CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO La liberazione del Maestro



Nella camera da letto di Woland tutto era come prima del ballo. Woland sedeva sul letto in camicia, solo che invece di frizionargli la gamba, Hella stava apparecchiando per la cena sulla tavola dove avevano giocato agli scacchi. Korov’ev e Azazello, deposta la marsina, sedevano davanti alla tavola e accanto a loro, naturalmente, aveva preso posto il gatto, il quale non aveva voluto separarsi dalla sua cravatta, benché questa si fosse convertita in uno straccetto lurido. Margherita si accostò vacillando alla tavola e vi si appoggiò. Allora Woland la chiamò a sé con un cenno e le fece segno di sedergli accanto.

— Be’, l’hanno stancata a morte, nevvero? — chiese Woland.

— Oh, no, Messere, — rispose Margherita, ma con voce che si sentiva appena.

— Noblesse oblige, — osservò il gatto, e versò a Margherita un liquido trasparente in un bicchiere da vino rosso.

— È vodka? — domandò Margherita, con voce fioca.

Il gatto fu cosí offeso che fece un balzo sulla seggiola.

— Per carità, regina, — gracchiò, — come potrei permettermi di mescere vodka a una signora? Questo è alcool puro!

Margherita sorrise e tentò di scostare il bicchiere.

— Beva senza timore, — disse Woland, e Margherita prese subito in mano il bicchiere.

— Hella, siediti, — ordinò Woland, e spiegò a Margherita: — La notte del plenilunio è una notte di festa, e io ceno in una cerchia ristretta di familiari e di servitori. Dunque, come si sente? Com’è andato questo ballo estenuante?

— Un successo sbalorditivo, — prese a cicalare Korov’ev.

— Tutti erano incantati, innamorati, annichiliti. Che tatto, che saper fare, che fascino, che charme!

Senza parlare, Woland alzò il bicchiere e brindò con Margherita. Essa bevve docilmente, pensando che l’alcool l’avrebbe fatta morire seduta stante. Ma non accadde nulla di male. Un calore vivo le affluí al ventre, sentí come un colpo soffice alla nuca, le tornarono le forze, quasi si fosse alzata dopo un lungo bagno ristoratore, e inoltre le venne una fame da lupo. E ricordandosi che non aveva mangiato nulla dal mattino precedente, si sentí ancora piú affamata… Cominciò a ingoiare caviale.

Behemoth tagliò un pezzo di ananas, lo salò, lo cosparse di pepe, lo mangiò, dopo di che tracannò cosí baldanzosamente un secondo bicchiere di alcool, che tutti applaudirono.

Quando Margherita ebbe vuotato il secondo bicchiere, le candele nei candelabri si accesero di una luce piú viva e nel camino aumentarono le fiamme. Margherita non si sentiva affatto ubriaca. Mordendo la carne coi denti bianchi, s’inebriava del sugo che da essa colava e nello stesso tempo guardava Behemoth che spalmava di senape un’ostrica.

— Dovresti metterci sopra anche un po’ d’uva, — disse sottovoce Hella, dando una gomitata nel fianco del gatto.

— La pregherei di non darmi lezioni, — replicò Behemoth, — sono abituato a stare a tavola, non tema, oh, come ci sono abituato!

— Ah, com’è piacevole cenare cosí, accanto al fuoco, alla buona, — cianciava Korov’ev, — in una cerchia ristretta…

— No, Fagotto, — obiettò il gatto, — il ballo ha il suo fascino e la sua grandiosità.

— Non c’è in esso nessun fascino e nessuna grandiosità ma quegli stupidi orsi, e cosí pure le tigri del bar con i loro ruggiti mi hanno quasi fatto venire l’emicrania, — disse Woland.

— Ai suoi ordini, Messere, — disse il gatto. — Se lei trova che non c’è grandiosità, comincerò immediatamente a essere della medesima opinione.

— Bada, ve’! — replicò Woland.

— Scherzavo, — disse il gatto tutto umile, — e in quanto alle tigri, darò l’ordine di farle arrostire.

— Le tigri non si possono mangiare, — disse Hella.

— Crede? E allora, vi prego di stare a sentire, — rispose il gatto. E, socchiudendo gli occhi per la soddisfazione raccontò come una volta avesse errato dodici giorni nel deserto, nutrendosi esclusivamente della carne d’una tigre da lui uccisa. Tutti ascoltarono con viva attenzione questo racconto interessante, ma allorché Behemoth ebbe terminato tutti esclamarono in coro:

— È una bugia!

— E quel che c’è di piú curioso in questa bugia, — disse Woland, — è che è una bugia dalla prima all’ultima parola.

— Ah, cosí, dunque? Una bugia? — esclamò il gatto, e tutti pensarono che avrebbe cominciato a protestare, ma si limitò a dire sottovoce:

— La storia ci giudicherà.

— Dica un po’, — chiese Margot, che s’era rianimata dopo l’alcool, rivolgendosi ad Azazello: — gli ha sparato un colpo, a quell’ex barone?

— Naturalmente, — rispose Azazello, — come non sparargli? Bisognava assolutamente ammazzarlo.

— Come mi sono impressionata! — esclamò Margherita.

— Quel che è accaduto era cosí inaspettato!

— Non c’era nulla d’inaspettato in questo, — obiettò Azazello, ma Korov’ev ululò e gemette:

— E com’era possibile non impressionarsi? Anche a me è venuta la tremarella! Paf! Un colpo! E il barone giú in terra!

— Per poco non mi veniva una crisi isterica, — soggiunse il gatto, leccando il cucchiaio del caviale.

— Una cosa non capisco, — disse Margherita, e le scintille dorate sprizzavano dal cristallo nei suoi occhi, — è mai possibile che fuori non si sentisse la musica e, in generale, il baccano di questo ballo?

— No, regina, naturalmente non si sentiva, — spiegò Korov’ev, — bisogna far le cose in modo che non si sentano. Bisogna farle con cura.

— Già, già… ma vede, il fatto è che quell’uomo per le scale… quando siamo passati io e Azazello… e quell’altro nell’ingresso… credo che stesse sorvegliando il nostro appartamento…

— È vero, è vero! — gridò Korov’ev, — è vero, cara Margherita Nikolaevna! Lei conferma i miei sospetti! Sí, egli sorvegliava l’appartamento! Io, sa, l’ho preso per uno svagato libero docente o per un innamorato che s’annoia aspettando per le scale. Macché, macché! Però avevo una spina in cuore! Ah, sorvegliava l’appartamento! E anche quell’altro, nell’ingresso! E quello che era sotto il portone, anche lui faceva lo stesso?

— Una cosa m’interesserebbe sapere; e se venissero ad arrestarvi? — chiese Margherita.

— Verranno senz’altro, graziosa regina, senz’altro! — rispose Korov’ev, — me lo dice il cuore che verranno. Non subito, naturalmente, ma a suo tempo verranno di sicuro. Ma presumo che non accadrà nulla d’interessante.

— Ah, come mi sono impressionata quando quel barone è caduto! — disse Margherita, che a quanto pare aveva rimuginato fino allora su quell’assassinio, il primo che avesse visto in vita sua. — Lei è sicuramente un bravo tiratore?

— Discreto, — rispose Azazello.

— E a quanti passi? — domandò Margherita, non molto chiaramente, ad Azazello.

— Dipende dal bersaglio, — rispose assennatamente Azazello, — una cosa è colpire col martello un vetro del critico Latunskij, e una tutt’altra cosa colpire lui al cuore.

— Al cuore! — esclamò Margherita, portando, chi sa perché, la mano al proprio cuore. — Al cuore! — ripeté con voce sorda.

— Chi sarebbe quel critico Latunskij? — domandò Woland, guardando Margherita tra le palpebre socchiuse.

Azazello, Korov’ev e Behemoth abbassarono gli occhi come se si vergognassero, e Margherita rispose arrossendo:

— È un critico che si chiama cosí. Questa sera gli ho devastato tutto l’appartamento.

— O bella! E perché poi?…

— Oh, Messere, — spiegò Margherita, — ha rovinato un grande Maestro.

— Ma perché ha voluto prendersi lei quella briga? chiese Woland.

— Mi permetta, Messere! — gridò il gatto, tutto contento, balzando su.

— Sta’ fermo, tu, — brontolò Azazello, alzandosi, — ci vado subito io…

— No! — esclamò Margherita, — la supplico, Messere, questo poi no!

— Come vuole, come vuole, — rispose Woland, e Azazello si rimise a sedere.

— Dunque, dov’eravamo rimasti, pregiatissima regina Margot? — disse Korov’ev. — Ah, già, al cuore… Lui colpisce al cuore, — Korov’ev appuntò il suo lungo dito in direzione di Azazello, — a scelta, uno qualunque dei precordi o uno qualunque dei ventricoli.

Margherita non capí lí per lí, ma quand’ebbe capito esclamò, meravigliata:

— Ma sono nascosti!

— Cara, — cicalava Korov’ev, — qui sta il bello, che sono nascosti! Tutto il sale sta per l’appunto qui! Tutti sono buoni a centrare un bersaglio scoperto!

Korov’ev tolse dal cassetto del tavolo un sette di picche e lo porse a Margherita, pregandola di segnare con l’unghia uno dei punti. Margherita segnò quello nell’angolo superiore destro. Hella nascose la carta sotto il guanciale e gridò:

— Fatto!

Azazello che sedeva volgendo le spalle al guanciale, cavò dalla tasca dei calzoni una pistola automatica nera, ne appoggiò la canna sulla spalla e, senza voltarsi verso il letto, sparò, suscitando l’allegro spavento di Margherita. Di sotto al guanciale trapassato dalla pallottola fu tirato fuori il sette di picche. Il punto segnato da Margherita era perforato.

— Non mi piacerebbe imbattermi in lei quando ha una rivoltella in mano, — disse Margherita, lanciando ad Azazello un’occhiata piena di civetteria. Essa andava matta per tutti quelli che facevano qualcosa a perfezione.

— Pregiatissima regina, — strillava Korov’ev, — io non raccomanderei a nessuno d’imbattersi in lui anche se non avesse una rivoltella in mano! Darei la mia parola d’onore di ex direttore di coro e di primo cantore che nessuno si congratulerebbe con quel malcapitato.

Il gatto che durante il saggio di tiro era rimasto seduto, a capo chino, dichiarò a un tratto:

— M’impegno a battere il record del sette di picche.

Azazello, in risposta, masticò qualcosa fra i denti. Ma il gatto tenne duro e pretese non una, ma due rivoltelle.

Azazello trasse fuori la seconda dall’altra tasca posteriore dei calzoni e, storcendo la bocca con aria sprezzante, la porse allo smargiasso insieme con la prima. Sul sette di picche furono segnati due punti. Il gatto ci mise un bel po’ a prepararsi, volgendo le spalle al guanciale. Margherita stava seduta, tappandosi le orecchie con le dita, e guardava la civetta che sonnecchiava sulla mensola del caminetto. Il gatto sparò con le due rivoltelle, dopo di che Hella cacciò uno strillo, la civetta cadde giú morta dalla mensola e l’orologio, fracassato, si fermò. Hella, che aveva una mano insanguinata s’attaccò urlando al pelo del gatto, e lui, in rispostala ghermí per i capelli, e tutt’e due, cosí avvinghiati, si rotolarono sul pavimento. Un bicchiere cadde dalla tavola e si ruppe.

— Trascinate via questa diavolessa infuriata! — urlava il gatto, cercando di respingere Hella, seduta a cavalcioni su di lui. I litiganti furono separati, Korov’ev soffiò sul dito ferito di Hella, ed esso guarí.

— Non posso sparare quando parlano accanto a me! gridò Behemoth, mentre cercava di rimettere a posto il grosso ciuffo di peli che gli era stato strappato dalla schiena.

— Scommetto, — disse Woland, sorridendo a Margherita, — che l’ha fatto apposta. È un discreto tiratore.

Hella e il gatto fecero la pace, e in segno di riconciliazione si baciarono. La carta fu tratta fuori di sotto al guanciale e controllata. Nessun punto, oltre a quello perforato da Azazello, era stato toccato.

— Non può essere, — seguitava ad affermare il gatto, guardando attraverso la carta la luce del candelabro.

L’allegra cena continuava. Le candele si coprivano di scolature di cera. Il calore del caminetto, asciutto e profumato, si diffondeva a ondate nella stanza. Dopo quella gran mangiata, un senso di beatitudine aveva invaso Margherita. Essa guardava gli anelli di fumo grigio-azzurro che uscivano dal sigaro di Azazello e salivano lenti nel camino e il gatto che li infilava sulla punta della spada. Non aveva voglia d’andarsene, benché, secondo i suoi calcoli, fosse già tardi. A giudicare da tutto l’insieme, dovevano essere quasi le sei di mattina. Approfittando di una pausa, Margherita si rivolse a Woland e disse timidamente:

— Forse è ora che me ne vada… è tardi…

— Perché tanta fretta? — chiese Woland in tono cortese ma piuttosto asciutto. Gli altri non fiatarono, fingendo un vivo interesse per gli anelli di fumo che uscivano dai sigari.

— Ma è ora che me ne vada, — ripeté Margherita, tutta sconcertata, e si voltò come per cercare una mantella o una cappa. A un tratto la sua nudità aveva cominciato a darle fastidio. Si alzò da tavola. Woland prese dal letto la sua sudicia e logora vestaglia, e Korov’ev la gettò sulle spalle di Margherita.

— Grazie, Messere, — disse Margherita con voce che si sentiva appena e diede un’occhiata interrogativa a Woland. Questi le rispose con un sorriso cortese e indifferente. Di colpo una nera angoscia strinse il cuore di Margherita. Si sentí ingannata. Nessuno, a quanto pareva, aveva in mente di offrirle una ricompensa per tutti i servigi prestati durante il ballo, e nessuno tentava di trattenerla. E d’altra parte le era ben chiaro che, uscendo di lí, non avrebbe piú avuto dove andare. L’idea, balenatale in mente, che avrebbe dovuto tornare alla palazzina scatenò dentro di lei un accesso di disperazione. E se avesse chiesto lei stessa, come le aveva consigliato lusinghevolmente Azazello nel giardino Aleksandrovskij? «No, a nessun costo!», disse fra sé.

— Stia bene, Messere, — disse ad alta voce, e pensò: «Se soltanto riesco a uscire di qua, arriverò fino al fiume e mi annegherò».

— Su, si sieda, — disse all’improvviso Woland in tono di comando.

Margherita si mutò in viso e si mise a sedere.

— Forse ha qualcosa da dire prima d’andarsene?

— No, Messere, non ho niente da dire, — rispose con fierezza Margherita, — eccetto che se lei ha ancora bisogno di me, sono pronta a fare tutto quello che vorrà. Non sono affatto stanca e mi sono molto divertita al ballo. E quindi, anche se fosse ancora continuato, avrei di nuovo offerto il mio ginocchio affinché migliaia di pendagli da forca e d’assassini lo baciassero — . Margherita guardava Woland come attraverso un velo, gli occhi le si erano riempiti di lacrime.

— È giusto! Lei ha pienamente ragione! — gridò Woland con voce tonante e terribile. — Cosí bisognava fare!

— Cosí bisognava fare, — ripeté come un’eco il seguito di Woland.

— Noi abbiamo voluto metterla alla prova, — disse Woland, — non chieda mai nulla a nessuno! Mai nulla a nessuno e tanto meno a quelli che sono piú forti di lei. Ci penseranno loro a offrire e daranno tutto. Si metta a sedere, donna orgogliosa — . Woland le strappò di dosso la sudicia vestaglia, e Margherita si ritrovò di nuovo seduta sul letto accanto a lui. — Dunque, Margot, — proseguí Woland, addolcendo la voce, — cosa vuole per aver fatto oggi gli onori di casa mia? Che cosa desidera per aver partecipato nuda a questo ballo? Quanto stima il suo ginocchio? Quali perdite le hanno cagionato i miei invitati che lei ha chiamato dianzi pendagli da forca? Parli! E adesso parli pure senza soggezione, dato che gliel’ho proposto io.

Il cuore di Margherita si mise a batter forte, essa sospirò forte, cominciò a riflettere.

— Su, avanti, si faccia animo! — l’incoraggiò Woland: Svegli la sua fantasia, la sproni! Il solo fatto d’aver assistito all’assassinio di quel furfante matricolato d’un barone merita che una persona sia ricompensata, specie se questa persona è una donna. Dunque, signora?

Margherita si sentí mancare il fiato, stava già per proferire le parole vagheggiate e preparate dentro di sé, quando a un tratto impallidí, aperse la bocca e sbarrò gli occhi. «Frida!… Frida! Frida! — le gridò nell’orecchio una voce insistente, supplichevole. — Mi chiamo Frida!» e Margherita, incespicando nelle parole, disse:

— Sicché, dunque… posso chiedere una cosa?

— Esigere, esigere, donna mia, — rispose Woland, con un sorriso di comprensione, — esigere una cosa.

Ah, come Woland, ripetendo le parole stesse di Margherita, aveva sottolineato abilmente e chiaramente «una cosa».

Margherita sospirò ancora una volta e disse:

— Voglio che smettano di porgere a Frida il fazzoletto col quale essa soffocò il suo bambino.

Il gatto alzò gli occhi al cielo e sospirò rumorosamente, ma non disse nulla, ricordandosi evidentemente della tirata d’orecchi durante il ballo.

— Dato che, — prese a dire Woland, sogghignando, — è naturalmente del tutto esclusa la possibilità che lei abbia ricevuto una bustarella da quella stupida di Frida — poiché ciò sarebbe incompatibile con la sua dignità regale — , non so proprio che fare. Rimane, forse, una cosa sola: procurarsi degli stracci e tappare con essi tutte le fessure della mia camera da letto.

— Di che sta parlando, Messere? — si stupí Margherita dopo aver sentito quelle parole davvero incomprensibili.

— Sono pienamente d’accordo con lei, Messere, — intervenne il gatto, — sí, proprio degli stracci! — e, dal dispetto, batté la zampa sulla tavola.

— Sto parlando della pietà, — spiegò Woland, senza staccare da Margherita il suo occhio infocato, — talvolta essa s’insinua del tutto inattesa e insidiosa, nelle fessure piú anguste. Perciò sto parlando di stracci…

— Anch’io sto parlando di questo! — esclamò il gatto e a ogni buon conto si scostò da Margherita, coprendosi gli orecchi aguzzi con le zampe spalmate di crema rosa.

— Vattene, — gli disse Woland.

— Non ho ancora preso il caffè, — rispose il gatto, — perché dovrei andarmene? È mai possibile, Messere, che in una notte di festa i commensali vengano divisi in due categorie? Gli uni di prima, e gli altri — come ebbe a dire quel triste avaraccio di barista — di seconda freschezza?

— Sta’ zitto, — gli ordinò Woland e, rivolgendosi a Margherita, le chiese: — Lei, a giudicare da tutto quanto, è una persona d’una bontà eccezionale? Una persona altamente morale?

— No, — rispose con forza Margherita, — so che con lei si può discorrere soltanto sinceramente, e sinceramente le dico che sono una persona leggera. Le ho chiesto per Frida soltanto perché sono stata cosí imprudente da darle una fondata speranza. Essa aspetta, Messere, essa crede nel mio potere. E se restasse delusa, mi troverei in una situazione terribile. Non avrei piú pace finché vivo. Non c’è nulla da fare, è andata cosí.

— Ah, — disse Woland, — ora capisco.

— E lo farà — domandò sottovoce Margherita.

— Nemmeno per idea — rispose Woland — il fatto è, cara regina, che c’è stata una piccola confusione. Ogni dicastero deve occuparsi dei propri affari. Non lo nego, le nostre possibilità sono piuttosto grandi, sono assai piú grandi di quanto presuma certa gente, non molto perspicace…

— Eh, sí, sono assai piú grandi, — non seppe trattenersi dall’interloquire il gatto, visibilmente orgoglioso di tali possibilità.

— Zitto, che il diavolo ti porti! — gli disse Woland e proseguí, rivolto a Margherita: — Ma che senso c’è a fare qualcosa che è di competenza di un altro — chiamiamolo cosí — dicastero? Quindi io non lo farò, e lo farà lei stessa.

— Ma si farà come voglio io?

Azazello guardò ironicamente Margherita con la coda dell’occhio strabico, poi, senza farsi scorgere, voltò dall’altra la testa rossa e scoppiò in una risatina.

— Avanti, lo faccia, uffa, che tormento, — brontolò Woland, e girando il globo si mise a esaminare su di esso non si sa che particolare, dando a vedere che s’occupava d’altro mentre discorreva con Margherita.

— Dunque, Frida… — suggerí Korov’ev.

— Frida! — gridò Margherita con voce acuta.

L’uscio si spalancò e una donna scarmigliata, nuda, ma che non dava piú segno alcuno d’essere ubriaca, irruppe nella stanza con occhi disperati e protese le due mani verso Margherita, la quale disse maestosamente:

— Sei perdonata. Non ti porgeranno piú il fazzoletto.

Si udí l’urlo di Frida, essa cadde bocconi sul pavimento e si prosternò allargando le braccia davanti a Margherita. Woland fece un gesto d’insofferenza e Frida scomparve.

— La ringrazio, addio, — disse Margherita, e si alzò.

— Be’, che ne pensi, Behemoth, — disse Woland, — non vogliamo lucrare sul gesto d’una persona poco pratica, in una notte di festa — . Si volse verso Margherita: — Dunque, questo non conta, perché io non ho fatto niente. Che cosa vuole per sé?

Ci fu un momento di silenzio e lo ruppe Korov’ev, che sussurrò all’orecchio di Margherita:

— Donna adamantina, questa volta le consiglio d’essere un po’ piú ragionevole. Altrimenti, sa, la fortuna potrebbe anche sfuggirle.

— Voglio che subito, in quest’attimo stesso, mi venga restituito il mio amante, il Maestro, — disse Margherita, e uno spasimo le contrasse il viso.

Allora una folata di vento irruppe nel1a stanza, cosicché la fiamma delle candele nei candelabri si smorzò, la tenda pesante davanti alla finestra si scostò da un lato, la finestra si spalancò e lontano, su in alto si scoperse la luna piena, ma non quella del mattino, bensí quella di mezzanotte. Dal davanzale cadde sul pavimento un drappo verdognolo di luce notturna, e in esso apparve il visitatore notturno di Ivanuška, che aveva detto di chiamarsi il Maestro. Era vestito come all’ospedale, in vestaglia, pantofole e col berrettino nero dal quale non si separava mai. Il suo volto non rasato era contratto da una smorfia, egli storceva gli occhi, pieni di un dissennato timore, verso le fiamme delle candele, mentre un torrente di luce lunare ribolliva intorno a lui.

Margherita lo riconobbe subito, diede in un gemito, alzò le mani battendole insieme e gli corse incontro. Lo baciava sulla fronte, sulle labbra, si stringeva alla sua guancia ispida, e le lacrime a lungo trattenute le fluivano ora giú per il viso. Aveva pronunziato una parola sola, e la ripeteva come insensata:

— Tu… tu… tu…

Il Maestro l’allontanò da sé e disse con voce sorda:

— Non piangere, Margot, non tormentarmi, sono gravemente ammalato — . Si aggrappò con la mano al davanzale come se volesse balzarvi sopra e fuggire, digrignò i denti, e guardando attentamente quelli che stavano seduti gridò:

— Ho paura, Margot! Ricomincio a soffrire di allucinazioni…

I singhiozzi soffocavano Margherita, essa sussurrava, con voce strozzata:

— No, no, no… non devi temer nulla… ci sono io con te. ci sono io con te…

Korov’ev, con una mossa abile e quasi impercettibile spinse una sedia verso il Maestro e questi vi si lasciò cadere; Margherita si gettò in ginocchio, si strinse al fianco del malato e non si mosse piú. Nel suo orgasmo non s’era accorta che, quasi repentinamente, aveva cessato d’esser nuda, adesso aveva indosso una mantella di seta nera. Il malato aveva chinato il capo e guardava in terra con occhi torvi e dolenti.

— Già, — disse Woland dopo una pausa, — l’hanno conciato per le feste — . E ordinò a Korov’ev:

— Su, cavaliere, da’ qualcosa da bere a quest’uomo.

Margherita cercava di persuadere il Maestro con voce tremante:

— Bevi, bevi! Hai paura? No, no, credi a me, essi ti aiuteranno!

Il malato prese il bicchiere e bevve quel che c’era dentro, ma la sua mano sussultò e il bicchiere, cadendo, s’infranse ai suoi piedi.

— Porta fortuna porta fortuna! — sussurrò Korov’ev a Margherita. — Vede, sta già tornando in sé.

Infatti, lo sguardo del malato non era piú cosí truce e inquieto.

— Ma sei tu, Margot? — chiese l’ospite lunare.

— Non dubitare, sono io, — rispose Margherita.

— Ancora! — ordinò Woland.

Quando il Maestro ebbe tracannato il secondo bicchiere, i suoi occhi divennero vivi e coscienti.

— Oh, bene, adesso è un’altra cosa, — disse Woland, socchiudendo le palpebre, — ora parleremo. Chi è lei?

— Adesso non sono nessuno, — rispose il Maestro, e un sorriso gli storse la bocca.

— Di dove arriva?

— Da una casa di dolore. Sono un malato di mente, — rispose il nuovo venuto.

Margherita non poté sopportare quelle parole e scoppiò di nuovo in lacrime. Poi, asciugandosi gli occhi, gridò:

— Che parole orribili! Che parole orribili! Messere, l’avverto che egli è un Maestro! Lo curi, egli lo merita!

— Lei sa con chi sta parlando? — chiese Woland al nuovo arrivato. — Sa in casa di chi si trova?

— Lo so, — rispose il Maestro, — al manicomio avevo per vicino quel ragazzo, Ivan Bezdomnyj. Mi ha parlato di lei.

— Già, è vero, — rispose Woland, — ho avuto il piacere d’incontrarmi con quel giovanotto agli stagni Patriaršie. Per un pelo non ha fatto impazzire anche me, dimostrandomi che io non esisto. Ma ci crede che io sono veramente io?

— Bisogna crederci, — disse il nuovo venuto, — ma naturalmente, sarebbe assai piú comodo ritenere che lei è il prodotto d’un’allucinazione. Mi scusi, — soggiunse il Maestro, riprendendosi.

— Be’, perché no? Se è piú comodo, lo ritenga pure, — rispose cortesemente Woland.

— No, no! — disse Margherita, spaventata, e scosse il Maestro per le spalle. — Rientra in te! Dinanzi a te c’è realmente lui!

A questo punto il gatto intervenne di nuovo:

— Io, però, assomiglio per davvero a un’allucinazione. Osservate un po’ il mio profilo al chiaro di luna — . Il gatto s’infilò nella striscia di luce lunare e stava per aggiungere ancora qualcosa, ma fu pregato di star zitto ed egli rispose: — Bene, bene, sono pronto a tacere. Sarò un’allucinazione taciturna, — e non fiatò piú.

— Dica un po’, perché Margherita la chiama Maestro? domandò Woland.

L’altro sogghignò e disse:

— È una debolezza perdonabile. Essa ha un concetto troppo alto del romanzo che ho scritto.

— Un romanzo su che cosa?

— Un romanzo su Ponzio Pilato.

A questo punto le fiammelle delle candele ripresero a ondeggiare e a guizzare, i piatti tintinnarono sulla tavola. Woland scoppiò in una risata tonante, ma quel riso non spaventò e non meravigliò nessuno. Behemoth, chi sa perché, applaudí.

— Su che cosa, su che cosa? Su chi? — disse Woland, e smise di ridere. — Questa è grossa. E non poteva trovare un altro argomento? Faccia un po’ vedere — . E Woland tese la mano con la palma all’insú.

— Io, purtroppo, non posso farlo, — rispose il Maestro, perché l’ho bruciato nella stufa.

— Scusi, non ci credo, — replicò Woland, — non può essere, i manoscritti non bruciano — . Si voltò verso Behemoth e disse: — Su, Behemoth, dammi qua il romanzo.

Il gatto, all’istante, saltò giú dalla seggiola e tutti videro che era seduto su un grosso pacco di manoscritti. Con un inchino, il gatto porse a Woland l’esemplare che stava sopra gli altri. Margherita si mise a tremare e gridò, commovendosi di nuovo fino alle lacrime:

— Eccolo, il manoscritto! Eccolo!

Si precipitò verso Woland e aggiunse, rapita:

— Onnipotente! Onnipotente!

Woland prese in mano l’esemplare che gli era stato dato, lo rivoltò, lo mise da parte e in silenzio, senza sorridere, piantò gli occhi in faccia al Maestro. Ma questi, non si sa perché, fu preso dalla tristezza e dalla paura, si alzò dalla seggiola, si torse le mani e, rivolto alla luna lontana, cominciò a mormorare, sussultando:

— Anche nelle notti di luna non ho pace… Perché mi hanno disturbato? Oh numi, oh numi!…

Margherita si aggrappò alla vestaglia da ospedale, si strinse ad essa e cominciò anche lei a mormorare, angosciata e piangente:

— Oh dio, ma perché la medicina non ti giova?

— Non è niente, non è niente, — sussurrava Korov’ev, insinuandosi accanto al Maestro, — non è niente, niente.. Ancora un bicchierino, e anch’io, per farle compagnia…

E il bicchierino ammiccò, scintillò al chiaro di luna, e questo bicchierino giovò. Il Maestro fu fatto sedere al suo posto e il volto del malato prese un’espressione tranquilla.

— Be’, adesso tutto è chiaro, — disse Woland, e batté le lunghe dita sul manoscritto.

— Chiarissimo, — confermò il gatto, dimentico della sua promessa di diventare un’allucinazione taciturna, — adesso la linea maestra di quest’opera mi è del tutto chiara. Che stai dicendo, Azazello? — chiese rivolgendosi al silenzioso Azazello.

— Dico, — rispose quello, con voce nasale, — che sarebbe bene affogarti.

— Sii misericordioso, — replicò il gatto, — e non suggerire quest’idea al mio signore. Credi a me, ti apparirei ogni notte nello stesso abbigliamento lunare del povero Maestro, e ti farei cenno di seguirmi. Come ti sentiresti, o Azazello?

— Be’, Margherita, — riattaccò Woland, — dica pure tutto quel che le occorre.

— Mi permetta di sussurrare con lui.

Woland annuí col capo, e Margherita, serrandosi all’orecchio del Maestro, gli bisbigliò qualcosa. Si sentí che egli rispondeva:

— No, è troppo tardi. Non voglio altro dalla vita se non vedere te. Ma te lo consiglio di nuovo, lasciami, andresti in malora con me.

— No, non ti lascerò, — rispose Margherita, e si rivolse a Woland: — La prego di farci tornare allo scantinato nel vicolo vicino all’Arbat, e che s’accenda la lampada e tutto sia di nuovo come prima.

Allora il Maestro si mise a ridere e cingendo la testa di Margherita sulla quale i riccioli s’erano disfatti da tempo, disse:

— Ah, Messere, non dia retta a una povera donna! In quello scantinato abita da tanto tempo qualcun altro, e in genere non si dà il caso che tutto sia di nuovo come prima — . Appoggiò la guancia alla testa della sua amica, abbracciò Margherita e intanto mormorava: — Poveretta, poveretta…

— Non si dà il caso, dice lei? — disse Woland. — È vero. Ma noi proveremo — . E chiamò: — Azazello!

Immediatamente un signore sbigottito e prossimo alla frenesia precipitò dal soffitto sul pavimento; era in camicia, ma chi sa perché aveva una valigia in mano e il berretto in testa. Quest’uomo traballava e s’accosciava per lo spavento.

— Mogaryč? — domandò Azazello all’individuo piovuto dal cielo.

— Aloizij Mogaryč, — rispose colui, tremando.

— È lei che, dopo aver letto l’articolo di Latunskij sul romanzo di quest’uomo, scrisse un reclamo contro di lui informando che egli teneva in casa letteratura illegale? domandò Azazello.

Il neoapparso signore illividí e si sciolse in lacrime di contrizione.

— Lei voleva trasferirsi nelle sue stanze? — chiese Azazello, con tutta la cordialità possibile, parlando nel naso.

Si udí nella stanza uno sbuffare di gatta inferocita, e Margherita, urlando:

— Ecco che cos’è una strega, ecco! — piantò le unghie in faccia ad Aloizij Mogaryč.

Successe un putiferio.

— Che fai? — gridò il Maestro, addolorato. — Margot, non disonorarti!

— Protesto! Questo non è un disonore! — sbraitò il gatto.

Margherita fu trascinata via da Korov’ev.

— Io ci ho aggiunto lo stanzino da bagno… — gridava Mogaryč, insanguinato, battendo i denti, e nel suo spavento cominciò a straparlare, — la sola imbiancatura… il vetriolo…

— Be’, è una bella cosa che ci abbia aggiunto lo stanzino da bagno, — disse Azazello in tono d’approvazione, — lui ha bisogno di fare dei bagni — . E gridò: — Via!

Allora Mogaryč fu rivoltato coi piedi all’insú e portato via dalla camera da letto di Woland attraverso la finestra aperta.

Il Maestro stralunò gli occhi, sussurrando:

— Forse, però, questo è un po’ piú pulito di quanto raccontava Ivan! — Profondamente sbalordito, si guardò intorno e disse infine al gatto: — Chiedo scusa, sei tu… è lei… — Si confuse, non sapendo come ci si rivolge a un gatto. — E lei quel gatto che fu fatto salire in tram?

— Sí, sono io, — confermò il gatto, lusingato, e soggiunse: — Mi fa piacere sentire come tratta cortesemente un gatto. Ai gatti, di solito, si dà del tu chissà perché, anche se nessun gatto ha mai fraternizzato con qualcuno trincando insieme.

— Mi sembra che lei non sia proprio un gatto… — rispose, esitando, il Maestro. — All’ospedale s’accorgeranno lo stesso della mia assenza, — soggiunse timidamente, rivolto a Woland.

— Di che cosa vuol mai che s’accorgano, — lo rassicurò Korov’ev, e libri e carte gli apparvero tra le mani: — È la storia della sua malattia?

— Sí…

Korov’ev scaraventò la storia della malattia nel caminetto.

— Se non esistono i documenti, non esiste neppure la persona, — disse soddisfatto.

— E questo è il registro degli inquilini del capomastro?

— Sí, ma…

— Che nome vi è registrato? Aloizij Mogaryč? — Korov’ev soffiò su una pagina del registro. — Questa è fatta!

Lui non c’è e, noti bene, non c’è mai stato! Se poi il capomastro si stupisce, gli dica che se l’è sognato, quell’Aloizij. Mogaryč? Chi sarebbe questo Mogaryč? Non c’è mai stato nessun Mogaryč! — A questo punto il registro legato in brossura si volatilizzò dalle mani di Korov’ev. — E adesso è già sul tavolo del costruttore.

— Lei ha detto bene, — disse il Maestro, stupito della perfezione del lavoro di Korov’ev, — quando non ci sono documenti, non c’è neppure la persona. Ecco, io, per esempio, non esisto, perché non ho documenti.

— Mi scusi, — esclamò Korov’ev, — questa è per l’appunto un’allucinazione, eccole la sua carta d’identità — . Poi volse gli occhi e sussurrò soavemente a Margherita: — ed ecco qua anche i suoi averi, Margherita Nikolaevna, — e Korov’ev consegnò a Margherita il quaderno dai margini bruciacchiati, la rosa secca, la foto e, con particolare premura, il libretto di risparmio: — Diecimila rubli come li ha depositati lei, Margherita Nikolaevna. Noi non sappiamo che farcene, della roba altrui.

— Mi si paralizzino le zampe piuttosto che toccare la roba altrui, — esclamò il gatto, con sussiego, ballando sulla valigia per pigiarvi dentro tutti gli esemplari dello sfortunato romanzo.

— E qui c’è anche la sua carta d’identità, — continuò Korov’ev, porgendo il documento a Margherita, dopo di che, rivolto a Woland, riferí rispettosamente: — È tutto Messere.

— No, non è tutto, — rispose Woland, staccandosi a malincuore dal globo, — che ne facciamo del suo seguito, mia cara donna? Io, personalmente, non so che farne.

In quel momento Nataša irruppe dalla porta aperta, nuda come l’aveva fatta sua madre, batté le mani e gridò a Margherita:

— Sia felice, Margherita Nikolaevna! — salutò il Maestro con un cenno del capo e si volse di nuovo verso Margherita: — Io, vede, ho sempre saputo dove lei andava.

— Le cameriere sanno tutto, — osservò il gatto, sollevando la zampa con un gesto molto significativo, — è un errore pensare che siano cieche.

— Che vuoi, Nataša? — chiese Margherita. — Tornatene alla palazzina.

— Margherita Nikolaevna, tesoro, — prese a dire Nataša in tono supplichevole, e si mise in ginocchio, — ottenga da Sua Signoria, — accennò con gli occhi a Woland, — che mi lasci continuare a essere una strega. Non voglio piú tornare alla palazzina! Non sposerò né un ingegnere né un tecnico! Ieri, durante il ballo, il signor Jacques ha chiesto la mia mano, — Nataša dischiuse il pugno e mostrò alcune monete d’oro.

Margherita rivolse a Woland un’occhiata interrogativa.

Questi assenti col capo. Allora Nataša si buttò al collo di Margherita, la baciò e la ribaciò e, con un grido di vittoria, s’involò dalla finestra.

Al posto di Nataša comparve Nikolaj Ivanovič. Aveva riacquistato il suo sembiante umano, ma era estremamente cupo e, forse, irritato.

— Eccone uno che metterò in libertà con particolare piacere, — disse Woland, guardando con avversione Nikolaj Ivanovič, — con un piacere straordinario, tanto egli è superfluo qui.

— Chiedo vivamente che mi venga rilasciato un certificato in merito al luogo dove ho trascorso quest’ultima notte, — disse Nikolaj Ivanovič, guardandosi timidamente attorno, ma con grande insistenza.

— Per quale uso? — domandò con severità il gatto.

— Per esibirlo alla polizia e alla mia consorte, — rispose con fermezza Nikolaj Ivanovič.

— Di solito non rilasciamo certificati, — rispose il gatto con aria burbera, — ma pazienza, per lei faremo un’eccezione.

E prima che Nikolaj Ivanovič si fosse riavuto, Hella, ignuda, sedeva già alla macchina da scrivere, e il gatto le stava dettando.

— Si attesta che il latore del presente certificato, Nikolaj Ivanovič, ha trascorso la detta notte al ballo in casa di Satana, essendo stato quivi comandato in qualità di mezzo di trasporto… parentesi, Hella, e fra le parentesi scrivi «verro». Firmato Behemoth.

— E la data? — frignò Nikolaj Ivanovič.

— La data non la mettiamo, con la data il documento non sarebbe piú valido, — rispose il gatto, scarabocchiando la firma sulla carta. Poi, non si sa di dove, trasse un timbro, vi soffiò sopra a regola d’arte, stampò sulla carta la parola «pagato» e la consegnò a Nikolaj Ivanovič. Dopo di che Nikolaj Ivanovič sparí, e al suo posto apparve inaspettatamente qualcun altro.

— E questo, chi sarebbe? — chiese sdegnosamente Woland, riparandosi con la mano dalla luce delle candele.

Varenucha abbassò il capo, sospirò e disse sommessamente:

— Mi lasci tornare indietro, non posso fare il vampiro. Quella volta con Hella per un pelo non ho ammazzato Rimskij. Ma io non sono un sanguinario. Mi lasci andare!

— Che va farneticando? — chiese Woland, accigliandosi.

— Chi sarebbe quel Rimskij? Cos’è quest’altra corbelleria?

— Non stia a disturbarsi, Messere, — rispose Azazello e si rivolse a Varenucha: — Non si deve insolentire la gente per telefono. Non si deve mentire per telefono. Capito? Non lo farà piú?

Per la gioia Varenucha perdette la bussola, il suo volto si fece raggiante e senza rendersi conto di quel che diceva, egli borbottò:

— Con sincero pent… cioè, voglio dire… Vostra Ma… subito dopo pranzo… — Varenucha si era messo una mano sul petto, guardava implorante Azazello.

— Va bene. A casa! — disse costui e Varenucha si squagliò.

— Adesso tutti voi lasciatemi solo con loro, — comandò Woland, indicando il Maestro e Margherita.

L’ordine di Woland fu eseguito sull’istante. Dopo un po’ di silenzio, Woland si rivolse al Maestro:

— Sicché, dunque, tornerà nello scantinato vicino all’Arbat? Ma chi, dunque, scriverà? E i sogni, l’ispirazione?

— Non ho piú nessun sogno e non ho neppure l’ispirazione, — rispose il Maestro. — Intorno a me non c’è nessuno che m’interessi, eccetto lei, — e posò di nuovo la mano sul capo di Margherita. — Mi hanno spezzato, m’annoio e voglio andare nello scantinato.

— E il suo romanzo? Pilato?

— Lo detesto, quel romanzo, — rispose il Maestro, — ne ho passate troppe per causa sua.

— Ti supplico, — chiese lamentosamente Margherita, non parlare cosí. Perché mi tormenti? Sai bene che ho messo tutta la mia vita in questa tua opera — . Margherita soggiunse ancora, rivolgendosi a Woland: — Non gli dia retta, Messere, l’hanno tormentato troppo.

— Ma bisogna pure descrivere qualcosa, nevvero? — disse Woland. — Se ha esaurito quel procuratore, cominci almeno a ritrarre, che so io, Aloizij…

Il Maestro sorrise.

— Quello, la Lapsennikova non lo pubblicherebbe mai, e del resto non è neppure interessante.

— Ma di che cosa vivrà? Le toccherà chiedere l’elemosina?

— Volentieri, volentieri — rispose il Maestro, attirando a sé Margherita. Le cinse le spalle col braccio e soggiunse: — Essa rinsavirà, mi abbandonerà…

— Non credo, — disse Woland fra i denti, e continuo: — Sicché, dunque, l’uomo che ha scritto la storia di Ponzio Pilato si ritira in uno scantinato, con l’intenzione di accomodarsi là, sotto la lampada, e di andare a chiedere l’elemosina?

Margherita si staccò dal Maestro e prese a dire molto impetuosamente:

— Ho fatto tutto quel che potevo, e gli ho sussurrato quanto c’è di piú seducente al mondo. Ma l’ha rifiutato.

— Quello che gli ha sussurrato, lo so, — ribatté Woland, — ma non è la cosa piú seducente. Le dirò, — e si volse sorridendo al Maestro, — che il suo romanzo le arrecherà ancora delle sorprese.

— Ciò è molto triste, — rispose il Maestro.

— No, no, non è triste, — disse Woland, — non c’è piú da aver paura di nulla. Or dunque, Margherita Nikolaevna, tutto è stato fatto. Ha qualche richiesta da rivolgermi?

— Che dice, oh, che dice, Messere!…

— Allora accetti questo per mio ricordo, — disse Woland e trasse di sotto al guanciale un piccolo ferro da cavallo d’oro tempestato di diamanti.

— No, no, no, perché poi?

— Vuole mettersi a litigare con me? — chiese, sorridendo, Woland.

Siccome il suo mantello non aveva tasche, Margherita ripose il ferro da cavallo in un tovagliolino che strinse insieme con un nodo. In quel momento qualcosa la stupí. Essa diede un’occhiata alla finestra in cui brillava la luna e disse:

— C’è una cosa che non capisco… come mai è sempre ancora mezzanotte, mentre da un pezzo dovrebbe già essere mattino?

— Fa piacere protrarre un poco una mezzanotte di festa — rispose Woland. — Be’, le auguro buona fortuna!

Margherita protese verso Woland le due mani in atto di preghiera, ma non osò avvicinarsi a lui ed esclamò sommessamente:

— Addio! Addio!

— Arrivederci, — disse Woland.

E Margherita in mantella nera, il Maestro in vestaglia da ospedale uscirono nel corridoio dell’appartamento della gioielliera, dove ardeva una candela e dove erano attesi dal seguito di Woland. Quando sboccarono dal corridoio, Hella portava la valigia contenente il romanzo e i modesti averi di Margherita Nikolaevna, e il gatto aiutava Hella.

Alla porta dell’appartamento Korov’ev s’inchinò e scomparve, mentre gli altri si avviarono ad accompagnarli per le scale. Esse erano deserte. Mentre attraversavano il pianerottolo del terzo piano, qualcosa di soffice cadde con un tonfo, ma nessuno vi badò. Arrivati all’uscita della scala n. 6, Azazello soffiò in aria, e non appena uscirono nel cortile, in cui la luna non era tramontata, scorsero un uomo in berretto e stivaloni che dormiva sul pianerottolo e, a quanto pareva, dormiva della grossa, come pure davanti al portone una grande macchina nera coi fari spenti. Dal parabrezza s’intravedeva vagamente la sagoma d’un gracchio.

Stavano già per salire, allorché Margherita, disperata, esclamò a mezzavoce:

— O dio, ho perso il ferro da cavallo!

— Salite in auto, — disse Azazello, — e aspettatemi. Torno subito, vedo soltanto di che si tratta — . E rientrò nell’ingresso.

Ed ecco di che si trattava: poco prima che Margherita e il Maestro uscissero con i loro accompagnatori, dall’appartamento n. 48, situato sotto quello della gioielliera, era sbucata sulle scale una donna smilza con un bidoncino e una sporta in mano. Era quella stessa Annuška che al mercoledí aveva rovesciato, disgraziatamente per Berlioz, l’olio di semi davanti al tornello.

Nessuno sapeva, e nessuno forse saprà mai che lavoro facesse questa donna né quali fossero i suoi mezzi di sussistenza. Di lei si sapeva soltanto che la si poteva vedere ogni giorno ora col bidoncino, ora con bidoncino e sporta insieme, o nella bottega del petrolio, o al mercato, o sotto il portone della casa, o per le scale o il piú delle volte nella cucina dell’appartamento n. 48 dove per l’appunto abitava questa Annuška. Inoltre e soprattutto era noto che dovunque essa si trovasse o apparisse, subito nasceva in quel luogo uno scompiglio e che per giunta era soprannominata «Peste».

Peste-Annuška si alzava, chissà perché, molto presto, ma quel giorno qualcosa l’aveva fatta saltar giú dal letto a notte fonda, poco dopo mezzanotte. La chiave girò nella toppa, il naso di Annuška spuntò dalla porta, dopo di che spuntò anche lei tutta intera, richiuse l’uscio dietro di sé e stava già per mettersi in moto quando sul pianerottolo soprastante una porta si chiuse con un tonfo, qualcuno rotolò giú per le scale e, investendo Annuška, la buttò da un lato con un impeto tale che essa batté la nuca contro il muro.

— Dove diavolo vai, cosí, in mutande? — strillò Annuška, afferrandosi la nuca.

L’individuo in camicia e mutande, con una valigia in mano e un berretto in testa, rispose a occhi chiusi ad Annuška con una strana voce insonnolita:

— Lo scaldabagno… il vetriolo… l’imbiancatura da sola è costata un occhio della testa… — e, scoppiando a piangere, sbraitò: — Via!

E si slanciò di corsa, non giú per le scale ma indietro verso l’alto, dove c’era la finestra col vetro rotto dal piede dell’economista, e da questa finestra volò a capofitto giú in cortile. Annuška dimenticò perfino la sua nuca, gemette:

— Oh! — e si precipitò a sua volta verso la finestra. Distesa bocconi sul pianerottolo, mise fuori la testa, aspettandosi di vedere sull’asfalto del cortile, illuminato da un lampione, il corpo sfracellato dell’uomo con la valigia. Ma sull’asfalto del cortile non c’era un bel niente.

Restava da presumere che lo strano individuo insonnolito fosse volato via dalla casa senza lasciar traccia di sé. Annuška si fece il segno della croce e pensò: «Eh, non c’è che dire, l’appartamento n. 50! Non per niente la gente dice… Accipicchia, che appartamento!…»

Non aveva ancora finito di pensare questo, che la porta in alto sbatté di nuovo e qualcun altro si mise a correre in giú. Annuška si strinse al muro e si vide sgattaiolare davanti un cittadino abbastanza rispettabile, con la barbetta, ma con una faccia — cosí almeno sembrò ad Annuška — lievemente suina; anche costui, come già l’altro, abbandonò la casa passando dalla finestra, e anche lui non si sognò neppure di sfracellarsi sull’asfalto. Annuška aveva ormai dimenticato per quale scopo fosse uscita e rimase per le scale, segnandosi, gemendo: ohi, ohi, e discorrendo fra sé.

Il terzo senza barbetta, con una faccia rotonda e glabra, in camiciotto alla Tolstoj, scese poco dopo di corsa e esattamente allo stesso modo frullò via dalla finestra.

Va detto a onore di Annuška che essa era curiosa e aveva deciso di aspettare ancora un po’ per vedere se non ci sarebbero stati altri prodigi. In alto, la porta si aperse di nuovo e tutta una comitiva cominciò a scendere, non di corsa, ma a passo abituale, come camminano tutti. Annuška scappò via dalla finestra, scese verso la sua porta, l’aprí in fretta, si nascose dietro di essa, e dallo spiraglio lasciato aperto baluginò il suo occhio pieno di frenetica curiosità.

Un tizio, malato o non malato, ma strano, pallido, con la barba lunga, un berrettino e una specie di vestaglia, scendeva a passi malfermi. Una signora in tonaca nera, cosí almeno sembrò ad Annuška in quella semioscurità, lo conduceva premurosamente sotto braccio. Era una madama scalza, oppure con certe scarpette trasparenti, evidentemente importate dall’estero, tutte sbrindellate. Puh, altro che scarpette!… La madama era nuda! Ma certo, s’era infilata la tonaca sul corpo nudo!… «Accipicchia, che appartamento!…» L’anima di Annuška era tutto un inno di gioia, pregustando quel che avrebbe avuto da raccontare l’indomani ai vicini.

Dietro la madama bizzarramente vestita ne veniva un’altra tutta nuda con una valigetta in mano e accanto alla valigetta arrancava un enorme gatto nero. Annuška trattenne a stento uno strillo e si stropicciò gli occhi.

Chiudeva il corteo uno straniero di piccola statura, zoppicante, guercio da un occhio, senza giacca, in panciotto bianco da marsina e con tanto di cravatta. Tutta questa comitiva sfilò davanti ad Annuška e proseguí verso le scale. In quel momento qualcosa cadde con un tonfo sul pianerottolo.

Quando sentí che i passi si smorzavano, Annuška sgusciò fuori della porta come una serpe, appoggiò il bidoncino al muro, si gettò bocconi sul pianerottolo e cominciò a tastare intorno a sé. A un tratto si trovò fra le mani un tovagliolino con qualcosa di pesante. Quando ebbe sciolto l’involtino, Annuška strabiliò. Accostò il gioiello agli occhi, e in questi occhi ardeva un fuoco come in quelli d’un lupo Nella testa di Annuška vorticava una bufera:

«Non so niente, non ho visto niente. Portarlo da mio nipote? O segarlo in tanti pezzettini?… Le pietre si possono cavar fuori e venderle una alla volta: una sulla Petrovka, un’altra allo Smolenskij.[21] E io non so niente, non ho visto niente».

Annuška nascose in seno quel che aveva trovato, afferrò il bidoncino e stava per infilarsi di nuovo nell’appartamento, rinviando il suo viaggio in città, allorché le sorse davanti, sa il diavolo di dove fosse spuntato, quello stesso tipo dal petto bianco, senza giacca, e sussurrò piano:

— Fuori il ferro da cavallo e il tovagliolino!

— Che tovagliolino e che ferro da cavallo? — chiese Annuška, recitando molto abilmente la commedia. — Non so di nessun tovagliolino. Ehi, amico, è ubriaco?

Senza aggiungere altro, con dita dure come le maniglie d’un autobus, e altrettanto fredde, il tizio dal petto bianco strinse la gola di Annuška cosí forte da impedire all’aria qualsiasi accesso al di lei petto. Il bidoncino le cadde dalle mani e finí in terra. Dopo averla tenuta un po’ di tempo senz’aria, lo straniero privo di giacca tolse le dita dal suo collo. Inghiottita una boccata d’aria, Annuška sorrise.

— Ah, un piccolo ferro da cavallo? — disse. — Subito subito. Sicché è suo quel ferro? E io guardo, eccolo lí nel tovagliolino, l’ho messo via apposta, perché non lo raccattasse qualcuno e poi chi s’è visto s’è visto!

Ricevuto il ferro e il tovagliolino, lo straniero cominciò a strisciar riverenze davanti ad Annuška, a stringerle forte la mano e a ringraziarla calorosamente, con un fortissimo accento straniero, dicendo:

— Le sono profondamente grato, madame. Questo piccolo ferro da cavallo mi è caro perché è un ricordo. E mi permetta, giacché l’ha messo al sicuro, di porgerle duecento rubli — . E immantinente trasse il denaro dal taschino del panciotto e lo porse ad Annuška.

Questa, sorridendo perdutamente, si limitava a gridare:

— Ah, la ringrazio umilissimamente! Merci! Merci!

Il munifico straniero scivolò giú in un batter d’occhio per tutta la rampa, ma prima di sparire definitivamente gridò da sotto, senza piú nessun accento:

— Vecchia strega, se ti capita ancora una volta di raccattare la roba altrui, consegnala alla polizia, e non nasconderla in seno!

Con uno scampanio in testa e una gran confusione a causa di tutto quel che era avvenuto sulla scala, Annuška seguitò ancora un pezzo a gridare per inerzia:

— Merci! Merci! Merci!… — ma da molto tempo lo straniero non c’era piú.

E non c’era piú nemmeno la macchina in cortile. Dopo aver restituito a Margherita il dono di Woland, Azazello si accomiatò da lei e chiese se era seduta comodamente, Hella abbracciò e baciò di gusto Margherita, il gatto le baciò la mano, gli accompagnatori salutarono con la mano il Maestro che, inerte e immobile, stava quasi sdraiato in un angolo del sedile, fecero cenno al gracchio di partire e subito svanirono nell’aria, ritenendo inutile sobbarcarsi alla fatica di salire le scale. Il gracchio accese i fari e uscí dal portone, passando davanti all’uomo che dormiva della grossa. E le luci della grande macchina nera scomparvero fra le altre dell’insonne e rumorosa Sadovaja.

Un’ora dopo, nello scantinato di una casetta in uno dei vicoli dell’Arbat, nella prima stanza dove tutto era esattamente come prima della terribile notte autunnale dell’anno precedente, davanti alla tavola coperta da un tappeto di velluto, sotto la lampada col paralume, vicino alla quale c’era un piccolo vaso di mughetti, Margherita sedeva e piangeva sommessamente per tutte le emozioni che l’avevano sconvolta e per la felicità. Davanti a lei c’era un quaderno rovinato dal fuoco e accanto ad esso una pila di quaderni intatti. La casetta taceva. Nella piccola stanza attigua il Maestro giaceva sul divano, profondamente addormentato, coperto dalla vestaglia d’ospedale. Il suo respiro uguale era silenzioso.

Quando fu sazia di piangere, Margherita prese i quaderni intatti e ritrovò il passo che aveva riletto prima d’incontrarsi con Azazello sotto il muro del Cremlino. Margherita non aveva voglia di dormire. Accarezzava affettuosamente il manoscritto, come s’accarezza un gatto prediletto, e lo rigirava fra le mani, esaminandolo da ogni lato, ora soffermandosi sul frontespizio, ora aprendo l’ultimo foglio. Improvvisamente l’invase il terribile pensiero che tutto ciò fosse una stregoneria, che a momenti i quaderni sarebbero scomparsi, essa si sarebbe ritrovata nella sua camera da letto nella palazzina e, svegliandosi, avrebbe dovuto andare ad annegarsi. Ma fu questo l’ultimo pensiero terribile, la ripercussione delle lunghe sofferenze che aveva patito. Nulla spariva, l’onnipotente Woland era davvero onnipotente, e finché voleva, anche fino all’alba, Margherita avrebbe potuto sfogliare i quaderni, contemplarli e baciarli e rileggere le parole:

«Le tenebre, venute dal Mediterraneo, coprirono la città odiata dal procuratore… Sí, le tenebre…»




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