CAPITOLO VENTISEIESIMO La sepoltura



Forse fu proprio a causa di quel crepuscolo che l’aspetto del procuratore cambiò bruscamente. Sembrava che fosse invecchiato e si fosse incurvato a vista d’occhio e inoltre era diventato inquieto. Guardò indietro e sussultò, quando lo sguardo cadde sulla scranna vuota, sul cui schienale era steso il mantello. Si avvicinava la notte festiva, le ombre serali giocavano il loro gioco e all’affaticato procuratore parve, probabilmente, che qualcuno sedesse in quella scranna vuota. Cedendo al timore, mosse il mantello, poi lo lasciò, e si mise a percorrere la loggia ora fregandosi le mani, ora accorrendo verso il tavolo e afferrando la coppa, ora fermandosi e guardando con occhi vuoti il mosaico del pavimento, come se cercasse di decifrarvi qualche segno…

In quel giorno, era già la seconda volta che lo afferrava la malinconia. Fregandosi la tempia, nella quale l’infernale dolore del mattino aveva lasciato solo un ricordo soffocato e vischioso, il procuratore si sforzava di capire la causa dei suoi tormenti interiori. E la capí rapidamente, ma cercò di ingannare se stesso. Gli era chiaro che quel mattino si era irreparabilmente lasciato sfuggire qualcosa, e adesso voleva ripararvi con azioni insignificanti e meschine, ma soprattutto tardive. L’inganno di se stesso consisteva nel fatto che il procuratore cercava di convincersi che le sue azioni, quelle attuali, della sera, non erano meno importanti della sentenza del mattino. Ma ci riusciva malissimo.

A una delle svolte si fermò di colpo e fischiò. In risposta rimbombò nel crepuscolo un basso latrato, e dal giardino balzò sulla loggia un gigantesco cane grigio dalle orecchie aguzze, con un collare ornato di piastre dorate.

— Banga, Banga, — gridò debolmente il procuratore.

Il cane si sollevò sulle zampe posteriori e pose quelle anteriori sulle spalle del padrone facendolo quasi cadere, e gli leccò la guancia. Il procuratore sedette sulla scranna. Banga, con la lingua penzoloni e il respiro frequente, si coricò ai piedi del padrone, e la gioia nei suoi occhi significava che era finito il temporale, unica cosa al mondo che l’impavido cane temesse, e anche che adesso si trovava di nuovo lí, accanto all’uomo che amava, rispettava e considerava il piú potente al mondo, signore di tutti, grazie al quale anch’esso si considerava un essere privilegiato, superiore e speciale. Coricato ai piedi del suo padrone, pur senza guardarlo, ma guardando il giardino avvolto dalla sera, capí subito che al suo padrone era successa una disgrazia. Perciò cambiò posa, si alzò, si avvicinò di lato, e pose le zampe anteriori e il muso sulle ginocchia del procuratore, sporcandogli l’orlo del mantello di sabbia umida. Le azioni di Banga dovevano probabilmente significare che cercava di consolare il suo padrone, ed era pronto ad affrontare con lui la mala sorte. Tentava di esprimere questo anche con gli occhi, rivolti al padrone, e con le aguzze orecchie drizzate. Cosí entrambi, il cane e l’uomo, affezionati l’uno all’altro, accolsero la notte festiva sul balcone.

Nel frattempo, l’ospite del procuratore si dava da fare.

Dopo aver lasciato la terrazza superiore del giardino di fronte alla loggia, scese per la scala verso la terrazza successiva, voltò a destra e si avvicinò alle caserme situate nel recinto del palazzo. Là erano dislocate le due centurie che erano giunte insieme al procuratore a Jerushalajim per le feste, nonché la guardia segreta del procuratore, comandata dall’ospite stesso. Questi trascorse nelle caserme poco meno di dieci minuti, ma dopo quel termine, dal cortile delle caserme uscirono tre carri carichi di attrezzi da zappatore e di un barile d’acqua. I carri erano scortati da quindici uomini a cavallo, con mantelli grigi. Accompagnati dai soldati, i carretti uscirono dal recinto del palazzo attraverso il portone posteriore, volsero a ovest, uscirono dalla porta della città e seguirono dapprima un sentiero verso la strada di Betlemme, poi questa strada verso nord giunsero fino all’incrocio presso la porta di Hebron e di lí presero la strada di Giaffa che in quel giorno era stata percorsa dalla processione con i condannati diretti verso il luogo del supplizio. A quell’ora faceva già buio e all’orizzonte spuntò la luna.

Poco dopo la partenza dei carri con il distaccamento che li scortava, si allontanò a cavallo dal palazzo anche l’ospite del procuratore, che adesso indossava un logoro chitone scuro. L’ospite si diresse non verso la campagna, bensí in città. Poco dopo lo si poteva vedere avvicinarsi alla fortezza Antonia, sita a nord, vicinissima al gran tempio. Anche nella fortezza, l’ospite si soffermò per un tempo brevissimo, poi ricomparve nella città bassa, nelle sue vie tortuose e intricate. Qui l’ospite giunse a dorso di mulo.

L’uomo, che conosceva bene la città, trovò facilmente la via che cercava. Portava il nome di Greca, perché vi si trovavano alcune botteghe greche, una delle quali vendeva tappeti. Proprio davanti a questa bottega l’ospite fermò il mulo, ne discese e lo legò a un anello infisso nel portone. La bottega era già chiusa. L’uomo entrò dal cancello vicino all’ingresso della bottega, e si ritrovò in un cortiletto quadrato circondato da magazzini. Voltato un angolo, giunse presso il terrazzo di pietra di una casa d’abitazione coperta di edera, e si guardò intorno. Sia nella casetta che nei magazzini faceva buio, non erano ancora stati accesi i lumi. L’ospite chiamò con voce sommessa:

— Nisa!

A questo appello, una porta scricchiolò, e nel crepuscolo serale apparve sul terrazzo una giovane donna senza velo.

Si chinò sulla balaustra, guardando inquieta, desiderosa di sapere chi fosse. Riconosciuto l’uomo, gli sorrise affabile, lo salutò con un cenno del capo e fece un gesto con la mano.

— Sei sola? — chiese sommessamente in greco Afranio.

— Sí, — sussurrò la donna sul terrazzo, — mio marito è partito stamane per Cesarea, — la donna si voltò a guardare la porta, e aggiunse in un sussurro: — ma la serva è in casa — . Fece un gesto che significava: «entra».

Afranio si guardò intorno e salí i gradini di pietra. Poi entrambi scomparvero nell’interno della casa. Dalla donna Afranio rimase brevissimo tempo, certo meno di cinque minuti. Poi lasciò casa e terrazzo, tirò ancora di piú il cappuccio sugli occhi e uscí in strada. In quel momento nelle case accendevano già i lumi, la calca del giorno di festa era ancora assai grande, e Afranio sul suo mulo si perse nel viavai di passanti e cavalieri. L’ulteriore suo cammino è ignoto a tutti.

La donna che Afranio aveva chiamato Nisa, rimasta sola, cominciò a cambiarsi in fretta e furia. Ma per quanto le riuscisse difficile trovare quanto le occorreva nella camera buia, non accese il lume, né chiamò la serva. Solo quando fu pronta e sulla testa ebbe posto un velo scuro si sentí la sua voce nella piccola casa:

— Se qualcuno chiede di me, di’ che sono da Enanta.

Si udí il borbottio della vecchia serva nell’oscurità:

— Da Enanta? Oh, questa Enanta! Tuo marito ti ha pur proibito di andare da lei! Fa la mezzana, la tua Enanta! Guarda che lo dirò a tuo marito…

— Su, su, smettila, — replicò Nisa, e come un’ombra scivolò fuori dalla casa. I suoi sandali batterono sulle lastre di pietra del cortile. Brontolando, la serva chiuse la porta che dava sul terrazzo. Nisa lasciò la sua casa.

Nello stesso momento, da un altro vicolo nella città bassa, un vicolo tortuoso che scendeva a scalinata verso uno degli stagni della città, dal cancello di una casa poco appariscente la cui facciata cieca dava sul vicolo mentre le finestre si aprivano sul cortile, uscí un uomo giovane dalla barbetta accuratamente spuntata, con in testa un fazzoletto bianco che ricadeva sulle spalle, in un nuovo taleth festivo azzurro con le nappine in basso, e coi sandali nuovi scricchiolanti. Il bell’uomo dal naso aquilino, vestito a festa camminava svelto, superando i passanti che si affrettavano a rientrare per la cena solenne, e guardava le finestre illuminarsi l’una dopo l’altra. Il giovane si dirigeva per la strada che, lungo il mercato, conduceva verso il palazzo del gran sacerdote Caifa, situato ai piedi della collina del tempio.

Poco dopo lo si poteva vedere mentre entrava nel portone del cortile di Caifa. Poco piú tardi, mentre lasciava questo stesso cortile.

Dopo la visita al palazzo, in cui erano già stati accesi candelabri e torce e dove ferveva il trambusto festivo, il giovane camminò con passo ancora piú allegro e vivace, e ritornò verso la città bassa. Proprio all’angolo dove la strada sboccava nella piazza del mercato, nel ribollire della calca, lo oltrepassò, con andatura di danza, una donna snella dal velo abbassato fin sugli occhi. Superando il bel giovanotto, la donna sollevò per un istante il velo, lanciò un’occhiata al giovane, ma non solo non rallentò il passo, bensí l’affrettò come se volesse nascondersi da colui che aveva superato.

Il giovane non solo notò la donna, no: la riconobbe, e riconosciutala, trasalí, si fermò guardandole perplesso la schiena, e di colpo si gettò a inseguirla. Facendo quasi cadere un passante con una caraffa in mano, il giovane raggiunse la donna e, col respiro pesante per l’emozione, l’apostrofò:

— Nisa!

La donna si voltò, socchiuse gli occhi, sul suo volto si dipinse un gelido fastidio, quindi rispose in greco:

— Ah, sei tu, Giuda? Non ti ho riconosciuto subito. Del resto, meglio cosí. Da noi si dice che chi non viene riconosciuto diventerà ricco…

Emozionato al punto che il suo cuore cominciò a saltare come un uccello coperto da un velo nero, Giuda chiese in un rotto sussurro, temendo di farsi udire dai passanti:

— Ma dove vai, Nisa?

— Che te ne importa? — rispose Nisa rallentando il passo e guardando Giuda con alterigia.

Allora nella voce di Giuda si udí un’intonazione infantile, ed egli sussurrò smarrito:

— Ma come… Se eravamo d’accordo… Volevo passare a casa tua, avevi detto che saresti stata in casa tutta la sera…

— Oh, no, no, — rispose Nisa, e sporse il labbro inferiore con un’espressione capricciosa, e a Giuda sembrò che il suo volto, il volto piú bello che avesse mai visto in vita sua, diventasse ancora piú bello, — mi sono annoiata. Voi avete la festa, ma io che dovrei fare? Starmene lí ad ascoltarti sospirare sul terrazzo? E per di piú, temere che la serva glielo vada a riferire? No, no, ho deciso: vado fuori città ad ascoltare il canto degli usignoli.

— Come fuori città? — chiese smarrito Giuda. — Da sola?

— Naturalmente, da sola, — rispose Nisa.

— Permettimi di accompagnarti, — chiese Giuda ansando. I suoi pensieri si erano fatti confusi, aveva dimenticato ogni cosa al mondo, e guardava con occhi supplici gli occhi azzurri di Nisa, che ora sembravano neri.

Nisa non rispose e affrettò il passo.

— Perché non dici niente, Nisa? — chiese querulo Giuda adattando la sua andatura a quella di lei.

— Non mi annoierò con te? — chiese all’improvviso Nisa fermandosi. Allora i pensieri di Giuda si confusero del tutto.

— Ma sí, — si addolcí infine Nisa, — andiamo pure.

— Ma dove, dove?

— Aspetta… entriamo in questo cortile e mettiamoci d’accordo, se no, temo che qualche conoscente mi veda e dica a mio marito che mi sono trovata col mio amante per strada.

Nel mercato non si videro piú né Nisa né Giuda: stavano sotto un portone a confabulare.

— Vai nel podere degli ulivi, — sussurrava Nisa tirandosi il velo sugli occhi e voltando la schiena a un uomo che entrava nel portone con un secchio in mano, — a Getsemani oltre il Kedron, hai capito?

— Sí, sí, sí…

— Io andrò avanti, — continuava Nisa, — ma tu non seguirmi da vicino, stai lontano da me. Io vado avanti… Quando avrai attraversato il torrente… Sai dov’è la grotta?

— Sí, lo so…

— Passerai oltre il frantoio, andrai su e girerai verso la grotta. Ti attenderò lí. Ma guai se mi segui subito, devi avere pazienza, aspetta qui, — con queste parole, Nisa uscí dal portone come se non avesse neppure parlato con Giuda.

Giuda rimase fermo da solo per un po’, cercando di concentrare i propri pensieri dispersi. Tra l’altro, si chiedeva come avrebbe spiegato ai familiari l’assenza dal pranzo festivo. Giuda cercava d’inventare una qualsiasi bugia, ma per l’emozione non gli venne in mente nulla e allora uscí lentamente dal portone.

Adesso cambiò direzione, non si affrettava piú verso la città bassa, ma svoltò invece verso il palazzo di Caifa. La festa era già irrotta nella città. Intorno a Giuda non solo alle finestre brillavano le luci, ma si udivano già i canti rituali. Sulla strada, i ritardatari incitavano gli asinelli, li frustavano, li ingiuriavano. I piedi di Giuda volavano, ed egli non si accorse come gli sfuggissero ai lati le tremende torri Antonie coperte di muschio, non sentí neanche l’urlo delle trombe nella fortezza, non fece caso a una pattuglia romana a cavallo con una torcia che inondò la sua strada d’una luce inquieta.

Passando accanto alla torre, Giuda si voltò e vide che a un’immensa altezza sopra il tempio erano stati accesi due giganteschi candelabri a cinque bracci. Ma Giuda li vide anch’essi come in una nebbia. Gli sembrò che sopra Jerushalajim vi fossero accese dieci lampade di grandezza mai vista, che facevano a gara con la luce di una lampada unica che si alzava sempre di piú sopra Jerushalajim: la luna.

Adesso a Giuda non interessava nulla, si affrettava verso la porta di Getsemani, voleva lasciare la città al piú presto. A volte gli sembrava che davanti a lui, tra le schiene e i volti dei passanti, balenasse una figura dall’andatura danzante che lo guidava. Ma era un abbaglio. Giuda capiva che Nisa era molto piú avanti di lui. Corse oltre le botteghe dei cambiavalute e giunse infine alla porta di Getsemani. Lí, pur ardendo d’impazienza, fu costretto a fermarsi. In città stavano entrando i cammelli, seguiti da una pattuglia militare siriana, che Giuda maledí in cuor suo…

Ma tutto ha una fine. L’impaziente Giuda era già oltre le mura della città. Alla sua sinistra, vide un piccolo cimitero, e, vicino, alcune tende a strisce di pellegrini. Attraversata la strada polverosa inondata dalla luna, Giuda si affrettò verso il torrente Kedron per attraversarlo. L’acqua gorgogliava lievemente intorno ai suoi piedi. Saltando da una pietra all’altra, giunse finalmente alla riva opposta, quella di Getsemani, e con grande gioia vide che la strada tra i giardini era deserta. Si vedeva poco lontano il cancello mezzo distrutto dell’oliveto.

Dopo l’afa cittadina, Giuda fu colpito dal profumo inebriante della notte primaverile. Attraverso lo steccato si riversava dal giardino un’ondata di profumo di mirti e acacie proveniente dai prati di Getsemani.

L’ingresso non era sorvegliato, nei suoi pressi non c’era nessuno e, alcuni minuti dopo, Giuda correva sotto l’ombra misteriosa di enormi ulivi frondosi. La strada era erta. Giuda saliva, col respiro affannoso, uscendo a volte dall’ombra per trovarsi su ornati tappeti di luce lunare che gli ricordavano i tappeti visti nella bottega del geloso marito.

Poco dopo balenò alla sua sinistra, su un prato, il frantoio con la pesante macina di pietra e un mucchio di barili. Nel giardino non c’era nessuno; i lavori erano stati terminati al tramonto, e adesso risuonavano in alto cori di usignoli.

La meta di Giuda era vicina. Sapeva che a destra, nell’oscurità, avrebbe subito udito il lieve sussurrio dell’acqua che cadeva nella grotta. Difatti percepí quel suono. Faceva sempre piú fresco. Rallentò allora il passo, e chiamò sommesso:

— Nisa!

Ma, invece di Nisa, si staccò dal grosso tronco di un ulivo e balzò sulla strada una tarchiata sagoma maschile; qualcosa brillò nella sua mano e subito si spense. Con un leggero grido, Giuda si gettò indietro, ma un secondo uomo gli sbarrò la strada.

Il primo, che era davanti, chiese a Giuda:

— Quanto ti hanno dato? Rispondi, se vuoi salva la vita!

La speranza s’accese nel cuore di Giuda, che gridò con voce terribile:

— Trenta tetradracme! Trenta tetradracme! Ho con me tutto quello che mi hanno dato! Ecco il denaro! Prendetelo, ma lasciatemi la vita!

L’uomo davanti afferrò immediatamente la borsa dalle mani di Giuda. Nello stesso istante alle sue spalle si levò un coltello e colpí l’innamorato sotto la scapola. Giuda fu scaraventato in avanti, e buttò in alto le mani con le dita rattrappite. L’uomo davanti accolse Giuda sul suo coltello e glielo immerse fino al manico nel cuore.

— Ni…sa… — disse Giuda non con la sua voce giovanile alta e pura, ma con voce bassa e piena di rimprovero, e non emise altro suono. Il suo corpo batté sulla terra con tanta violenza che la fece rintronare.

Apparve allora sulla strada una terza figura. Questa portava un mantello col cappuccio.

— Fate presto, — ordinò. Gli assassini avvolsero rapidamente in una pelle la borsa e un biglietto che il terzo porse loro, e legarono il tutto con una cordicella. Il secondo si mise l’involto in seno, poi i due assassini si precipitarono via dalla strada e l’oscurità tra gli ulivi li inghiottí. Il terzo invece si accoccolò vicino al morto e lo guardò in faccia. Nell’ombra, essa gli apparve bianca come il gesso, e di una bellezza ispirata.

Alcuni secondi dopo non c’era anima viva sulla strada.

Il corpo inanimato giaceva con le braccia allargate. Il piede sinistro era finito in una chiazza di luce lunare, cosí che risaltava nettamente ogni cinghia del sandalo. Tutto il giardino di Getsemani risuonava del canto degli usignoli.

Dove si fossero diretti i due che avevano ammazzato Giuda, nessuno lo sa, ma sl conosce la strada seguita dal terzo uomo col cappuccio. Lasciando il sentiero, s’inoltrò nel folto degli ulivi, dirigendosi verso sud. Scavalcò il recinto del giardino lontano dall’ingresso principale, all’angolo di sinistra, dove le pietre superiori del muricciolo erano franate. Poco dopo era sulla riva del Kedron. Entrò allora nell’acqua e vi camminò per un certo tempo, finché non vide in lontananza le sagome di due cavalli e di un uomo vicino. Anche i cavalli erano nel torrente. L’acqua scorreva bagnando i loro zoccoli. Il guardiano montò uno dei cavalli, l’uomo col cappuccio balzò sull’altro, e lentamente si avviarono nel torrente. Si udivano i sassi scricchiolare sotto le zampe dei cavalli. Poi i cavalieri uscirono dall’acqua, salirono sulla riva di Jerushalajim e costeggiarono al passo il muro della città. Qui, il guardiano si allontanò, e partendo di galoppo scomparve, mentre l’uomo col cappuccio fermò il suo cavallo, scese sulla strada deserta, si levò il mantello, lo rivoltò, ne tolse di sotto un elmo piatto senza cimiero che si calcò in testa. Balzò ora sul cavallo un uomo con una clamide militare e una corta spada al fianco. Toccò le redini, e il focoso cavallo partí al trotto scrollando il cavaliere. La meta non era lontana: il cavaliere si avvicinava alla porta meridionale di Jerushalajim.

Sotto l’arco della porta danzava e saltava l’irrequieta fiamma delle torce. I soldati di guardia della seconda centuria della Legione Fulminante sedevano su panche di pietra giocando ai dadi. Quando videro il militare che si avvicinava scattarono in piedi; l’uomo fece loro un cenno di mano ed entrò nella città.

La città era inondata di luci festose. A tutte le finestre scintillava la fiamma dei candelabri e dovunque, fondendosi in un coro discordante, si udivano i canti rituali. Lanciando di quando in quando un’occhiata alle finestre che davano sulla strada, il cavaliere poteva vedere gente seduta a tavola, e sopra la tavola carne di capretto e coppe di vino tra piatti con erbe amare. Fischiettando una sommessa canzoncina, il cavaliere avanzava con un trotto pacato lungo le vie deserte della città bassa verso la torre Antonia, guardando ogni tanto i candelabri a cinque bracci, mai visti altrove, che ardevano sopra il tempio, e la luna che si trovava ancora piú in alto dei candelabri.

Il palazzo di Erode il Grande non partecipava minimamente alla solennità della notte pasquale. Nei locali di servizio del palazzo, volti a sud, dove si erano sistemati gli ufficiali della coorte romana e il legato della legione, brillavano luci, e là si sentiva movimento e vita. Invece la parte anteriore, quella delle cerimonie, dove si trovava l’unico e involontario abitatore del palazzo — il procuratore — , con le sue colonne e le statue dorate, sembrava tutta accecata sotto la chiarissima luce lunare. Lí, all’interno del palazzo, regnavano l’oscurità e il silenzio.

Come aveva detto ad Afranio, il procuratore non aveva voluto ritirarsi nelle stanze interne. Aveva dato ordine di preparargli il letto sul balcone, là dove aveva pranzato, e dove al mattino aveva tenuto l’interrogatorio. Il procuratore si coricò, ma il sonno non volle visitarlo. La nuda luna stava alta nel cielo puro, e per alcune ore il procuratore non ne distolse gli occhi.

Verso mezzanotte il sonno ebbe finalmente pietà dell’egemone. Con uno sbadiglio convulso, il procuratore sfibbiò il mantello e lo gettò via, tolse dalla tunica la cinghia con un largo coltello d’acciaio infilato nel fodero, la mise sulla scranna vicina al letto, si tolse i sandali e si coricò. Immediatamente Banga salí sul suo letto e gli si accovacciò vicino, testa contro testa, e il procuratore posando una mano sul collo dell’animale, chiuse finalmente gli occhi. Solo allora si addormentò anche il cane.

Il letto si trovava nella semioscurità, protetto dalla luna da una colonna, ma dai gradini di accesso si stendeva verso il letto un nastro di luce lunare. E il procuratore, non appena ebbe perso il collegamento con quello che c’era intorno a lui nella realtà, subito si mosse per la strada luccicante e la risalí, direttamente verso la luna. Nel sogno sorrise perfino di felicità, tanto ogni cosa si risolveva in modo cosí splendido e irripetibile su quella diafana strada azzurra.

Era seguito da Banga, e vicino a lui camminava il filosofo errante. Discutevano qualcosa di molto complesso e importante, e nessuno dei due riusciva a vincere l’altro. Non si accordavano su nessun punto, e questo rendeva la loro discussione particolarmente interessante e interminabile. S’intende che l’esecuzione di quel giorno era stata un mero equivoco: il filosofo che aveva escogitato una cosa cosí incredibilmente assurda come la bontà universale degli uomini, gli camminava accanto, quindi era vivo. E, naturalmente, sarebbe stato orribile anche il solo pensiero che un uomo simile potesse essere giustiziato. L’esecuzione non era avvenuta! Non era avvenuta! Ecco in che consisteva il fascino del viaggio su per la scala lunare.

Vi era tanto tempo libero quanto ne occorreva, il temporale sarebbe scoppiato solo verso sera, e la codardia era indubbiamente uno dei vizi piú terribili. Cosí diceva Jeshua Hanozri. No, filosofo, ti obietto: è il vizio piú terribile di tutti!

Ecco, per esempio, non aveva avuto paura l’attuale procuratore della Giudea, allora tribuno della legione, quella volta nella Valle delle Vergini, quando i germani infuriati avevano quasi dilaniato il gigantesco Ammazzatopi! Ma per carità, filosofo! Possibile che tu, con la tua intelligenza, possa pensare che, per causa di un uomo che ha commesso un delitto contro Cesare, il procuratore della Giudea si rovini la carriera?

— Sí, sí… — gemeva e singhiozzava nel sonno Pilato.

Certo che se la sarebbe rovinata. Al mattino non l’avrebbe fatto, ma adesso, di notte, soppesato tutto, era pronto a rovinarsela. Era pronto a tutto, pur di salvare dall’esecuzione quel pazzo sognatore e medico completamente innocente!

— D’ora in poi staremo sempre insieme, — gli diceva in sogno il lacero filosofo-vagabondo, comparso, non si sa come, sulla strada del Cavaliere Lancia d’Oro, — non ci sarà l’uno senza l’altro! Se parleranno di me, parleranno subito anche di te! Di me, trovatello, figlio di genitori ignoti, e di te, figlio del re degli astrologi e della figlia del mugnaio, la bellissima Pila!

— Sí, non dimenticarmi, parla di me, figlio dell’astrologo, — pregava in sogno Pilato. E avutone assicurazione da un cenno del capo del mendico di En-Sarid, che gli camminava accanto, il crudele procuratore della Giudea piangeva e rideva dalla gioia nel sogno.

Tutto questo era bello, ma tanto piú orrendo fu il risveglio dell’egemone. Banga ringhiò alla luna, e la scivolosa strada azzurra, che pareva lisciata con l’olio, sprofondò davanti al procuratore. Egli aprí gli occhi, e la prima cosa che ricordò fu che l’esecuzione era avvenuta. La prima cosa che fece il procuratore fu di afferrare con un gesto abituale il collare di Banga, poi con gli occhi malati si mise a cercare la luna e vide che questa si era fatta un po’ da parte e si era inargentata. La sua luce era spezzata da quella sgradevole, inquieta, che scintillava sul balcone proprio davanti ai suoi occhi. Nelle mani del centurione Ammazzatopi ardeva e fumava una torcia. Chi la teneva sbirciava con paura e con rabbia il pericoloso animale pronto a spiccare un salto.

— Non toccarlo, Banga, — disse il procuratore con voce fioca e tossicchiò. Riparandosi con la mano dalla fiamma, continuò: — Neppure di notte, con la luna, c’è pace per me!… Oh numi!… Anche il tuo mestiere è brutto, Marco. Rovini i soldati…

Con grandissimo stupore, Marco fissava il procuratore, e questi tornò in sé. Per rimediare alle parole superflue pronunciate sotto l’effetto del sogno, il procuratore disse:

— Non ti offendere, centurione. La mia posizione, ripeto, è ancora peggiore della tua. Che vuoi?

— È arrivato il capo della guardia segreta, — disse tranquillo Marco.

— Fallo entrare, fallo entrare, — ordinò il procuratore raschiandosi la gola, e coi piedi nudi cercò i sandali. La fiamma si rifletté sulle colonne, le calighe del centurione batterono sul mosaico. Il centurione uscí nel giardino.

— Neppure con la luna c’è pace per me, — disse il procuratore fra sé, facendo scricchiolare i denti.

Sul balcone, invece del centurione, apparve l’uomo col cappuccio.

— Banga, non toccarlo, — disse sottovoce il procuratore, e strinse la nuca del cane.

Prima di cominciare a parlare, Afranio, secondo la sua abitudine, si guardò in giro e si ritirò nell’ombra, quindi, assicuratosi che, oltre a Banga, non c’erano estranei sul balcone, disse a bassa voce:

— Ti prego di mettermi sotto processo, procuratore. Avevi ragione. Non ho saputo salvaguardare la vita di Giuda di Kiriat, lo hanno ammazzato. Ti chiedo il processo e la destinazione.

Ad Afranio sembrò che lo guardassero quattro occhi: due di cane e due di lupo.

Tolse di sotto la clamide una borsa indurita dal sangue e chiusa con due sigilli.

— Questa borsa di denaro è stata gettata dagli assassini nella casa del gran sacerdote. Il sangue che c’è su questa borsa è il sangue di Giuda di Kiriat.

— Quanto c’è? — chiese Pilato, curvandosi sulla borsa.

— Trenta tetradracme.

Il procuratore sogghignò e disse:

— Poche.

Afranio taceva.

— Dov’è l’ucciso?

— Non lo so, — rispose con tranquilla dignità l’uomo che non abbandonava mai il suo cappuccio. — Questa mattina cominceremo le ricerche.

Il procuratore sussultò e lasciò la cinghia del sandalo che non riusciva ad allacciare.

— Ma sai di sicuro che è morto?

Il procuratore ebbe una secca risposta:

— Io, procuratore, lavoro in Giudea da quindici anni. Ho iniziato il mio servizio sotto Valerio Grato. Non ho bisogno di vedere il cadavere per dire che un uomo è stato ucciso, e pertanto ti riferisco che colui che chiamavano Giuda di Kiriat è stato ammazzato alcune ore fa.

— Scusami, Afranio, — rispose Pilato, — non sono ancora del tutto sveglio. È per questo che l’ho chiesto. Dormo male, — il procuratore sogghignò, — e in sogno vedo sempre un raggio di luna. E buffo, figurati che mi sembra di passeggiare su quel raggio… Ebbene, vorrei conoscere le tue supposizioni in merito a questa faccenda. Dove pensi di cercarlo? Siediti capo del servizio segreto.

Afranio fece un inchino, avvicinò la scranna al letto e si sedette, lasciando ricadere con fracasso la spada.

— Intendo cercarlo presso il podere degli ulivi, nel giardino di Getsemani.

— Bene, bene. E perché proprio lí?

— Egemone, ritengo che Giuda sia stato ucciso non in Jerushalajim, e nemmeno in un luogo lontano; no, è stato ucciso nei dintorni della città.

— Ti considero un grande esperto nel tuo campo. Non so, è vero, come stiano le cose a Roma, ma nelle colonie non hai l’uguale. Spiegami il perché.

— Non ammetto neppure per un istante l’idea che Giuda possa essersi messo nelle mani di una persona sospetta nella cinta della città. In una via non puoi ammazzare uno di nascosto. Quindi, avrebbero dovuto attirarlo in qualche cantina. Ma il servizio segreto l’ha già cercato nella città bassa, e lo avrebbe certamente trovato. Ma egli non è in città, te lo garantisco. Se fosse stato ucciso lontano dalla città, questo pacchetto col denaro non avrebbe potuto essere gettato cosí presto. È stato ucciso nei dintorni della città. Hanno saputo adescarlo per farlo uscire.

— Non riesco a immaginare come abbiano potuto farlo!

— Sí, procuratore, è il problema piú difficile di tutta la faccenda, e non so nemmeno se riuscirò a risolverlo.

— Misterioso, davvero! In una sera di festa, un credente esce senza motivo dalla città, abbandonando il desco pasquale, e là viene ammazzato. Chi, e con quali mezzi, ha potuto adescarlo? Non l’avrà fatto una donna? — chiese all’improvviso, come ispirato, il procuratore.

Afranio rispose calmo e ponderato:

— Impossibile, procuratore. Questa eventualità è assolutamente esclusa. Bisogna ragionare secondo la logica. Chi era interessato alla morte di Giuda? Dei visionari vagabondi, un gruppetto dove, prima di tutto, non c’erano donne. Per sposarsi, procuratore, occorre del denaro. Per mettere al mondo un bambino, ci vuole sempre denaro. Ma per ammazzare un uomo con l’aiuto di una donna, di denaro ne occorre moltissimo, e nessun vagabondo ne possiede. Nessuna donna ha preso parte a quest’affare, procuratore. Anzi, una simile interpretazione dell’assassinio può solo far perdere il filo, disturbare le indagini e disorientarmi.

— Vedo che hai perfettamente ragione, Afranio, — disse Pilato, — mi ero solo permesso di esporre una mia supposizione.

— Ahimè, è errata, procuratore.

— Ma allora, che ne pensi tu? — esclamò il procuratore fissando con avida curiosità il volto di Afranio.

— Io ritengo che si tratti sempre di denaro.

— Ottima idea! Ma chi e perché poteva proporgli del denaro, fuori città, di notte?

— Oh no, procuratore, le cose non stanno cosí. Io faccio un’unica ipotesi, e se non è esatta, temo di non trovare altre spiegazioni — . Afranio si chinò di piú verso il procuratore, e disse in un sussurro: — Giuda voleva nascondere il suo denaro in un luogo sicuro noto a lui soltanto.

— Finissima spiegazione. Dev’essere proprio andata cosí. Adesso ti capisco: è stato adescato non da qualcuno, ma dal suo intento. Sí, sí, è cosí.

— E cosí. Giuda era diffidente, nascondeva il denaro a tutti.

— Già, hai detto a Getsemani… Ma perché intendi cercarlo proprio là? Questo, lo confesso, non riesco a capirlo.

— Oh, procuratore, questa è la cosa piú facile. Nessuno nasconde del denaro su strade, in luoghi aperti e deserti. Giuda non è stato né sulla strada di Hebron, né su quella di Betania. Doveva essere un luogo riparato, protetto, alberato. È semplicissimo. Altri luoghi di questo genere, oltre a Getsemani, a Jerushalajim non esistono. Non poteva andare lontano.

— Mi hai completamente convinto. Allora, che fare adesso?

— Comincerò subito a cercare gli assassini che hanno seguito Giuda fuori città, e nel frattempo, come ho già detto, mi processeranno.

— Perché?

— I miei uomini se lo sono lasciato sfuggire iersera al mercato, dopo che egli aveva lasciato il palazzo di Caifa. Come sia successo, non riesco a capacitarmene. Non era mai accaduto nella mia vita. Era stato posto sotto sorveglianza subito dopo la nostra conversazione. Ma nella zona del mercato ha cambiato strada, ha fatto uno zigzag cosí inconcepibile che è scomparso senza lasciare tracce.

— Bene. Ti dichiaro che non ritengo necessario farti processare. Hai fatto tutto quello che potevi, e nessuno al mondo, — il procuratore sorrise, — avrebbe saputo fare piú di te! Punisci gli agenti che si sono lasciati sfuggire Giuda. Ma anche qui, ti avverto, non vorrei che la punizione fosse severa. In fin dei conti, abbiamo fatto tutto quello che potevamo per prenderci cura di quella canaglia! Ah sí! Dimenticavo di chiedere, — il procuratore si fregò la fronte, — come sono riusciti a gettare il denaro nella casa di Caifa?

— Vedi, procuratore… La cosa non è particolarmente difficile. I vendicatori sono passati sul retro del palazzo di Caifa, là dove il vicolo domina il cortile posteriore. Hanno gettato il pacco oltre il recinto.

— Con un biglietto?

— Sí, proprio come tu supponevi, procuratore. Già, a proposito — Qui Afranio strappò il sigillo dal pacchetto e mostrò il suo contenuto a Pilato.

— Per carità, che stai facendo, Afranio, saranno certo i sigilli del tempio!

— Il procuratore non si preoccupi di questo, — rispose Afranio richiudendo il pacchetto.

— Possibile che tu abbia tutti i sigilli? — chiese Pilato con una risata.

— Non può essere diversamente, procuratore, — rispose severissimo Afranio, senza il minimo sorriso.

— Immagino quel che sarà successo da Caifa!

— Sí, procuratore, l’emozione è stata fortissima. Mi hanno convocato immediatamente.

Perfino nella penombra si vedevano brillare gli occhi del procuratore.

— Interessante, molto interessante…

— Mi permetto di obiettare, procuratore; non era interessante. Un affare noiosissimo e faticosissimo. Alla mia domanda se fosse stato effettuato un pagamento a qualcuno nel palazzo di Caifa, mi fu risposto categoricamente di no.

— Ah, è cosí? E va bene, se non hanno pagato, vuol dire che non hanno pagato… Tanto piú difficile sarà trovare gli assassini.

— Verissimo, procuratore.

— Ah sí, Afranio, mi è venuto all’improvviso un pensiero: non si sarà per caso suicidato?

— Oh no, procuratore, — rispose Afranio, buttandosi addirittura all’indietro nella poltrona dalla sorpresa, Scusami, ma questo è del tutto inverosimile!

— Oh, in questa città tutto è verosimile. Sono pronto a scommettere che tra pochissimo tempo in tutta la città si spargeranno voci del suicidio di Giuda.

A questo punto, Afranio lanciò di nuovo un’occhiata al procuratore rifletté e disse:

— È possibile, procuratore.

Evidentemente, il procuratore non riusciva a staccarsi dalla faccenda dell’assassinio dell’uomo di Kiriat, anche se tutto era già chiaro, e disse, addirittura con un’aria sognante:

— Mi sarebbe piaciuto vedere come l’hanno ucciso.

— È stato ucciso a regola d’arte, procuratore, — rispose Afranio, guardando il procuratore con una certa quale ironia.

— Come fai a saperlo?

— Ti prego di rivolgere la tua attenzione al sacco, procuratore, — rispose Afranio, — ti garantisco che il sangue di Giuda scorreva a fiotti. Ho avuto occasione di vedere gente ammazzata, procuratore, nel corso della mia vita.

— Dunque egli non risorgerà di certo?

— No, procuratore, — rispose sorridendo filosoficamente Afranio, — egli risorgerà quando suonerà su di lui la tromba del messia che qui stanno aspettando. Ma prima non risorgerà.

— Bene, Afranio, questa faccenda è chiara. Passiamo alla sepoltura.

— I corpi dei giustiziati sono stati sepolti, procuratore.

— Oh, Afranio, metterti sotto processo sarebbe un delitto. Sei degno delle piú alte ricompense. Com’è andata?

Afranio cominciò a raccontare: mentre lui stesso si stava occupando del caso di Giuda, un reparto della guardia segreta, diretto da un suo sostituto, era giunto sulla cima della collina al cadere della sera. Uno dei corpi mancava. Pilato sussultò, e disse con voce rauca:

— Oh, come ho fatto a non prevederlo!…

— Non preoccuparti, procuratore, — disse Afranio, e continuò la sua narrazione: — I corpi di Disma e Hesta con gli occhi beccati dagli uccelli furono raccolti, e fu subito iniziata la ricerca del terzo corpo. Questo fu trovato entro brevissimo tempo. Un certo…

— Levi Matteo, — disse Pilato con tono non tanto interrogativo quanto affermativo.

— Sí, procuratore… Levi Matteo si nascondeva in una caverna sul pendio settentrionale del Calvario, in attesa delle tenebre. Il corpo nudo di Jeshua Hanozri era con lui. Quando la guardia entrò nella caverna con una torcia Levi si disperò e si arrabbiò. Gridava che non aveva commesso nessun delitto, e che chiunque, secondo la legge ha il diritto di seppellire un criminale giustiziato se lo desidera. Levi Matteo diceva che non voleva abbandonare quel corpo. Era eccitato, gridava cose insensate, ora supplicava, ora minacciava e malediva…

— Avete dovuto arrestarlo? — chiese cupo Pilato.

— No, procuratore, no, — rispose in tono tranquillizzante Afranio, — si riuscí a calmare l’insolente pazzo spiegandogli che il corpo sarebbe stato sepolto. Levi, quando capí ciò che gli era stato detto, si calmò, ma dichiarò che non se ne sarebbe andato e che intendeva partecipare alla sepoltura. Disse che non se ne sarebbe andato neanche se lo avessero ucciso, e porgeva perfino un coltellaccio da pane a questo scopo.

— È stato cacciato via? — chiese Pilato con voce soffocata.

— No, procuratore, no. Il mio sostituto gli permise di partecipare alla sepoltura.

— Quale dei tuoi aiutanti ti sostituiva? — chiese Pilato.

— Tolomeo, — rispose Afranio, e aggiunse inquieto: — ha forse fatto qualche sbaglio?

— Continua, — rispose Pilato, — sbagli non ce ne sono stati. Del resto, sono imbarazzato, Afranio, credo di trovarmi al cospetto di un uomo che non commette mai errori. Quest’uomo sei tu.

— Levi Matteo fu caricato su un carro insieme con i corpi dei giustiziati, e circa due ore dopo raggiunsero una gola deserta a nord di Jerushalajim. Là il reparto, lavorando a turni, in un’ora scavò una fossa profonda e vi seppellí i tre giustiziati.

— Nudi?

— No, procuratore, la truppa aveva preso con sé dei chitoni per la bisogna. Alle dita dei sepolti furono infilati anelli. A Jeshua con una tacca, a Disma con due e a Hesta con tre. La fossa è stata chiusa e ricoperta con pietre. Tolomeo sa il segno di riconoscimento.

— Ah, se avessi potuto prevedere! — disse Pilato con una smorfia. — Avrei bisogno di vedere quel Levi Matteo…

— È qui, procuratore.

Pilato spalancò gli occhi, fissando per qualche istante Afranio, poi disse:

— Ti ringrazio di tutto quello che hai fatto per questa faccenda. Ti prego di inviarmi domani Tolomeo, dicendogli in anticipo che sono soddisfatto di lui, e tu, Afranio, — a questo punto il procuratore tolse da una tasca della cintura posta sul tavolo un anello, che porse al capo del servizio segreto, — ti prego di gradirlo come ricordo.

Afranio fece un inchino, dicendo:

— È un grande onore, procuratore.

— Alla truppa che ha eseguito la sepoltura prego di elargire ricompense. Agli sbirri che non hanno saputo proteggere Giuda, un biasimo. E Levi Matteo qui da me, subito. Mi servono particolari sulla questione di Jeshua.

— Ubbidisco, procuratore, — replicò Afranio, e cominciò a indietreggiare facendo inchini; il procuratore batté le mani e grido:

— Da me, qui! Un candelabro nel porticato!

Afranio si stava già inoltrando nel giardino, e alle spalle di Pilato nelle mani dei servi luccicavano già i lumi. Il procuratore si trovò sul tavolo tre candelabri, e la notte lunare arretrò subito in giardino, come se Afranio se la fosse portata con sé. Invece di Afranio giunse sul balcone uno sconosciuto piccolo e magro, accanto al gigantesco centurione. Quest’ultimo, colto lo sguardo del procuratore, si allontanò subito nel giardino e vi scomparve.

Il procuratore studiava il nuovo venuto con occhi avidi e un poco impauriti. Cosí si guarda una persona di cui si è molto sentito parlare, alla quale si è pensato molto e che, finalmente, è arrivata.

Il nuovo venuto, un uomo sui quarant’anni, scuro, lacero, coperto di fango secco, lanciava occhiate di traverso come un lupo. Insomma, aveva un aspetto per nulla attraente e somigliava piú che altro a un mendico cittadino come se ne trovano molti sui terrazzi del tempio o nei mercati della rumorosa e sporca città bassa.

Il silenzio durò a lungo, e fu rotto dallo strano comportamento dell’uomo che era stato introdotto in presenza di Pilato. Cambiò in volto, barcollò, e se non si fosse afferrato con la mano sporca al bordo del tavolo, sarebbe certamente caduto.

— Che cos’hai? — chiese Pilato.

— Niente, — rispose Levi Matteo facendo un movimento come se inghiottisse qualcosa. Il suo collo magro, nudo grigio si gonfiò, poi riprese la forma primitiva.

— Che cos’hai, rispondi? — ripeté Pilato.

— Sono stanco, — rispose Levi e guardò cupo il pavimento.

— Siedi, — disse Pilato indicando la scranna.

Levi guardò incredulo il procuratore, si avvicinò, diede un’occhiata impaurita ai braccioli dorati e sedette non sulla scranna ma vicino, in terra.

— Spiegami perché non ti sei seduto sulla scranna, chiese Pilato.

— Sono sporco, l’avrei insudiciata, — disse Levi guardando in terra.

— Adesso ti daranno da mangiare.

— Non voglio mangiare, — rispose Levi.

— A che serve mentire? — chiese sommesso Pilato. Non hai mangiato per un giorno intero, e forse anche piú. E va bene, non mangiare. Ti ho chiamato perché tu mi mostrassi il coltello che avevi con te.

— I soldati me l’hanno sequestrato quando mi hanno condotto qui da te, — rispose Levi, e soggiunse cupamente: — Rendetemelo, devo restituirlo al proprietario: l’ho rubato.

— Perché?

— Per tagliare le corde.

— Marco! — chiamò il procuratore, e il centurione entrò nel porticato. — Dammi il suo coltello.

Il centurione tolse da uno dei due foderi che portava alla cintura un coltello da panettiere e lo porse al procuratore, poi si allontanò.

— Dove l’hai preso?

— Nella panetteria presso la porta di Hebron, subito a sinistra appena si entra in città.

Pilato guardò la larga lama, saggiò col dito l’affilatura, e disse:

— Per il coltello non preoccuparti, sarà riconsegnato al proprietario. Adesso mi serve un’altra cosa: mostrami la pergamena che porti con te, dove sono trascritte le parole di Jeshua.

Levi guardò con odio Pilato e fece un sorriso cosí cattivo che il volto gli si deformò completamente.

— Tutto mi vuoi prendere? Tutto quanto mi è rimasto? — chiese.

— Non ti ho detto «dammela», — rispose Pilato, — ho detto «mostramela».

Levi si frugò in seno e trasse un rotolo di pergamena.

Pilato lo prese, lo svolse, lo distese tra i lumi e, socchiudendo gli occhi, cominciò a studiare quei segni poco decifrabili. Era difficile capire quelle righe storte, e Pilato corrugava la fronte e si chinava sulla pergamena, seguendo col dito le righe. Riuscí comunque a capire che quello scritto era una catena sconnessa di massime, di date, di appunti domestici e di frammenti poetici. Qualcosa riuscí a leggere: «…la morte non esiste… ieri abbiamo mangiato dolci fichi primaverili…»

Con una smorfia per lo sforzo, Pilato socchiudendo gli occhi, leggeva: «… vedremo il puro fiume dell’acqua della vita… l’umanità guarderà il sole attraverso un diafano cristallo…»

Qui Pilato sussultò. Nelle ultime righe della pergamena aveva decifrato le parole: «il vizio maggiore… la codardia..»

Pilato arrotolò la pergamena e con un gesto brusco la restituí a Levi.

— Prendi, — disse, e dopo una pausa soggiunse: — vedo che sei un uomo di lettere, e non è il caso che tu, che sei solo, giri vestito come un mendicante, senza un rifugio. A Cesarea ho una grande biblioteca, sono molto ricco e voglio prenderti al mio servizio. Esaminerai e riordinerai i papiri, avrai da mangiare e da vestire.

Levi si alzò e rispose:

— No, non voglio.

— Perché? — chiese il procuratore, facendosi scuro in volto. — Non ti piaccio… mi temi?

Lo stesso cattivo sorriso storse i lineamenti di Levi, che disse:

— No, perché sarai tu a temermi. Non ti sarà tanto facile guardarmi in faccia dopo averlo ucciso.

— Taci, — rispose Pilato, — prendi del denaro.

Levi scosse la testa in segno di diniego, mentre il procuratore proseguiva:

— So che tu ti consideri un discepolo di Jeshua, ma ti dirò che non hai assimilato niente di ciò che egli ti ha insegnato. Infatti, se non fosse cosí, avresti senz’altro accettato qualcosa da me. Tieni conto che prima di morire ha detto che non accusava nessuno — . Pilato alzò un dito con fare significativo, il suo volto era contratto da un tic. — E lui stesso avrebbe certamente accettato qualcosa. Tu sei crudele, lui non lo era. Dove andrai?

All’improvviso Levi si avvicinò al tavolo, vi si appoggiò con ambo le mani, e guardando il procuratore con occhi ardenti, gli sussurrò:

— Tu, egemone, sappi che io sgozzerò un uomo a Jerushalajim. Ho voglia di dirtelo affinché tu sappia che ci sarà ancora del sangue.

— Lo so anch’io che ce ne sarà ancora, — rispose Pilato, — non mi sorprendono queste tue parole. Naturalmente, vuoi ammazzare me?

— Non ci riuscirei, — rispose Levi, digrignando i denti e sorridendo, — non sono tanto stupido da contarci. Ma ammazzerò Giuda di Kiriat: a questo dedicherò il resto della mia vita.

Qui gli occhi del procuratore si riempirono di delizia, e facendo segno col dito a Levi di avvicinarsi di piú, disse:

— Non potrai farlo, non pensarci piú. Giuda è già stato ammazzato questa notte.

Levi si allontanò dal tavolo con un balzo, guardandosi attorno con occhi spiritati, ed esclamò:

— Chi l’ha fatto?

— Non essere geloso, — rispose Pilato digrignando i denti, e si fregò le mani, — temo che avesse altri ammiratori oltre a te.

— Chi l’ha fatto? — ripeté Levi in un sussurro.

Pilato gli rispose:

— L’ho fatto io.

Levi spalancò la bocca e fissò il procuratore, che disse sommesso:

— Con questo non si è fatto molto, naturalmente, però l’ho fatto io — . E soggiunse: — Be’, adesso accetterai qualcosa?

Levi pensò, si addolcí, e disse infine:

— Disponi che mi diano un pezzo di pergamena nuova.

Passò un’ora. Levi non era piú nel palazzo. Adesso il silenzio dell’alba era interrotto soltanto dal rumore lieve dei passi delle sentinelle nel giardino. La luna sbiadiva rapidamente, all’altro lato del cielo si vedeva la macchiolina bianchiccia della stella mattutina. Da un pezzo i candelabri erano stati spenti. Il procuratore si era coricato. Con la mano sotto la guancia, dormiva e respirava silenziosamente. Vicino a lui dormiva Banga.

Cosí il quinto procuratore della Giudea Ponzio Pilato incontrò l’alba del quindici di Nisan.




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