebre.
— Biondo cenere… vede, quello che ha alzato gli occhi al cielo!
— Quello che assomiglia a un prete cattolico?
— Proprio lui!
Margherita non chiese altro, intenta com’era a esaminare Latunskij.
— Lei, però, come vedo, — riattaccò sorridendo il rosso — lo odia, quel Latunskij.
— Ce n’è ancora un altro che odio, — rispose Margherita fra i denti, — ma non è interessante parlarne.
Il corteo intanto era passato e dietro di esso cominciavano a sfilare delle automobili per lo piú vuote.
— Certo, ha ragione, che c’è d’interessante in questo, Margherita Nikolaevna?
Margherita si stupí:
— Lei mi conosce?
Invece di rispondere, il rosso si tolse la bombetta e la riacchiappò al volo.
«Un vero ceffo da malandrino!», pensò Margherita, guardando con attenzione il suo interlocutore occasionale. — Io, però, non la conosco, — disse seccamente Margherita.
— E come potrebbe conoscermi? Invece io sono stato mandato da lei per un affaruccio.
Margherita impallidí e si scostò.
— Bisognava incominciare subito da questo, — disse, — e non far tante chiacchiere a proposito d’una testa tagliata! Lei mi vuole arrestare?
— Nemmeno per sogno! — esclamò il rosso, — ma le pare? Quando s’attacca discorso con qualcuno è soltanto per arrestarlo? Ho semplicemente un affaruccio da proporle.
— Non ci capisco niente, che affare?
Il rosso si guardò attorno e disse misteriosamente:
— Mi hanno mandato a invitarla in casa di qualcuno per questa sera.
— Cosa va farneticando, in casa di chi?
— Di un illustrissimo straniero, — disse significativamente il rosso, strizzando gli occhi.
Margherita andò su tutte le furie.
— È spuntata una nuova razza, quella del ruffiano di strada, — disse, alzandosi per andarsene.
— Ecco quel che si guadagna ad accettare certi incarichi! — esclamò il rosso, offeso, e brontolò dietro le spalle di Margherita che se ne andava: — Stupida!
— Mascalzone! — replicò lei, voltandosi, e subito dopo udí dietro di sé la voce del rosso:
— Le tenebre, venute dal Mediterraneo, coprirono la città odiata dal procuratore. Scomparvero i ponti sospesi che univano il tempio alla terribile torre Antonia… Sparí Jerushalajim, la grande città, come se non fosse mai esistita… Cosí sparisca lei, definitivamente col suo quaderno bruciacchiato e la sua rosa secca! Lei che sta qui seduta da sola sulla panchina e lo supplica di lasciarla in libertà, di lasciarle respirare l’aria, di uscirle dalla memoria!
Sbiancandosi in viso, Margherita tornò verso la panchina. Il rosso la guardava socchiudendo gli occhi.
— Non capisco nulla, — prese a dire sottovoce Margherita Nikolaevna. — Quanto ai foglietti, era ancora possibile riuscire a scoprire… insinuarsi, spiare… Nataša s’è lasciata corrompere, eh? Ma come ha fatto a conoscere i miei pensieri? — Essa contrasse il viso in una smorfia di dolore e soggiunse:
— Mi dica, chi è lei? Da che ufficio è stato mandato?
— Uffa, che noia… — borbottò il rosso e alzò la voce. — Scusi, le ho pur detto che non vengo da parte di nessun ufficio. Si sieda, per favore.
Margherita obbedí senza protestare, ma nondimeno, mentre si sedeva, domandò ancora una volta:
— Chi è lei?
— E va bene, mi chiamo Azazello, ma comunque questo non le dice proprio nulla.
— E non vuol dirmi com’è venuto a sapere dei foglietti e di quello che penso?
— No, non lo dico, — rispose asciutto Azazello.
— Lei, però, sa qualcosa di lui? — sussurrò Margherita con tono implorante.
— Be’, diciamo che so.
— La supplico, dica una cosa sola… è vivo?… Non mi tormenti!
— Be’, per vivo è vivo, — rispose a malincuore Azazello.
— Oh Dio!…
— Per favore, niente patemi e niente strilli, — disse Azazello, rannuvolandosi.
— Scusi, scusi, — mormorò Margherita, ormai soggiogata. — Io, naturalmente, ero arrabbiata con lei. Ma, ammetterà che quando s’invita per la strada una donna ad andare da qualcuno… non ho preconcetti, le assicuro, — Margherita sorrise mestamente, — ma non vedo mai stranieri, non ho nessuna voglia di frequentarli… inoltre, mio marito… il mio dramma sta in questo, che vivo con un uomo che non amo… ma ritengo che sarebbe indegno rovinare la sua vita… Io da lui non ho mai avuto altro che bene…
Azazello ascoltò con visibile noia questo discorso sconclusionato e disse severamente:
— La prego di star zitta un momentino.
Margherita tacque docilmente.
— La invito da uno straniero che non è affatto pericoloso. E nessuno al mondo saprà nulla di questa visita. Questo poi glielo garantisco.
— E perché avrebbe bisogno di me? — chiese Margherita con fare insinuante.
— Lo saprà in seguito.
— Capisco… devo darmi a lui, — disse pensierosa Margherita.
A questa frase Azazello grugní con espressione altera e rispose:
— Qualsiasi donna al mondo, glielo assicuro, sognerebbe di poterlo fare, — la faccia di Azazello si storse in un sogghigno, — ma la deluderò: questo non avverrà.
— Che cos’è questo straniero? — esclamò nel suo sgomento Margherita a voce cosí alta che coloro che passavano davanti alla panchina si voltarono verso di lei. — E quale interesse avrei ad andare da lui?
Azazello si chinò verso di lei e sussurrò molto significativamente:
— Be’, un interesse molto grande… lei approfitterebbe dell’occasione…
— Cosa? — esclamò Margherita, e sgranò gli occhi. — Se la capisco bene, lei insinua che là potrei sapere qualcosa di lui?
Azazello annuí col capo senza parlare.
— Andrò! — esclamò con forza Margherita e afferrò Azazello per il braccio. — Andrò dovunque!
Azazello, sbuffando dal sollievo, si lasciò andare sullo schienale della panchina, coprendo con la schiena la parola «Njura» che vi era incisa a grosse lettere e disse ironicamente:
— Che gente difficile, queste donne! — si ficcò le mani in tasca e allungò le gambe. — Perché, ad esempio, hanno mandato me per questa faccenda? Fosse venuto Behemoth, lui ha tanto fascino…
Margherita disse, con un sorriso forzato e amaro:
— La smetta di mistificarmi e di tormentarmi con i suoi enigmi. Io sono un’infelice e lei ne approfitta… Mi sto cacciando in uno strano pasticcio, ma, le giuro, soltanto perché mi ci ha tirato lei con quel che ha detto di lui! Mi fanno girar la testa, tutti quei misteri!
— Niente drammi, niente drammi, — rispose Azazello facendo le boccacce, — lei deve anche mettersi nei miei panni. Prendere a ceffoni un amministratore o sbatter fuori lo zio, o sparare a qualcuno o qualche altra bazzecola dello stesso genere rientra nella mia vera specialità. Ma discorrere con donne innamorate, questo poi no!… È già mezz’ora che cerco di persuaderla… Dunque, ci andrà?
— Sí, ci andrò, — rispose semplicemente Margherita Nikolaevna.
— E allora favorisca prender questo, — disse Azazello, e cavando di tasca una scatoletta d’oro rotonda, la porse a Margherita con queste parole: — La nasconda, però, se no
i passanti guarderanno. Le farà comodo, Margherita Nikolaevna, negli ultimi sei mesi lei è parecchio invecchiata dal dolore — . Margherita arrossí, ma non rispose, e Azazello continuò: — Questa sera, alle nove e mezzo in punto, si metta nuda e poi favorisca passarsi quest’unguento sul viso e su tutto il corpo. Dopo di che faccia quel che vuole, ma non si allontani dal telefono. Alle dieci la chiamerò e le dirò tutto quel che occorre. Non dovrà preoccuparsi di niente, la porteranno dov’è necessario e non le daranno il minimo disturbo. È chiaro?
Margherita tacque per un po’, poi rispose:
— Sí, è chiaro. Quest’oggetto è di oro vero, si vede dal peso. Be’, pazienza, capisco benissimo che mi stanno corrompendo e trascinando in una losca faccenda che dovrò pagar caro…
— Come sarebbe a dire? — s’infuriò quasi Azazello. Siamo da capo?
— No, aspetti!
— Mi dia indietro la crema!
Margherita strinse piú forte la scatoletta in mano e proseguí:
— No, aspetti… Io so a che cosa vado incontro, ma per lui sono pronta a tutto perché non c’è piú per me altra speranza al mondo. Ma una cosa le voglio dire: se lei mi rovina, dovrà vergognarsene! Sí, vergognarsene! Perché mi sarò rovinata per amore! — e, battendosi il petto, Margherita alzò gli occhi verso il sole.
— Me la ridia! — gridò Azazello, infuriato. — Me la ridia e vada tutto al diavolo. Mandino Behemoth!
— Oh no! — esclamò Margherita, facendo stupire i passanti. — Sono pronta a tutto, sono pronta a eseguire la commedia del massaggio con l’unguento, sono pronta ad andare a casa del diavolo! Non gliela ridò!
— Oibò! — urlò a un tratto Azazello e, sbarrando gli occhi, cominciò a indicare col dito la cancellata del giardino.
Margherita si volse dalla parte che Azazello indicava, ma non scoperse nulla di particolare. Allora si voltò verso Azazello per farsi spiegare quell’incongruo «Oibò!», ma non c’era nessuno per dare questa spiegazione: il misterioso interlocutore di Margherita Nikolaevna era scomparso.
Margherita ficcò la mano nella borsetta dove prima di quel grido aveva riposto la scatoletta, e si accertò che ci fosse ancora. Allora, senza piú pensare a nulla, scappò via di corsa dal giardino Aleksandrovskij.