CAPITOLO VENTITREESIMO Il gran ballo da Satana



La mezzanotte s’avvicinava, bisognava affrettarsi. Margherita vedeva confusamente quanto la circondava. Le rimasero in mente le candele e la vasca di pietre preziose. Quando si fu messa in piedi sul fondo di questa vasca, Hella e Nataša, che l’aiutava, le versarono addosso un liquido caldo, denso e rosso. Margherita sentí un sapore di sale sulle labbra e comprese che la lavavano col sangue. Il manto insanguinato fu sostituito da un altro, spesso, trasparente, roseo, e l’olio di rose fece venire il capogiro a Margherita. Poi fu messa su un letto di cristallo e con certe grandi foglie verdi cominciarono a frizionarla fino a lustrarle la pelle.

In quel momento il gatto entrò a precipizio e si diede ad aiutare. Si accoccolò ai piedi di Margherita e si mise a strofinarglieli con un’aria come se lustrasse le scarpe per la strada.

Margherita non ricorda chi le facesse le scarpette con petali di rosa pallida né come queste scarpette si affibbiassero da sole con fibbie d’oro. Una forza ignota la tirò su e la mise davanti allo specchio e nei suoi capelli sfolgorò una corona regale di diamanti. Comparve Korov’ev e le appese sul petto, attaccata a una grossa catena, la pesante effigie di un can barbone nero, in una cornice ovale. Questo monile sovraffaticò la regina. La catena cominciò subito a sfregarle il collo, l’effigie la faceva piegare in due. Qualcosa però compensò Margherita del disagio cagionatole dalla catena e dal can barbone nero, cioè la deferenza con la quale Korov’ev e Behemoth cominciarono a trattarla.

— Niente, niente, niente! — mormorò Korov’ev quando furono alla porta della stanza con la vasca. — Non ci si può far niente, bisogna, bisogna, bisogna… Mi permetta, regina, di darle un ultimo consiglio. Ci saranno invitati di vario genere, oh, molto vario, ma a nessuno, regina Margot, a nessuno nessuna preferenza! Anche se qualcuno non le andrà a genio… capisco che lei, naturalmente, non lo darà a vedere, no, no, nemmeno da pensarci! Ma accorgersene, accorgersene sul momento! Bisogna volergli bene, volergli bene, regina! Di questo la padrona di casa sarà ricompensata al centuplo. E un’altra cosa: non trascurare nessuno! Almeno un sorrisetto, se non ci sarà tempo di buttar là due parole, almeno girare un pochino il capo! Tutto quel che vuole, ma non la mancanza di riguardo, questo li farebbe intristire…

Allora Margherita, scortata da Korov’ev e Behemoth, uscí dalla vasca per avanzare in una completa oscurità.

— Io, io, — sussurrò il gatto, — lo darò io il segnale!

— Dài! — rispose nel buio Korov’ev.

— Il ballo!!! — strillò il gatto con voce acuta, e subito Margherita mandò un grido e per qualche secondo chiuse gli occhi. Il ballo le era piombato addosso di colpo, sotto forma di luce e insieme di suono e di odore. Trasportata a braccetto da Korov’ev, Margherita si vide in una foresta tropicale. Pappagalli dal petto rosso e dalla coda verde s’aggrappavano alle liane, saltellavano dall’una all’altra e con voce assordante gridavano: — Felicissimo! — Ma la foresta terminò presto e al calore afoso che vi regnava come in un bagno, subentrò subito la frescura della sala da ballo con colonne di una pietra giallognola scintillante. Questa sala, come anche la foresta, era completamente deserta, e soltanto ai piedi delle colonne stavano ritti dei negri nudi con bende d’argento in testa. Per l’emozione, le loro facce si fecero di un color bruno sporco quando Margherita entrò a precipizio nella sala col suo seguito in cui Azazello s’era inserito non si sa come. Allora Korov’ev lasciò andare il braccio di Margherita e sussurrò:

— Dritto ai tulipani!

Una bassa parete di tulipani bianchi sorse davanti a Margherita; di là da questa essa vide innumerevoli luci sotto piccoli paralumi e davanti ad essi i petti bianchi e le spalle nere di uomini in marsina. Margherita comprese allora donde proveniva la musica da ballo. Le piombò addosso il muggito delle trombe di sotto al quale spiccò il volo l’arcata dei violini che si riversò sul suo corpo come fosse sangue. L’orchestra di una cinquantina di persone eseguiva una polacca.

L’uomo in marsina che stava in alto di fronte ai suonatori, scorgendo Margherita impallidí, sorrise e d’un tratto, con un largo gesto, fece alzare tutti gli artisti. Senza interrompere neppure per un attimo la musica, l’orchestra, in piedi, immerse Margherita nei suoni. L’uomo sul podio volse le spalle ai suonatori e s’inchinò profondamente, allargando le braccia, e Margherita, sorridendo, lo salutò con la mano.

— No, è poco, è poco, — sussurrò Korov’ev, — egli non chiuderà occhio questa notte. Gli gridi: «La saluto, re dei valzer!»

Margherita lo gridò e si stupí che la sua voce, squillante come una campana, soverchiasse il clamore dell’orchestra. L’uomo sussultò dalla felicità, si portò la mano sinistra al petto, continuando con la destra a dirigere con una bacchetta bianca.

— È poco, è poco, — sussurrò Korov’ev, — guardi a sinistra, verso i primi violini, e saluti col capo in modo che ognuno pensi che lei l’ha riconosciuto in particolare. Qui non vi sono che celebrità mondiali. Vede, quello là dietro al primo leggio, è Vieuxtemps!… Cosí, benissimo…

E adesso andiamo avanti!

— Chi è il direttore? — chiese Margherita, correndo via.

— Johann Strauss! — gridò il gatto. — E m’impicchino pure a una liana nella foresta tropicale se in un ballo ha mai suonato un’orchestra come questa! Sono stato io a convocarla! E, noti bene, non c’è stato nessuno che si sia ammalato e nessuno che abbia rifiutato!

Nella sala seguente non v’erano colonne, al loro posto stavano da un lato pareti di rose rosse, rosa, bianco latte e dall’altro un muro di camelie giapponesi doppie. Fra queste s’alzavano già, sfrigolando, degli zampilli e lo champagne spumeggiava in tre vasche, la prima di un viola diafano, la seconda di rubino e la terza di cristallo. Accanto ad esse dei negri in bende scarlatte si affannavano a riempire con mestoli d’argento le coppe piatte. Nella parete di rose c’era una breccia, in essa un palco sul quale si scalmanava un individuo in marsina rossa a coda di rondine. Di fronte a lui rimbombava un jazz intollerabilmente forte. Non appena scorse Margherita, il direttore si piegò davanti a lei fino a sfiorare il palco con le mani, poi si raddrizzò e gridò con voce acuta:

— Alleluia!

Si batté un colpo su un ginocchio, poi, incrociando le braccia, due colpi sull’altro, strappò un piatto dalle mani dell’ultimo suonatore della fila, e batté con esso sulla colonna.

Mentre correva via, Margherita vide soltanto che il virtuoso del jazz, lottando con la polacca che risuonava alle spalle di Margherita, picchiava col suo piatto sulle teste dei jazzisti e questi s’accosciavano con comico spavento.

Finalmente essi irruppero sul pianerottolo sul quale, come comprese Margherita, era stata accolta nelle tenebre da Korov’ev col suo lanternino. Su questo pianerottolo, adesso, gli occhi erano accecati dalla luce che scaturiva da grappoli d’uva di cristallo. Margherita fu installata al suo posto e sotto la sua mano sinistra comparve una bassa colonnina d’ametista.

— Potrà posarci sopra la mano, se si sentirà troppo stanca, — sussurrò Korov’ev.

Un uomo dalla pelle nera gettò sotto i piedi di Margherita un cuscino sul quale era ricamato un can barbone dorato, e sopra di esso, obbedendo alle mani di qualcuno, essa posò il piede destro, piegando il ginocchio.

Margherita provò a guardarsi intorno. Korov’ev e Azazello stavano in piedi vicino a lei in posa da parata. A fianco di Azazello vi erano altri tre giovanotti che le ricordarono vagamente Abadonna. Alle spalle sentiva un soffio d’aria fredda. Voltatasi a guardare, essa vide che dal muro di pietra dietro di lei sgorgava un vino spumante che si raccoglieva in una vasca di ghiaccio. Sentiva contro il piede sinistro qualcosa di tiepido e di peloso. Era Behemoth.

Margherita era in alto, e ai suoi piedi scendeva giú un grandioso scalone coperto da un tappeto. In basso, lontano come se Margherita avesse guardato alla rovescia attraverso un binocolo, essa vedeva un immenso atrio con un camino di grandezza spropositata, nelle cui fauci avrebbe potuto comodamente entrare un autocarro da cinque tonnellate. Sia l’atrio che la scala inondata d’una luce da far male agli occhi, erano deserti. Il suono delle trombe, adesso giungeva a Margherita da lontano. Essi rimasero cosí, immobili, circa un minuto.

— Ma dove sono gl’invitati? — chiese Margherita a Korov’ev.

— Verranno, regina, verranno, saranno qui a momenti. Non ce ne sarà scarsità. E, davvero, preferirei spaccar legna, invece di riceverli qui sul pianerottolo.

— Cosa, spaccar legna? — intervenne il gatto loquace. Io preferirei fare il bigliettaio sul tram, e non c’è niente al mondo che sia peggio di quel lavoro!

— Tutto dev’essere pronto in anticipo, regina, — spiegò Korov’ev, e il suo occhio scintillò attraverso il monocolo incrinato, — non c’è nulla di piú schifoso di quando il primo invitato, arrivando, erra per le sale non sapendo che fare, e intanto la sua legittima megera lo strapazza sottovoce perché sono arrivati prima degli altri. Simili balli sono da buttare nel mondezzaio, regina.

— Sicuro, nel mondezzaio, — confermò il gatto.

— Mancano solo dieci secondi a mezzanotte, — disse Korov’ev, — a momenti s’incomincia.

Quei dieci secondi parvero straordinariamente lunghi a Margherita. All’apparenza erano già trascorsi e non era accaduto proprio nulla. Ma, all’improvviso, qualcosa piombò giú nell’immenso camino, ne saltò fuori una forca dalla quale dondolava un mucchietto di cenere che si sfaldava. Questa cenere si liberò dalla corda e ne saltò fuori un bellissimo uomo dai capelli neri, in marsina e scarpini di coppale. Dal camino uscí di corsa una piccola bara, il suo coperchio cadde in terra, e da essa uscí altra cenere. Il bell’uomo, in un balzo, le si accostò galantemente e le porse il braccio a ciambella. La seconda cenere si ricompose in una donna irrequieta, con scarpette nere e penne nere in testa, e allora tutt’e due, l’uomo e la donna, s’affrettarono su per le scale.

— I primi! — esclamò Korov’ev. — Il signor Jacques e consorte. Le presento, regina, uno degli uomini piú interessanti. Falsario convinto, traditore della patria, ma un piú che discreto alchimista. Si rese celebre, — sussurrò Korov’ev all’orecchio di Margherita, — per aver avvelenato l’amante del re. E questa è una cosa che non capita a tutti! Guardi, com’è bello!

Divenuta pallida, a bocca aperta, Margherita guardava giú e vedeva sparire da un’uscita laterale dell’atrio sia la forca che la bara.

— Felicissimo! — urlò il gatto in faccia al signor Jacques che era arrivato in cima alle scale.

In quel momento sbucò fuori dal camino uno scheletro senza testa, con un braccio staccato; batté in terra e si trasformò in un uomo in marsina.

La consorte del signor Jacques s’era già inginocchiata davanti a Margherita e, pallida dall’emozione, le baciava il piede.

— La regina… — mormorava la consorte del signor Jacques.

— La regina è felicissima! — gridò Korov’ev.

— La regina… — disse sottovoce il bellissimo signor Jacques.

— Siamo felicissimi, — sbraitò il gatto.

I giovanotti che accompagnavano Azazello, sorridendo d’un sorriso inanimato ma cortese, avevano già spinto il signor Jacques e la consorte verso le coppe di champagne che i negri tenevano in mano. Per la scala saliva di corsa un individuo in marsina, tutto solo.

— Il conte Robert, — bisbigliò Korov’ev a Margherita, è ancora sempre un uomo interessante. Stia a sentire, regina, com’è buffo: è il caso contrario, costui era l’amante della regina e avvelenò la moglie.

— Siamo lieti, conte, — gridò Behemoth.

In fila, una dopo l’altra, precipitarono fuori del camino, rompendosi e sfasciandosi, tre bare, poi qualcuno in manto nero, al quale l’individuo sbucato dalle nere fauci dopo di lui menò una coltellata nella schiena. Si sentí da basso un grido soffocato. Dal camino uscí di corsa un cadavere quasi decomposto. Margherita socchiuse gli occhi, e una mano le mise sotto il naso una boccetta di sali bianchi. Margherita ebbe l’impressione che fosse la mano di Nataša.

Lo scalone cominciava a popolarsi. Su ogni gradino, ormai, si vedevano uomini in marsina e donne ignude che da lontano sembravano tutte uguali e si distinguevano soltanto dal colore delle scarpette e delle penne sulla testa.

Una signora a occhi bassi come una monaca, magrolina, modesta e, chi sa perché, con una larga fascia verde al collo, s’avvicinava a Margherita, claudicando, con una strana scarpa di legno al piede sinistro.

— Chi è quella… in verde? — chiese macchinalmente Margherita.

— Un’incantevolissima e serissima signora, — sussurrò Korov’ev — gliela presento: la signora Tofana. Godeva di straordinaria popolarità tra le giovani, graziose napoletane, come pure tra le abitanti di Palermo, e in particolare fra quelle cui era venuto a noia il marito. Succede infatti, regina che un marito venga a noia…

— Già, — rispose Margherita con voce sorda, sorridendo nel contempo a due uomini in marsina che, uno dopo l’altro, s’inchinavano davanti a lei, baciandole il ginocchio e la mano.

— Sicché, dunque, — sussurrò Korov’ev, ingegnandosi nello stesso tempo a gridare a qualcuno: — Duca! Una coppa di champagne? Felicissimo!… Sicché, dunque, la signora Tofana si metteva nei panni di quelle povere donne e vendeva loro una certa acqua in ampolline. La moglie versava quest’acqua nella minestra del marito, che la mangiava, ringraziava per la gentilezza e si sentiva benone. Vero è che, dopo qualche ora, cominciava a venirgli una gran voglia di bere, dopo di che si metteva a letto e il giorno seguente la bella napoletana che aveva fatto mangiare la minestra a suo marito era libera come il vento di primavera.

— E che cos’ha al piede? — domandò Margherita, senza stancarsi di porgere la mano agli invitati che avevano sorpassato la claudicante signora Tofana. — E perché quella cosa verde al collo? Ha un collo avvizzito?

— Sono felicissimo, principe! — gridava Korov’ev, e nel contempo bisbigliava a Margherita: — Ha un bellissimo collo, ma in prigione le è successo un guaio. Al piede, regina, ha le stanghette[19] ed ecco il perché del nastro: quando i secondini seppero che su per giú cinquecento mariti malscelti avevano abbandonato per sempre Napoli e Palermo, in un impeto di sdegno strozzarono la signora Tofana in carcere.

— Come sono felice, oh, ottima regina, che mi sia toccato il grande onore… — sussurrò la Tofana col fare d’una monaca, tentando di mettersi in ginocchio, impedita com’era dalle stanghette. Korov’ev e Behemoth l’aiutarono a rialzarsi.

— Sono lieta, — le rispose Margherita, porgendo nel contempo la mano agli altri.

Per lo scalone stava ormai salendo una fiumana di gente. Margherita aveva cessato di vedere quel che accadeva nell’atrio. Essa alzava e abbassava meccanicamente il braccio e sorrideva allo stesso modo a tutti gl’invitati. Sul pianerottolo c’era già un rombo nell’aria, dalle sale da ballo, che Margherita aveva abbandonato, la musica arrivava come un mare.

— Quella sí è una donna noiosa, — disse forte Korov’ev, che non sussurrava piú, sapendo che nel frastuono delle voci la sua non si sarebbe piú sentita, — adora i balli e non pensa ad altro che a lagnarsi del suo fazzoletto.

Fra quelli che stavano salendo, Margherita scoperse con un’occhiata colei alla quale Korov’ev accennava. Era una giovane donna di una ventina d’anni, con un corpo insolitamente bello, ma con occhi irrequieti e insistenti.

— Che fazzoletto? — domandò Margherita.

— La cameriera adibita a lei, — spiegò Korov’ev, — le mette da trent’anni un fazzoletto sul tavolino da notte. Quando essa si sveglia, il fazzoletto è già lí. L’ha già bruciato nella stufa e annegato nel fiume, ma non serve a niente.

— Che fazzoletto? — sussurrò Margherita, alzando e abbassando il braccio.

— Un fazzoletto con un orlino blu. Il fatto è che quando essa era a servizio in un caffè, una volta il padrone la chiamò nella dispensa, e dopo nove mesi essa diede alla luce un bimbo, lo portò nel bosco e gli ficcò in bocca il fazzoletto, poi sotterrò il bimbo. In tribunale disse che non aveva di che mantenere il bambino.

— E dov’era il padrone di quel caffè? — chiese Margherita.

— Regina, — stridette da giú il gatto, — mi permetta di domandarle cosa c’entra il padrone. Non fu mica lui a soffocare il bimbo nel bosco!

— Mascalzone, se ancora una volta ti permetti di metter bocca nel discorso…

Behemoth cacciò uno strillo che non aveva nulla di festoso e borbottò:

— Regina… mi si gonfierà l’orecchio… perché rovinare il ballo con un orecchio gonfio?… Ho parlato da giurista, da un punto di vista giuridico… Ammutolisco, ammutolisco, faccia conto che non sia un gatto, ma un pesce, ma molli il mio orecchio!

Margherita mollò l’orecchio, e gli occhi cupi e insistenti apparvero davanti a Margherita.

— Sono felice, regina — padrona di casa, d’essere invitata al gran ballo del plenilunio!

— E io sono lieta di vederla, — le rispose Margherita, molto lieta. Le piace lo champagne?

— Cosa sta facendo, regina? — gridò Korov’ev con voce disperata ma sommessa nell’orecchio di Margherita. — Si produrrà un ingorgo.

— Sí, mi piace, — disse la donna con tono implorante e a un tratto si mise a ripetere meccanicamente: — Frida, Frida, Frida! Mi chiamo Frida, oh, regina!

— Si ubriachi questa sera, Frida, e non pensi a nulla, disse Margherita.

Frida tese le due mani a Margherita, ma Korov’ev e Behemoth l’afferrarono svelti per le braccia, ed essa scomparve nella calca.

Da giú, ormai, la folla saliva compatta come una muraglia, quasi volesse dar l’assalto al pianerottolo sul quale stava Margherita. Corpi ignudi di donne spiccavano fra gli uomini in marsina. Corpi bruni e bianchi, del colore di un chicco di caffè o del tutto neri affluivano verso Margherita. Nel torrente di luce, tra i capelli rossi, neri, castani, biondo lino, le pietre preziose brillavano e danzavano, mandavano scintille. E come se qualcuno avesse sparso gocce di luce sulla colonna degli uomini che muoveva all’assalto, i bottoni di brillanti sprizzavano luce dai petti. Ogni secondo, ormai, Margherita sentiva labbra che le sfioravano il ginocchio, ogni secondo porgeva la mano al bacio. Il suo volto s’era irrigidito in un’immobile maschera di benvenuto.

— Felicissimo, — cantilenava Korov’ev, — siamo felicissimi… la regina è felicissima…

— La regina è felicissima… — naseggiava Azazello alle sue spalle.

— Felicissimo! — gridava il gatto.

— La marchesa, — mormorava Korov’ev, — ha avvelenato il padre, due fratelli e due sorelle per impadronirsi dell’eredità… La regina è felicissima!… La signora Minkina… Ah, com’è carina! È un po’ nervosa. Ma perché ha bruciato il viso della cameriera col ferro da ricci? Certo stando cosí le cose, l’avrebbero ammazzata… La regina è felicissima… Un attimo d’attenzione, regina! L’imperatore Rodolfo, mago e alchimista… Un altro alchimista, impiccato… Toh, anche lei… Ah, che meraviglioso postribolo aveva a Strasburgo!… Siamo felicissimi!… Una sarta di Mosca, noi tutti le vogliamo bene per la sua inesauribile fantasia… Possedeva un atelier e aveva escogitato una cosa molto buffa: aveva praticato nella parete due piccoli buchi rotondi…

— E le signore non lo sapevano? — domandò Margherita.

— Tutte quante lo sapevano, regina, — rispose Korov’ev. — Sono felicissimo!… Questo ragazzotto ventenne si era distinto fin dall’infanzia per certe sue strane qualità, era un sognatore e un originale. Una fanciulla se ne innamorò e lui, un bel giorno, la vendette a un bordello…

Da basso scorreva un fiume di cui non si vedeva la fine.

Le sue sorgenti, il gigantesco camino, continuavano ad alimentarlo. Cosí trascorse un’ora ed ebbe inizio la seconda ora. A questo punto Margherita cominciò a notare che la sua catena s’era fatta piú pesante di quanto non fosse prima. Anche al suo braccio era successo qualcosa di strano. Prima di poterlo alzare, essa doveva fare una smorfia. Le argute osservazioni di Korov’ev avevano cessato d’interessarla. Sia le facce mongole dagli occhi strabici, sia quelle bianche o nere le erano divenute indifferenti, ogni tanto si fondevano insieme e l’aria frammezzo a loro cominciava chi sa perché a tremolare e a fluire. Un dolore acuto, come prodotto da un ago le trafisse all’improvviso il braccio destro, e, stringendo i denti, essa appoggiò il gomito sulla colonna. Un fruscio, come d’ali lungo le pareti, giungeva adesso dalla sala alle sue spalle e si capiva che laggiú le sterminate schiere d’invitati stavano ballando, sembrava a Margherita che anche i pavimenti massicci di marmo, di mosaico e di cristallo pulsassero ritmicamente in quella strana sala.

Né Caio Cesare Caligola, né Messalina interessarono piú Margherita, cosí come non l’interessò nessuno dei re, duchi, cavalieri, suicidi, avvelenatrici, impiccati, ruffiane, aguzzini e truffatori, carnefici, delatori, traditori, pazzi, spie, corruttori. Tutti i loro nomi le si confondevano nella testa, le loro facce si spiaccicavano insieme in un’unica enorme schiacciata, e di un solo viso rimase il ricordo tormentoso, il viso di Maljuta Skuratov,[20] incorniciato da una barba veramente di fuoco. Le gambe di Margherita si piegavano, essa temeva di scoppiare a piangere da un momento all’altro. Quel che piú la faceva soffrire, era il ginocchio destro, che continuavano a baciarle. Era gonfio, la sua pelle s’era illividita, sebbene la mano di Nataša fosse apparsa piú volte accanto a quel ginocchio, con una spugna e l’avesse frizionato con qualcosa di profumato. Verso la fine della terza ora Margherita guardò giú con occhi del tutto privi di speranza e trasalí di gioia: il flusso degli invitati diradava.

— L’arrivo degli invitati a un ballo si svolge sempre secondo le stesse leggi, regina, — sussurrò Korov’ev. — Adesso l’ondata comincerà a decrescere. Le giuro che siamo alla fine delle nostre sofferenze. Laggiú c’è un gruppo di buontemponi del Brochen, che sono sempre gli ultimi ad arrivare. Sí, sí, eccoli. Due vampiri ubriachi… è finita? Macché, eccone un altro… anzi, due!

Gli ultimi due invitati salivano lo scalone.

— Ma questo qui è uno nuovo, — disse Korov’ev, aguzzando l’occhio attraverso il monocolo. — Ah, so chi è. Una volta Azazello andò a trovarlo, e fra un bicchierino di cognac e l’altro gli sussurrò come doveva fare per sbarazzarsi d’una persona delle cui rivelazioni egli aveva una paura matta. E cosí costui ordinò a un conoscente che si trovava alle sue dipendenze di spruzzare veleno sulle pareti del suo ufficio…

— Come si chiama? — chiese Margherita.

— Be’, a dire il vero, non lo so ancora neppur io, — rispose Korov’ev, — bisogna domandare ad Azazello.

— E chi è con lui?

— Be’, quello stesso suo scrupoloso subordinato. Felicissimo! — gridò Korov’ev agli ultimi due.

Lo scalone era deserto. Per prudenza aspettarono ancora un poco. Ma dal camino non usciva piú nessuno.

Un attimo dopo, senza capire come fosse successo, Margherita si ritrovò nella stanza della vasca, e qui, piangendo per il dolore al braccio e alla gamba, cadde in terra di schianto. Ma Hella e Nataša, confortandola, la trassero di nuovo sotto la doccia di sangue, di nuovo le massaggiarono il corpo, e Margherita si sentí rivivere.

— Ancora, ancora, regina Margot, — sussurrò Korov’ev, apparso accanto a lei, — deve fare a volo il giro della sala affinché gli spettabili ospiti non si sentano abbandonati.

E Margherita volò di nuovo fuori della stanza con la vasca. Sul palco dietro i tulipani, dove prima suonava l’orchestra del re dei valzer, adesso infuriava un jazz di scimmie. Un gigantesco gorilla dalle fedine irsute dirigeva, con una tromba in mano, ballonzolando pesantemente. In una sola fila sedevano degli orangutàn che soffiavano nelle trombe luccicanti. Allegri scimpanzé con le fisarmoniche sedevano a cavalcioni sulle loro spalle. Due amadriadi dalle criniere simili a quelle dei leoni, suonavano ai pianoforti, e questi pianoforti non si sentivano in mezzo al rombo allo strimpellio e ai tonfi dei sassofoni, dei violini e dei tamburi fra le zampe dei gibboni, dei mandrilli e delle bertucce. Sul pavimento di specchi una moltitudine innumerevole di coppie, come fuse insieme, sorprendenti per l’agilità e la precisione dei movimenti, girando in un solo senso, avanzavano come un muro, minacciando di spazzar via tutto sul loro cammino. Farfalle di raso vive si tuffavano sopra le schiere danzanti, dal soffitto piovevano fiori. Nei capitelli delle colonne, quando si spegneva la luce elettrica, s’accendevano miriadi di lucciole e nell’aria vagavano fuochi fatui.

Poi Margherita si trovò in una piscina di spropositate dimensioni, incorniciata da un colonnato. Un gigantesco Nettuno nero eruttava dalle fauci un largo flutto roseo. Un odore inebriante di champagne saliva dalla vasca. Qui regnava un’allegria sfrenata. Le signore, ridendo, consegnavano le borsette ai loro cavalieri o ai negri che correvano con lenzuola fra le mani, poi con un grido si slanciavano come rondini nella piscina. Colonne di spuma schizzavano in alto. Il fondo cristallino della piscina brillava di una luce proveniente da sotto che trapelava dalla massa del vino e rischiarava i corpi argentei delle nuotatrici. Le donne saltavano fuori dalla vasca completamente ubriache. Le risate squillavano sotto le colonne e rimbombavano come jazz.

In mezzo a tutta questa baraonda rimase impresso nella memoria un volto di donna ubriaca fradicia, dagli occhi inebetiti, ma imploranti anche nell’ebetudine, e rimase il ricordo di una parola: «Frida».

L’odore di vino cominciava già a far girar la testa a Margherita, ed essa voleva andarsene, ma il gatto allestí nella piscina un numero di varietà che la trattenne. Behemoth eseguí non si sa quali manipolazioni magiche attorno alle fauci del Nettuno e di colpo l’ondeggiante massa di champagne si ritirò frizzando e rumoreggiando dalla piscina e il Nettuno cominciò a eruttare un’onda di color giallo scuro che non spumeggiava. Le signore strillarono e urlarono:

— È cognac!! — e dall’orlo della piscina si ritrassero precipitosamente dietro le colonne. Dopo pochi secondi la piscina fu piena e il gatto, rotando in aria tre volte su se stesso, piombò nel cognac ondeggiante. Tornò a galla sbuffando con la cravatta ammosciata, avendo perso la doratura dei baffi e il binocolo. Una sola coppia si decise a seguire l’esempio di Behemoth: quella tale sarta ingegnosa e il suo cavaliere, uno sconosciuto giovane mulatto. Entrambi si gettarono nel cognac, ma a quel punto Korov’ev prese Margherita per il braccio ed essi abbandonarono i bagnanti.

Sembrò a Margherita d’aver sorvolato un sito dove aveva visto montagne di ostriche in enormi stagni pietrosi.

Poi era volata sopra un pavimento di vetro sotto al quale ardevano fornelli infernali, e in mezzo ad essi si agitavano diabolici cuochi bianchi. Poi, chi sa dove, avendo ormai cessato di capirci qualcosa, aveva visto certe cantine buie in cui alcune ragazze avevano servito carne sfrigolante sui carboni ardenti e s’era bevuto alla sua salute, vuotando grandi bicchieri. Poi aveva visto degli orsi bianchi che suonavano la fisarmonica e ballavano la danza dei moscerini su un palcoscenico. È un giocoliere-salamandra che non bruciava nel camino… E per la seconda volta essa era allo stremo delle sue forze.

— Un ultimo giro, — le bisbigliò Korov’ev, preoccupato, — e saremo liberi.

Scortata da Korov’ev, essa apparve di nuovo nella sala da ballo, ma adesso non ballavano piú, e la folla innumerevole degli ospiti si assiepava fra le colonne, lasciando libero il centro della sala. Margherita non ricordava chi l’aiutasse a salire su un podio apparso in mezzo allo spazio libero della sala. Quando vi fu salita, sentí con sua meraviglia che da qualche parte scoccava la mezzanotte mentre, secondo i suoi calcoli, doveva essere passata da un pezzo.

Con l’ultimo rintocco dell’orologio che non si sapeva dove fosse, il silenzio cadde sulla folla degl’invitati.

Fu allora che Margherita rivide Woland. Egli veniva avanti, attorniato da Abadonna, Azazello e da alcuni altri, bruni e giovani, somiglianti ad Abadonna. Margherita s’accorse allora che di fronte al suo podio ne era stato preparato un altro, per Woland. Ma egli non ne fece uso. Margherita fu colpita dal fatto che per quest’ultimo grande giro del ballo Woland si presentasse esattamente nello stesso stato in cui era in camera da letto. La medesima camicia sudicia e rattoppata gli pendeva dalle spalle ai piedi aveva delle ciabatte scalcagnate. Woland portava la spada, ma di questa spada sguainata si serviva come d’un bastone, appoggiandosi ad essa.

Zoppicando leggermente, Woland si fermò accanto al suo podio, e subito Azazello comparve dinanzi a lui con un piatto fra le mani, e sopra questo piatto Margherita vide la testa tagliata d’un uomo coi denti davanti rotti. Continuava a regnare il piú completo silenzio, che fu interrotto soltanto una volta da una scampanellata, lontana, incomprensibile in quelle circostanze, come se qualcuno avesse suonato all’ingresso principale.

— Michail Aleksandrovič, — disse Woland con voce contenuta, rivolgendosi alla testa, e allora le palpebre dell’ucciso si sollevarono, e sul volto morto Margherita, rabbrividendo, vide gli occhi vivi, pieni di pensiero e di sofferenza.

— Tutto si è avverato, nevvero? — continuò Woland guardando la testa negli occhi. — La testa è stata tagliata da una donna, la seduta non ha avuto luogo e io abito nel suo appartamento. Questo è il fatto. E il fatto è la cosa piú ostinata del mondo. Ma adesso c’interessa quel che accadrà ulteriormente, e non un fatto già compiuto. Lei è sempre stato un ardente fautore della teoria che, una volta tagliata la testa, la vita cessa nell’uomo, egli si converte in cenere e se ne va nel non essere. Mi è gradito comunicarle in presenza dei miei ospiti, sebbene essi servano di prova a una teoria del tutto diversa, che la sua teoria è seria e ingegnosa. Del resto, tutte le teorie si equivalgono. Fra di esse ce n’è anche una secondo cui a ognuno verrà dato secondo la sua fede. Si avveri pure questo! Lui se n’andrà nel non essere, e io avrò il piacere di bere alla salute dell’essere dalla coppa in cui si convertirà!

Woland alzò la spada. Subito i tegumenti della testa si scurirono e si rattrappirono, poi si staccarono a pezzi, gli occhi scomparvero e ben presto Margherita vide sul piatto un cranio giallognolo con occhi di smeraldo e denti di perla, montato su un piede d’oro. La calotta cranica, aperta, pendeva da una cerniera.

— Fra un attimo, Messere, — disse Korov’ev, notando lo sguardo interrogativo di Woland, — egli sarà davanti a voi. In questo silenzio di tomba sento crocchiare i suoi scarpini di vernice e tintinnare la coppa che ha deposto sulla tavola dopo aver bevuto champagne per l’ultima volta nella sua vita. Ma eccolo qua.

Un nuovo invitato era entrato solo nella sala e si dirigeva verso Woland. All’aspetto non si differenziava in nulla dagli altri numerosi ospiti di sesso maschile, se non in una cosa sola: era cosí agitato che barcollava, il che si vedeva anche da lontano. Sulle guance aveva delle chiazze rosse e i suoi occhi vagavano qua e là, pieni d’inquietudine. Era sbalordito, e questo era piú che naturale: tutto lo stupiva e specialmente l’abbigliamento di Woland.

L’invitato fu tuttavia accolto con gran gentilezza.

— Ah, carissimo barone Meigel, — disse Woland, sorridendo affabilmente all’invitato che sbarrava gli occhi, sono lieto di presentarvi, — soggiunse, rivolto agli ospiti, lo spettabilissimo barone Meigel, impiegato alla commissione degli spettacoli come cicerone, incaricato di far conoscere agli stranieri le cose notevoli della capitale.

Margherita allibí perché aveva riconosciuto questo invitato. Piú volte s’era imbattuta in lui nei teatri e nei ristoranti di Mosca. «Che diamine… — pensò Margherita, anche lui, dunque, è morto?…» Ma la cosa si chiarí subito.

— Il caro barone, — proseguí Woland, con un sorriso giulivo, — è stato cosí squisitamente gentile da telefonarmi, appena ha saputo che ero arrivato a Mosca, per offrirmi i suoi servigi nella sua specialità, che consiste nel far conoscere ai forestieri le cose notevoli del posto. S’intende che sono stato felice d’invitarlo a venire da me.

In quel momento Margherita vide che Azazello consegnava a Korov’ev il piatto col cranio.

— Già, a proposito, barone, — disse Woland, abbassando a un tratto confidenzialmente la voce, — sono corse dicerie sulla sua curiosità. Si dice che essa, unita alla sua non meno notevole loquacità, abbia cominciato ad attirare l’attenzione generale. Inoltre le male lingue hanno già fatto circolare la voce che è un delatore e una spia. E, per di piú, si presume che ciò la condurrà a una triste fine non piú tardi che fra un mese. E cosí, per risparmiarle l’attesa angosciosa, abbiamo deciso di venirle in aiuto, approfittando della circostanza che lei s’è fatto invitare appunto con lo scopo di spiare e di origliare tutto quel che potrà.

Il barone divenne piú pallido di Abadonna, il quale era per natura estremamente pallido, dopo di che accadde una cosa strana. Abadonna apparve davanti al barone e per un attimo si tolse gli occhiali. In quello stesso istante qualcosa lampeggiò tra le mani di Azazello, ci fu un piccolo schiocco come un batter di mani, il barone cominciò a cadere riverso, un sangue vermiglio gli sprizzò dal petto e bagnò la camicia inamidata e il panciotto. Korov’ev mise una coppa sotto il rigagnolo che sgorgava e quando fu piena la porse a Woland. Nel frattempo il corpo inanimato del barone era già sul pavimento.

— Bevo alla vostra salute, signori, — disse Woland senza alzare la voce e, levando in alto la coppa, l’accostò alle labbra.

Allora avvenne la metamorfosi. La camicia rattoppata e le ciabatte scalcagnate sparirono. Woland apparve in una clamide nera con la sciabola d’acciaio al fianco. Egli s’avvicinò rapido a Margherita, le porse la coppa e disse in tono di comando:

— Bevi!

Margherita si sentí girare il capo, essa arretrò, ma la coppa le sfiorava già le labbra; due voci, ma non riuscí a capire di chi fossero, le sussurrarono in tutt’e due gli orecchi:

— Non abbia paura, regina… Non abbia paura, regina, il sangue è già disceso da molto tempo nella terra. E là dov’è stato versato, crescono adesso grappoli d’uva.

Margherita, senza aprire gli occhi, inghiottí un sorso e un dolce flutto trascorse per le sue vene, le orecchie cominciarono a risonare. Le sembrò che i galli cantassero a squarciagola, che da qualche parte suonassero una marcia.

La folla degli invitati cominciò a perdere il suo sembiante: sia gli uomini che le donne si disgregarono in cenere. Sotto gli occhi di Margherita tutta la sala si decompose, sopra di essa cominciò ad aleggiare un odore di cripta. Le colonne si sfasciarono, si spensero le luci, tutto si restrinse e non ci furono piú zampilli, camelie e tulipani. Ma ci fu semplicemente quel che c’era: il modesto salotto della gioielliera, dalla cui porta socchiusa usciva una striscia di luce. E da questa porta socchiusa Margherita entrò.




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