CAPITOLO SEDICESIMO Il supplizio



Il sole si stava già abbassando sul Calvario, e il monte era circondato da un duplice cordone di truppe.

La coorte alaria di cavalleria, che aveva tagliato la strada al procuratore verso mezzogiorno, si diresse al trotto in direzione della Porta di Hebron. La strada le era già stata preparata. I fanti della coorte di Cappadocia avevano premuto ai lati l’assembramento di uomini, muli e cammelli, e trottando e sollevando fino al cielo colonne bianche di polvere, i cavalieri giunsero all’incrocio di due strade: quella del sud, che portava a Betfage, e quella di nord-ovest. Gli stessi cappadoci erano disseminati ai bordi della strada e ne avevano tempestivamente cacciato da parte tutte le carovane che si affrettavano a raggiungere Jerushalajim per la festa. Folle di pellegrini stavano dietro ai soldati, avendo abbandonato le provvisorie tende a righe piantate direttamente sull’erba. Dopo aver fatto circa un chilometro, l’alaria superò la seconda coorte della Legione Fulminante e, dopo aver percorso un altro chilometro giunse per prima ai piedi del Calvario. Qui si appiedò. Il comandante la divise in plotoni, che circondarono tutta la base della bassa collina, lasciando libera soltanto la via di accesso dalla strada di Giaffa.

Poco tempo dopo giunse alla collina la seconda coorte, e prese posizione piú in alto, accerchiandone la cima.

Infine giunse la centuria al comando di Marco l’Ammazzatopi. Camminava, allungata su due file ai lati della strada e tra queste, scortati dalla guardia segreta, avanzavano su un carro i tre condannati con delle assicelle bianche al collo, su ognuna delle quali era scritto «ladrone e ribelle» nelle due lingue, aramaica e greca.

Il carro dei condannati era seguito da altri, carichi di pali squadrati di fresco con traverse, di corde, di pale, di secchi e di asce. Su questi carri si trovavano i sei boia. In coda cavalcavano il centurione Marco, il capo delle guardie del tempio di Jerushalajim e l’uomo col cappuccio con cui Pilato aveva avuto un fugace abboccamento nella stanza oscurata del palazzo.

La processione si chiudeva con una fila di soldati, e dietro veniva una folla di circa duemila curiosi che non avevano avuto paura di quel caldo infernale e desideravano assistere all’interessante spettacolo. A questi curiosi della città si erano aggiunti ora i pellegrini curiosi, liberamente accolti nella coda della processione. Il corteo prese a salire sul Calvario, accompagnato dalle grida acute degli araldi che accompagnavano la colonna e gridavano ciò che Pilato aveva proclamato a mezzogiorno circa.

L’alaria lasciò passare tutti, mentre la seconda centuria lasciò passare oltre soltanto quelli che avevano a che fare col supplizio, poi, con una rapida manovra, disperse intorno a tutta la collina la folla in modo che questa venne a trovarsi tra lo sbarramento di fanteria in alto e quello di cavalleria in basso. Adesso potevano vedere il supplizio attraverso il rado cordone dei fanti.

Cosí, erano passate piú di tre ore dal momento dell’ascesa al Calvario e il sole si stava già abbassando su di esso ma il caldo era ancora insopportabile e i soldati di entrambi gli sbarramenti ne soffrivano, languivano di noia e in cuor loro maledicevano i tre ladroni, augurando loro sinceramente una rapidissima morte. Con la fronte madida e la camicia bianca scura di sudore sulla schiena, il piccolo comandante dell’alaria, che si trovava ai piedi della collina presso l’accesso aperto, si avvicinava ogni momento all’otre di cuoio del primo plotone, ne attingeva l’acqua con le mani, beveva e si bagnava il turbante. Dopo aver ottenuto cosí qualche sollievo, si allontanava e riprendeva a percorrere avanti e indietro la strada polverosa che portava alla cima. La sua lunga spada batteva sullo stivale di pelle allacciato. Il comandante voleva dare ai suoi uomini un esempio di resistenza, ma, preso da compassione per i soldati, permise loro di formare, con le lance piantate in terra, delle piramidi e di gettarvi sopra i mantelli bianchi. Sotto quelle specie di tende i siriani si ripararono dal sole spietato. I secchi si vuotavano rapidamente, e i cavalieri dei vari plotoni andavano a turno a prendere acqua nel burrone alle falde della collina dove all’ombra rada di scarni gelsi un ruscelletto torbido viveva le sue ultime ore in quel diabolico caldo. Si trovavano lí, seguendo l’instabile ombra, e si annoiavano i guardiani di cavalli, che tenevano per le redini i loro animali fattisi docili.

La noia dei soldati e le loro ingiurie all’indirizzo dei ladroni erano comprensibili. I timori del procuratore circa i disordini che avrebbero potuto avvenire in occasione del supplizio nell’odiosa città di Jerushalajim per fortuna non si erano avverati. E quando trascorse la terza ora del supplizio, tra i due sbarramenti — quello superiore di fanteria e quello di cavalleria — alle falde della collina non era rimasta, contrariamente ad ogni aspettativa, neppure una persona. Il sole aveva riarso la folla e l’aveva ricacciata a Jerushalajim. Oltre gli sbarramenti delle due centurie romane si trovavano soltanto due cani che non si sapeva a chi appartenessero e perché fossero capitati sulla collina. Ma anch’essi erano spossati dal caldo, e si erano sdraiati, con le lingue penzoloni, respirando pesantemente, senza prestare la minima attenzione alle lucertole dal dorso verde, gli unici esseri che non temevano il sole e correvano qua e là tra le rocce infuocate e le piante che, coperte di grosse spine, strisciavano sul terreno.

Nessuno aveva fatto il tentativo di liberare i condannati, né a Jerushalajim, gremita di truppe, né qui, sulla collina circondata, e la folla era rientrata in città, perché non c’era davvero nulla d’interessante in quel supplizio, mentre là, in città, erano già in corso i preparativi per la grande festa di Pasqua che doveva avere inizio alla sera.

La fanteria romana della fila superiore soffriva ancora piú della cavalleria. L’unico permesso che il centurione Ammazzatopi aveva concesso ai soldati era stato quello di togliersi gli elmi e di coprirsi con fasce bianche bagnate d’acqua, ma i soldati dovevano stare in piedi con le lance in mano. Lui stesso, con una fascia identica, ma asciutta, passeggiava avanti e indietro vicino al gruppo dei boia, senza neanche essersi tolto dalla tunica le teste di leone d’argento, senza essersi tolto le gambiere, la spada e il pugnale. Il sole cadeva a piombo sul centurione senza causargli il minimo danno, ed era impossibile posare lo sguardo sulle teste leonine, perché gli occhi venivano smangiati dall’abbagliante scintillio dell’argento che pareva bollire al sole.

Il volto deturpato dell’Ammazzatopi non esprimeva né stanchezza, né insoddisfazione, e pareva che il gigantesco centurione sarebbe stato in grado di camminare in quel modo tutto il giorno, tutta la notte, tutto il giorno successivo, insomma, tanto quanto sarebbe stato necessario. Camminare cosí, con le mani posate sul pesante cinturone dalle piastre di rame, guardando con la stessa severità ora i pali con i condannati, ora i soldati dello sbarramento, respingendo con la stessa indifferenza, con la punta dello stivale velloso, ossa umane imbiancate dal tempo o frammenti di selce che gli capitassero sotto i piedi.

L’uomo col cappuccio si era sistemato poco lontano dai pali su uno sgabello a tre piedi e sedeva in un’immobilità bonaria, però, ogni tanto, per la noia, ficcava nella sabbia un ramoscello.

Si era detto che dietro il cordone dei legionari non c’era anima viva, ma questo non è completamente esatto. Un uomo c’era, ma non tutti lo potevano vedere. Egli si era messo non sul lato dove si apriva l’accesso e da dove era piú comodo osservare il supplizio, ma sul versante nord, là dove la collina non era declive e accessibile, ma frastagliata, dove c’erano burroni e gole, là dove, in un crepaccio avvinghiandosi all’arida terra maledetta dal cielo, cercava di vivere un fico stento.

Proprio sotto quell’albero, che non dava la minima ombra, si era stabilito quell’unico spettatore, e non partecipante, del supplizio, ed era seduto su una pietra sin dall’inizio, cioè da oltre tre ore. Sí, per vedere il supplizio aveva scelto non il posto migliore, ma quello peggiore. Ma anche da esso si vedevano i pali, si vedevano oltre lo sbarramento anche due macchie luccicanti sul petto del centurione, e questo, per un uomo, che evidentemente voleva restare poco notato e non disturbato, doveva essere del tutto sufficiente.

Ma circa quattro ore prima, all’inizio del supplizio, quell’uomo si era comportato in tutt’altro modo e poteva senz’altro essere stato notato; forse per questo aveva cambiato il suo comportamento e si era isolato.

Allora, appena la processione era arrivata sulla cima oltre lo sbarramento, egli era comparso per la prima volta, e per di piú come un ritardatario. Aveva il respiro pesante e non camminava, ma correva su per la collina, si faceva largo tra la calca, e quando vide che la fila dei soldati si chiudeva davanti a lui, come davanti a tutti gli altri, fingendo di non capire i gridi stizziti, fece un ingenuo tentativo di incunearsi tra i soldati per arrivare al luogo stesso del supplizio, dove già stavano facendo scendere i condannati dal carro. Per questo ricevette un pesante colpo al petto con l’asta di una lancia, e balzò indietro con un grido di disperazione, non di dolore. Al legionario che lo aveva colpito lanciò un’occhiata opaca e assolutamente indifferente a tutto, come un uomo che non senta il dolore fisico.

Tossendo e ansando, premendosi il petto, fece di corsa il giro della collina, nel tentativo di trovare sul versante settentrionale uno spiraglio nello sbarramento attraverso cui insinuarsi. Ma era ormai tardi, l’anello si era richiuso. E l’uomo, con il viso sconvolto dal dolore, dovette rinunciare ai suoi tentativi di aprirsi un varco verso i carri, da cui avevano già tolto i pali. Quei tentativi avrebbero avuto l’unico risultato di farlo catturare, ma essere arrestato quel giorno non rientrava affatto nei suoi piani.

Ed egli se ne andò verso il crepaccio dove c’era piú calma e nessuno lo avrebbe disturbato.

Adesso, seduto su una pietra, quell’uomo dalla barba nera, con gli occhi cisposi per il sole e l’insonnia, era preso dall’angoscia. Ora sospirava, aprendo il suo taleth[14] logoratosi nei vagabondaggi, diventato grigio sporco da azzurro che era, e denudandosi il petto contuso dalla lancia e percorso da uno sporco sudore; ora, preso da un tormento indicibile, alzava gli occhi al cielo, seguendo tre avvoltoi che da tempo stavano descrivendo in alto ampi cerchi nel presentimento di un prossimo banchetto; ora fissava lo sguardo disperato sulla terra gialla e vi vedeva un cranio di cane mezzo distrutto e le lucertole che gli correvano intorno.

I suoi tormenti erano cosí grandi che a volte parlava a voce alta con se stesso.

— Oh, che stupido sono… — borbottava dondolandosi sulla pietra, tutto preso dal suo dolore interiore, e graffiandosi il petto abbronzato. — Stupido, donna irragionevole, vile! Sono una carogna, non un uomo!

Taceva, abbassava la testa, poi, dopo aver bevuto acqua tiepida da una borraccia di legno, si rianimava e afferrava sotto il taleth il coltello nascosto sul petto, poi un pezzo di pergamena che si trovava davanti a lui su una pietra, vicino a un’asticciola e una boccetta d’inchiostro.

Sulla pergamena vi erano già degli appunti:

«I minuti corrono, e io, Levi Matteo, mi trovo sul Calvario, ma la morte non giunge ancora!»

Piú avanti:

«Il sole declina, ma la morte non viene».

Ora Levi Matteo, disperato, scrisse cosí con l’asticciola appuntita:

«Dio! Perché sei irato contro di lui? Mandagli la morte».

Dopo aver scritto la frase, singhiozzò senza lacrime, e si dilaniò di nuovo il petto con le unghie.

La causa dello sconforto di Levi stava nella terribile sfortuna che aveva colpito Jeshua e lui, e inoltre nel grave errore che lui, Levi, a suo proprio giudizio, aveva commesso. Due giorni prima, Jeshua e Levi si trovavano a Betfage vicino a Jerushalajim, ospiti di un orticoltore a cui piacevano moltissimo le prediche di Jeshua. Tutta la mattinata, i due ospiti avevano lavorato nell’orto per aiutare il padrone di casa, e si preparavano ad andare a Jerushalajim col fresco della sera. Ma per ignoti motivi, Jeshua aveva cominciato ad affrettarsi, dicendo che in città aveva un impegno improrogabile, e verso mezzogiorno se n’era andato da solo. In questo consisteva il primo errore di Levi Matteo. Perché, oh, perché l’aveva lasciato andare solo?

Quella sera Matteo non aveva potuto andare a Jerushalajim. Un malore inaspettato e terribile lo aveva colpito.

Aveva i brividi, il suo corpo era pieno di fuoco, ed egli si era messo a battere i denti e a chiedere da bere ad ogni momento.

Non poteva muoversi. Si era gettato su una groppiera nel rustico dell’orticoltore e vi era rimasto fino alla mattina del venerdí, quando il malessere lo aveva lasciato con la stessa subitaneità con la quale lo aveva colpito. Benché fosse ancora debole e gli tremassero le gambe, tormentato dal presentimento di una disgrazia, aveva salutato il padrone di casa ed era andato a Jerushalajim. Là aveva appreso che il suo presentimento non lo aveva ingannato, che la disgrazia era avvenuta. Levi era tra la folla e aveva sentito il procuratore annunciare la condanna.

Quando i condannati furono condotti sulla montagna Levi Matteo correva con la folla dei curiosi lungo la fila dei soldati, cercando di fare almeno sapere di nascosto a Jeshua che lui, Levi, gli era accanto, che non lo aveva abbandonato nell’ultimo cammino e che pregava perché la morte portasse via Jeshua il piú presto possibile. Ma Jeshua che guardava in avanti, nella direzione in cui lo portavano, naturalmente non vide Levi.

Poi, quando la processione ebbe fatto circa mezzo chilometro lungo la strada, Matteo, spinto tra la folla accanto alla fila dei soldati, ebbe un’idea semplice e geniale, e subito, per la sua impetuosità, cominciò a coprirsi di maledizioni per non averla avuta prima. I soldati non marciavano in fila compatta, tra di loro vi erano degli intervalli. Con molta agilità e un calcolo esattissimo si poteva, chinandosi balzare tra due legionari, irrompere fino al carro e saltarvi sopra. Allora Jeshua avrebbe evitato le pene.

Sarebbe bastato un attimo per colpire Jeshua con una coltellata alla schiena, gridandogli: «Jeshua! Ti salvo e parto con te! Io, Matteo, tuo unico e fedele discepolo!»

E se Dio lo avesse benedetto con un altro attimo di libertà, forse avrebbe fatto in tempo a pugnalare anche se stesso, evitando di morire appeso a un palo. Del resto, quest’ultimo particolare interessava poco l’ex pubblicano Levi. Non gli importava il modo in cui sarebbe morto. Voleva una cosa sola, che Jeshua, il quale in vita sua non aveva mai fatto il minimo torto a nessuno, sfuggisse alle torture.

Il piano era ottimo, ma il fatto era che Levi non aveva un coltello con sé. Non aveva neppure del denaro.

Furioso contro se stesso, uscí fuori dalla folla e tornò indietro di corsa verso la città. Nella sua testa infuocata ballava un unico pensiero febbrile: procurarsi subito, con qualsiasi mezzo, un coltello, e fare in tempo a raggiungere la processione.

Giunse di corsa alle porte di Jerushalajim, sgattaiolando nella calca di carovane risucchiate nella città, e vide alla sua sinistra la porta aperta di una botteguccia dove si vendeva pane. Col respiro pesante per la corsa fatta sulla strada arroventata, Levi si padroneggiò, entrò con molta dignità nella botteguccia, salutò la padrona dietro il banco, e la pregò di prendere dal ripiano la forma di pane collocata in alto, che gli piaceva piú delle altre, e quando la donna si voltò, prese rapido e silenzioso dal bancone una cosa che non si poteva neppure sognare: un lungo coltello da pane affilato come un rasoio, e si precipitò fuori dal negozio.

Pochi minuti dopo era di nuovo sulla strada di Giaffa.

Ma la processione non si vedeva piú. Si mise a correre. A volte si doveva lasciar cadere nella polvere e rimanere immobile per riprendere fiato. Giaceva cosí, provocando lo stupore dei passanti che si dirigevano a Jerushalajim a piedi o a dorso di mulo. Mentre era disteso, ascoltava il cuore battere non soltanto nel petto, ma anche nella testa e nelle orecchie. Dopo aver ripreso un po’ di fiato, balzava su e continuava a correre, ma sempre piú adagio. Quando infine vide la lunga processione che in lontananza sollevava colonne di polvere, essa era già ai piedi della collina.

— Oh Dio!… — gemette Levi, comprendendo che era in ritardo. E difatti lo era.

Quando fu trascorsa la quarta ora dal supplizio, i tormenti di Levi raggiunsero il punto piú alto ed egli fu preso dalla furia. Alzatosi dalla pietra, gettò in terra il coltello che adesso gli pareva di aver rubato invano, schiacciò la borraccia col piede privandosi dell’acqua, strappò dalla testa la kefia,[15] si afferrò i radi capelli e cominciò a maledire se stesso.

Si malediceva, gridava parole senza senso, ululava e sputava, imprecava contro il padre e la madre che avevano messo al mondo uno stupido.

Vedendo che le imprecazioni e le bestemmie non agivano e che sotto la canicola nulla mutava, strinse i pugni scarni, e, socchiudendo gli occhi, li alzò contro il cielo e contro il sole che scivolava sempre piú in basso, allungando le ombre e allontanandosi per cadere nel Mediterraneo, e volle da Dio un miracolo immediato. Voleva che Dio mandasse subito la morte a Jeshua.

Quando aprí gli occhi, constatò che nulla era mutato sulla collina, solo le macchie fiammeggianti sul petto del centurione si erano spente. Il sole dardeggiava sulle schiene dei condannati, il cui viso era rivolto a Jerushalajim. Allora Levi proruppe in un grido:

— Iddio, ti maledico!

Con voce roca gridava che si era convinto dell’ingiustizia di Dio e che non aveva piú intenzione di credere in lui.

— Tu sei sordo! — urlava Levi. — Se non fossi sordo, mi avresti ascoltato e lo avresti ucciso subito!

Con le palpebre serrate, Levi attendeva il fuoco che sarebbe caduto dal cielo per colpirlo. Questo non accadde, e senza disserrare le palpebre, egli continuò a gridare al cielo parole insolenti e mordaci. Gridava che era completamente deluso e che esistevano altri dèi e altre religioni. Sí, un altro dio non avrebbe permesso, non avrebbe mai permesso che un uomo come Jeshua fosse riarso dal sole sui pali.

— Mi sbagliavo! — gridava Levi quasi senza voce. — Tu sei il Dio del male! Oppure i tuoi occhi sono completamente coperti dal fumo degli incensieri del tempio, e le tue orecchie non odono piú altro che i suoni di osanna dei sacerdoti! Tu non sei un Dio onnipotente! Tu sei un Dio nero! Ti maledico, Dio di ladroni, loro protettore e anima!

In quel momento qualcosa alitò in faccia all’ex pubblicano e qualcosa frusciò ai suoi piedi. Alitò di nuovo, e allora, aprendo gli occhi, Levi vide che tutto era cambiato, sotto l’influsso delle sue maledizioni o in forza di qualche altra ragione. Il sole era scomparso prima di arrivare al mare dove affondava ogni sera. Lo aveva inghiottito una nuvola temporalesca, che, minacciosa e inarrestabile, si alzava nel cielo da occidente. I suoi bordi ribollivano già di una bianca spuma, il nero ventre fumoso aveva riflessi gialli. La nuvola brontolava, e se ne staccavano ogni tanto filamenti di fuoco. Sulla strada di Giaffa, lungo l’arida valle di Gihon, sopra le tende dei pellegrini volavano colonne di polvere spinte dal vento alzatosi all’improvviso.

Levi tacque, cercando di capire se il temporale, che stava per coprire Jerushalajim, avrebbe portato qualche cambiamento nel destino dell’infelice Jeshua. E subito, guardando i filamenti di fuoco che fendevano la nuvola, cominciò a pregare perché un fulmine colpisse il palo di Jeshua. Guardando pentito il cielo terso, che la nube non aveva ancora divorato e dove gli avvoltoi scivolavano d’ala per sfuggire al temporale, Levi pensò che si era affrettato follemente con le sue maledizioni: adesso Dio non lo avrebbe ascoltato.

Volto lo sguardo verso i piedi della collina, egli guardò fissamente il luogo in cui si trovava, in ordine sparso, il reggimento di cavalleria, e vide che là erano avvenuti cambiamenti notevoli. Dall’alto, riuscí a scorgere bene i soldati che si davano d’attorno strappando le lance piantate in terra e si gettavano addosso i mantelli, mentre i guardiani trotterellavano verso la strada tenendo per la briglia i morelli. Era chiaro che il reggimento si preparava ad andarsene. Riparandosi con la mano dalla polvere che gli investiva il viso, sputando, Levi cercava di capire il significato di quella partenza. Spostò lo sguardo piú in alto e vide una piccola figura con una clamide militare purpurea che saliva verso il luogo del supplizio. Allora il presentimento di un esito felice raggelò il cuore dell’ex pubblicano.

Chi saliva la collina in quella quinta ora di sofferenza dei ladroni era il comandante della coorte giunta a cavallo da Jerushalajim in compagnia del suo attendente. A un gesto dell’Ammazzatopi, la fila dei soldati si aprí e il centurione salutò il tribuno. Questi condusse l’Ammazzatopi da una parte e gli sussurrò qualcosa. Il centurione salutò una seconda volta, e si mosse verso il gruppo dei boia seduti sulle pietre ai piedi dei pali. Il tribuno si diresse invece verso colui che sedeva sullo sgabello, e quello gli si alzò cortesemente incontro. Il tribuno gli disse qualcosa con voce sommessa, ed entrambi s’incamminarono verso i pali. Li accompagnò il capo delle guardie del tempio.

L’Ammazzatopi, sbirciando con disgusto gli stracci sporchi che giacevano in terra accanto ai pali e che poco prima erano stati gli indumenti dei condannati, rifiutati dai boia, chiamò due di questi ordinando:

— Seguitemi!

Dal palo piú vicino giungeva una rauca canzonetta insensata. Hesta, che vi era legato, era impazzito tre ore dopo per le mosche e il sole, e adesso canticchiava qualcosa a proposito dell’uva, eppure ogni tanto scuoteva la testa coperta da un turbante, e allora le mosche si alzavano fiaccamente in volo dal suo viso per poi ritornarvi.

Appeso al secondo palo, Disma soffriva piú degli altri due, perché non aveva perso la conoscenza e scuoteva la testa in modo frequente e regolare, ora a destra, ora a sinistra, per urtare la spalla con l’orecchio.

Jeshua era piú fortunato degli altri due. Sin dalla prima ora fu colto da svenimenti, poi perse definitivamente la conoscenza e lasciò penzolare la testa col turbante sfasciato. Perciò mosche e tafani lo avevano completamente ricoperto di modo che il suo volto era scomparso sotto una brulicante maschera nera. All’inguine, sul ventre e sotto le ascelle si erano posati grassi tafani che succhiavano il giallo corpo nudo.

Ubbidendo ai gesti dell’uomo col cappuccio, uno dei boia prese una lancia, l’altro portò vicino al palo un secchio e una spugna. Il primo alzò la lancia e picchiettò prima un braccio, poi l’altro, di Jeshua, tesi e legati con delle corde alla traversina del palo. Il corpo dalle costole sporgenti ebbe un sussulto. Il boia passò l’estremità della lancia sul ventre. Allora Jeshua sollevò la testa, e le mosche, ronzando, si alzarono in volo, scoprendo il suo volto enfio di punture, con gli occhi gonfi: un volto irriconoscibile.

Disserrando le palpebre, Hanozri guardò in basso. I suoi occhi, di solito limpidi, erano velati.

— Hanozri! — disse il boia.

Hanozri mosse le labbra tumefatte e replicò con rauca voce da ladrone:

— Che vuoi? Perché sei venuto da me?

— Bevi! — disse il boia, e la spugna imbevuta d’acqua si alzò sulla punta della lancia fino alle labbra di Jeshua. La gioia brillò nei suoi occhi: egli incollò la bocca alla spugna e si mise a succhiare avidamente l’acqua. Dal palo vicino giunse la voce di Disma:

— Ingiustizia! Sono un ladrone come lui!

Disma fece uno sforzo, ma non poté muoversi, le sue braccia erano tenute ferme alla traversina da tre anelli di corda. Tirò il ventre in dentro, le sue unghie si avvinghiarono alle estremità della traversina, tenne la testa voltata verso il palo di Jeshua, e la rabbia bruciava nei suoi occhi.

Una nuvola di polvere coprí il ripiano e scese un gran buio. Quando la polvere fu passata, il centurione gridò:

— Silenzio sul secondo palo!

Disma tacque. Jeshua si staccò dalla spugna e, cercando di rendere dolce e convincente la sua voce, e non riuscendovi, pregò raucamente il boia:

— Dàgli da bere.

Si faceva sempre piú buio. La nuvola aveva coperto ormai mezzo cielo, slanciandosi verso Jerushalajim, bianche nubi spumeggianti correvano davanti alla nuvola nera piena di acqua e di fuoco. Proprio sopra la collina scoppiò un lampo e tuonò. Il boia tolse la spugna dalla lancia.

— Glorifica il generoso egemone! — sussurrò solenne e con un lieve movimento punse Jeshua al cuore. Questi sobbalzò e sussurrò:

— L’egemone…

Il sangue colò sul ventre, la mascella inferiore ebbe uno scatto convulso e la testa ricadde penzoloni.

Al secondo colpo di tuono, il boia stava già dando da bere a Disma, e ripetendo le stesse parole:

— Glorifica l’egemone! — uccise anche lui.

Hesta, privo di senno, gridò spaurito non appena gli si avvicinò il boia, ma quando la spugna toccò le sue labbra, ringhiò qualcosa e afferrò la spugna con i denti. Pochi secondi dopo anche il suo corpo si afflosciò per quanto lo permettevano le corde.

L’uomo col cappuccio seguiva a passo a passo il boia e il centurione, dietro di loro veniva il capo delle guardie del tempio. Fermatosi presso il primo palo, l’uomo col cappuccio esaminò attentamente Jeshua insanguinato, toccò con la bianca mano il suo piede e si rivolse agli accompagnatori:

— È morto.

Lo stesso si ripeté presso gli altri due pali.

Il tribuno fece allora un cenno al centurione e, voltatosi, cominciò a scendere dalla collina con il capo delle guardie del tempio e l’uomo col cappuccio. Si era fatta una semioscurità, e i fulmini solcavano il cielo nero. Da esso a un tratto zampillò il fuoco, e il grido del centurione: «Togliete lo sbarramento!» affogò nel frastuono. Felici, i soldati corsero giú dalla collina, infilandosi gli elmi.

L’oscurità coprí Jerushalajim.

Un acquazzone scrosciò di colpo, e colse le centurie a metà della discesa. L’acqua si rovesciò con tanta violenza che, mentre i soldati correvano in giú, li incalzavano già torrenti impetuosi. I soldati sdrucciolavano e cadevano sull’argilla inzuppata, affrettandosi verso la strada piana, lungo la quale, quasi invisibile dietro il velo d’acqua, trottava alla volta di Jerushalajim la cavalleria, anch’essa fradicia fino al midollo. Pochi minuti dopo, in quel fumigante calderone di tempesta, di acqua e di fuoco, sulla collina era rimasto un uomo solo.

Scuotendo il coltello rubato non invano, sdrucciolando sulle scivolose sporgenze, aggrappandosi a tutto quello che gli capitava, strisciando a volte sulle ginocchia, egli correva verso i pali. Ora scompariva nella completa oscurità, ora era rischiarato all’improvviso da una luce palpitante.

Quando finalmente riuscí ad arrivare ai pali, con l’acqua che ormai giungeva alle caviglie, si strappò di dosso il taleth fradicio, pesante di pioggia, rimase con la sola camicia, e si buttò ai piedi di Jeshua. Tagliò le corde sopra le caviglie, si sollevò sulla traversina inferiore, abbracciò Jeshua e liberò le braccia dai lacci superiori. Il nudo corpo madido di Jeshua cadde su di lui trascinandolo in terra col suo peso. Levi volle caricarselo subito sulle spalle, ma un pensiero lo fermò. Lasciò in terra, nell’acqua, il corpo con la testa gettata indietro e le braccia spalancate, e corse verso gli altri pali coi piedi che scivolavano sull’argilla pastosa. Tagliò anche le loro corde, e i due corpi piombarono in terra.

Passarono alcuni minuti, e sulla cima della collina rimasero soltanto quei due corpi e tre pali vuoti. L’acqua urtava e voltolava i cadaveri.

Sulla collina non c’erano piú né Levi né il corpo di Jeshua.




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