CAPITOLO DODICESIMO La magia nera e il suo smascheramento



Un ometto col tubino giallo bucato e il naso a pera color lampone, coi pantaloni a quadretti e le scarpe di vernice uscí sulla scena del Varietà su una normale bicicletta a due ruote. Accompagnato da un fox-trott, fece un giro, poi lanciò un urlo vittorioso che fece impennare la bicicletta. Fatto un altro giro sulla sola ruota posteriore, l’ometto si mise a gambe in su, riuscí, sempre in marcia, a svitare la ruota anteriore e a lanciarla dietro le quinte, poi continuò a girare con una sola, pedalando con le mani.

Su un lungo palo metallico, munito di un sellino in alto e di un’unica ruota, arrivò una bionda grassoccia in calzamaglia e gonnellino cosparso di stelle d’argento, e cominciò a girare in tondo. Incontrandola, l’ometto lanciava grida di saluto, e con un piede sollevava il tubino dalla testa.

Giunse infine un bimbetto di otto anni circa dal viso da vecchio e cominciò a scorrazzare tra l’uomo e la donna su una minuscola bicicletta munita di un enorme clacson.

Dopo aver compiuto alcuni giri, gli acrobati, accompagnati da un irrequieto rullare di tamburi, arrivarono fino all’orlo del palcoscenico, e gli spettatori delle prime file si buttarono all’indietro con esclamazioni perché sembrava che l’intero trio con le sue biciclette sarebbe precipitato nella fossa dell’orchestra.

Ma le biciclette si fermarono nell’istante preciso in cui le ruote anteriori minacciavano di piombare sulle teste dei musicisti. Gridando forte «Up!», i ciclisti balzarono giú dalle loro macchine per salutare: la bionda mandava baci al pubblico, mentre il bimbetto fece suonare un buffo segnale al suo clacson.

Gli applausi scossero l’edificio, un sipario azzurro avanzò dai due lati e coprí i ciclisti, le luci verdi con la scritta «Uscita» sopra le porte si spensero, e, nella ragnatela dei trapezi sotto la cupola, come un sole si accesero dei globi bianchi. Era l’intervallo prima dell’ultima parte.

L’unica persona che non era minimamente incuriosita dalle meraviglie di tecnica ciclistica della famiglia Giulli era Grigorij Danilovič Rimskij. Se ne stava nel suo ufficio in assoluta solitudine, mordicchiandosi le labbra sottili e il suo volto era alterato da una continua contrazione. Alla straordinaria scomparsa di Lichodeev si era aggiunta ora quella, assolutamente imprevedibile, di Varenucha.

Rimskij sapeva dove era andato, ma lui se n’era andato… e non era tornato indietro! Si stringeva nelle spalle e sussurrava tra sé:

— Ma perché?!

E cosa strana: per un uomo navigato come il direttore finanziario, la soluzione piú semplice sarebbe stata quella di telefonare là dove si era diretto Varenucha, per chiedere che cosa gli fosse successo, eppure fino alle dieci di sera non poté imporsi di fare questa telefonata.

Alle dieci, infine, facendo addirittura violenza su se stesso, Rimskij afferrò il ricevitore del telefono e si accorse che il suo apparecchio era morto. Il fattorino riferí che anche gli altri telefoni dell’edificio erano guasti. Questo fenomeno sgradevole, naturalmente, ma non soprannaturale, scosse definitivamente il direttore finanziario, ma nello stesso tempo lo rallegrò: era venuta meno la necessità di telefonare.

Quando sopra la sua testa si accese e cominciò a lampeggiare la luce rossa che segnalava l’inizio dell’intervallo entrò il fattorino per comunicare che era giunto l’artista straniero. Il direttore finanziario ebbe un brivido e, fattosi piú cupo di un nembo, si diresse verso le quinte per accogliere l’artista, poiché non c’era nessun altro per farlo.

Dal corridoio, dove strepitavano già i cicalini, nel grande camerino entravano dei curiosi con vari pretesti. Vi erano prestigiatori dai camici e turbanti multicolori, un pattinatore con un maglione bianco, un presentatore pallido di cipria e il truccatore.

La celebrità straniera stupí tutti per la lunghezza inaudita del suo frac di splendido taglio e perché portava una mezza maschera nera. La cosa piú strana però erano i due accompagnatori del mago: uno spilungone a quadretti con occhiali a molla incrinati, e un grasso gatto nero che entrò nel camerino sulle zampe posteriori e sedette con disinvoltura sul divano, guardando con gli occhi socchiusi le nude lampade per il trucco.

Rimskij cercò di abbozzare un sorriso, che gli rese la faccia acida e cattiva, e salutò il mago, che era seduto in silenzio sul divano, vicino al gatto. Non vi furono strette di mano. Invece lo sfacciato individuo a quadretti si presentò da solo al direttore finanziario, chiamandosi «aiutante di sua eccellenza». Questa circostanza sorprese il direttore e lo sorprese in modo sgradevole: nel contratto nessun articolo menzionava un aiutante.

In modo forzato e secco Grigorij Danilovič chiese al tipo a quadretti che gli era capitato tra capo e collo, dove fosse l’attrezzatura dell’artista.

— Diamante nostro divino, preziosissimo signor direttore, — rispose l’aiutante del mago con voce tremolante, i nostri apparecchi sono sempre con noi, eccoli! Ein, zwei, drei! — E dopo aver rigirato le dita nodose davanti agli occhi di Rimskij, estrasse all’improvviso da dietro un orecchio del gatto l’orologio d’oro di Rimskij con la sua catena, che fino a quel momento si trovavano nel taschino del gilè sotto la giacca abbottonata, con la catena infilata nell’occhiello.

Involontariamente Rimskij si afferrò la pancia, i presenti lanciarono esclamazioni, e il truccatore, che occhieggiava dalla porta, emise un grugnito di approvazione.

— È suo, l’orologino? Se lo prenda, per favore, — disse quello a quadretti con un sorriso insolente, e, sopra la palma sporca, porse a Rimskij, sbigottito, l’oggetto di sua proprietà.

— Con uno cosí è meglio non salire in tram, — sussurrò il presentatore al truccatore, con voce sommessa e allegra.

Ma il gatto ne fece una piú bella di quella con l’orologio. Si alzò all’improvviso dal divano, andò, reggendosi sulle zampe posteriori, al tavolino da toilette, con una zampa anteriore estrasse il tappo dalla caraffa, si versò dell’acqua in un bicchiere, la bevve, rimise il tappo al suo posto e si asciugò i baffi con un cencio del truccatore.

Qui non si udirono neppure piú esclamazioni: tutti spalancarono la bocca, mentre il truccatore sussurrò con ammirazione.

— Che classe!…

In quel momento per la terza volta suonarono inquieti i cicalini, e tutti, pregustando quel numero sensazionale, uscirono eccitati dal camerino.

Un minuto dopo, nella sala si spensero i globi, si accese la ribalta che lanciò sulla parte inferiore del sipario un riflesso rossastro e nella fessura illuminata del sipario apparve davanti ai pubblico un uomo grassoccio allegro come un bambino, dal volto rasato, col frac sgualcito e la camicia non di bucato. Era il presentatore Georges Bengal’skij, ben noto a tutta Mosca.

— E cosí, signori, — cominciò Bengal’skij con un sorriso da pargolo, — adesso vedrete… — Qui Bengal’skij si interruppe e cambiò tono: — Vedo che il pubblico è ancora aumentato per quest’ultima parte dello spettacolo. Oggi abbiamo qui mezza città! Qualche giorno fa, incontro un amico e gli dico: «Perché non vieni da noi? Ieri abbiamo avuto mezza città!» E lui mi risponde: «Io vivo nell’altra mezza!» — Bengal’skij fece una pausa aspettandosi uno scoppio di risate, ma poiché nessuno rise, continuò: — … E cosí vedrete il celebre artista straniero monsieur Woland in una seduta di magia nera. Be’, noi tutti sappiamo, — qui Bengal’skij fece un sorriso pieno di saggezza, — che la magia nera non esiste, che non è altro che superstizione, ma il fatto è che il maestro Woland padroneggia al massimo grado la tecnica della prestidigitazione, come si vedrà nella parte piú interessante, cioè quando questa tecnica verrà smascherata, e poiché noi tutti come un sol uomo siamo interessati sia alla tecnica sia al suo smascheramento, ecco a voi il signor Woland!…

Dopo aver pronunciato tutte queste corbellerie, Bengal’skij riuní le mani palmo contro palmo, e le agitò in segno di saluto nella fessura del sipario, al che questo si aperse con un fruscio.

L’apparizione del mago con l’aiutante spilungone e col gatto che entrò in scena camminando sulle zampe posteriori, piacque molto al pubblico.

— Una poltrona, — ordinò sottovoce Woland, e nello stesso istante apparve da chi sa dove una poltrona, su cui il mago si sedette. — Dimmi, gentile Fagotto, — domandò Woland al buffone vestito a quadretti che, oltre a quello di Korov’ev, aveva evidentemente un altro nome, — che ne dici, la popolazione di Mosca è molto cambiata?

Il mago guardò il pubblico silenzioso, stupefatto dall’apparizione della poltrona.

— Signorsí, Messere, — rispose sommesso Fagotto-Korov’ev.

— Hai ragione. I cittadini sono molto cambiati… esternamente dico… come la stessa città, del resto… Non parliamo poi dell’abbigliamento, ma sono apparsi quei… come si chiamano… tram, automobili…

— Autobus, — suggerí rispettosamente Fagotto.

Il pubblico seguiva con attenzione quel colloquio, pensando che esso fosse un preludio ai trucchi di magia. Le quinte erano gremite di attori e di macchinisti, e tra i loro volti si vedeva quello pallido e teso di Rimskij.

La faccia di Bengal’skij, che si era rifugiato in un lato del palcoscenico, cominciò ad esprimere imbarazzo. Egli alzò lievemente un sopracciglio e, approfittando di una pausa, disse:

— L’artista straniero esprime la sua ammirazione per Mosca, progredita dal punto di vista tecnico nonché per i moscoviti, — qui Bengal’skij sorrise due volte, dapprima alla platea, poi alla balconata.

Woland, Fagotto e il gatto voltarono la testa verso il presentatore.

— Ho forse espresso ammirazione? — chiese il mago a Fagotto.

— Signornò, Messere, lei non ha espresso ammirazione alcuna, — rispose quello.

— Allora che cosa dice quello lí?

— Racconta balle, ecco tutto! — comunicò l’aiutante quadrettato con voce sonora che si sentí in tutto il teatro e, rivolgendosi a Bengal’skij, aggiunse: — Mi congratulo con lei, signor contaballe!

In balconata si sparse un risolino, e Bengal’skij sussultò e sbarrò gli occhi.

— Ma naturalmente, non mi interessano tanto gli autobus, i telefoni e l’altra…

— Attrezzatura, — suggerí il tipo a quadretti.

— Giusto, grazie, — diceva lentamente il mago con grave voce di basso, — quanto una questione ben piú importante: sono cambiati internamente, questi cittadini?

— Sí, è una questione importantissima, signore.

Tra le quinte cominciarono a scambiarsi degli sguardi e a stringersi nelle spalle; Bengal’skij era rosso, Rimskij pallido. Ma a questo punto, come se avesse intuito la nascente preoccupazione, il mago disse:

— Però la nostra conversazione è andata per le lunghe caro Fagotto, e il pubblico comincia ad annoiarsi. Facci vedere qualcosa di semplice per incominciare.

Il pubblico fece un movimento di sollievo. Fagotto e il gatto si allontanarono in direzione opposta lungo la ribalta Fagotto schioccò le dita, gridò con baldanza: — Tre, quattro! — afferrò dall’aria un mazzo di carte, lo mescolò e lo lanciò come una stella filante al gatto. Questo la prese al volo e la rimandò indietro. Il serpente satinato frusciò.

Fagotto aprí la bocca come un uccellino, e lo inghiottí interamente, carta dopo carta. Poi il gatto si inchinò, sbattendo la zampa posteriore destra, e riscosse applausi incredibili:

— Che classe! Che classe! — gridavano rapiti, dietro le quinte.

Fagotto puntò il dito verso la platea, e dichiarò:

— Adesso il mazzo di carte, egregi signori, si trova in settima fila, dal signor Parcevskij, esattamente tra un biglietto da tre rubli e una convocazione del tribunale per il mancato pagamento degli alimenti della signora Zel’kova.

Nella platea il pubblico si mosse, cominciò ad alzarsi e finalmente un signore che si chiamava proprio Parcevskij purpureo dallo stupore, trasse dal portafoglio il mazzo di carte e lo scosse in aria non sapendo che farne.

— Lo tenga per ricordo! — gridò Fagotto. — Non per niente lei diceva ieri a cena che, non fosse per il poker, la sua vita a Mosca sarebbe del tutto insopportabile.

— È vecchio, il trucco! — si udí dal loggione. — Quello della platea è uno dei vostri!

— Crede? — urlò Fagotto, socchiudendo gli occhi per meglio vedere il loggione. — In questo caso anche lei fa parte della nostra banda, perché anche lei ha il mazzo in tasca.

Nel loggione vi fu un subbuglio e si udí una voce gioiosa:

— È vero! Lo ha proprio! Qui, qui!… Aspetta! Ehi, ma sono biglietti da dieci rubli!

Quelli che sedevano in platea si voltarono. Nel loggione, un signore, sconcertato, si era trovato in tasca un pacchetto confezionato col sistema delle banche, con la scritta: «Mille rubli». I vicini gli si rovesciavano addosso, mentre lui, smarrito, grattava con l’unghia la copertina, cercando di capire se erano banconote autentiche o magiche.

— Giuro che sono veri! Soldi veri! — gridavano gioiosamente dal loggione.

— Farei anch’io una partita a carte con un mazzo del genere, — propose con allegria un grassone seduto in platea.

— Avec plaisir! — rispose Fagotto. — Ma perché con lei solo? Tutti prenderanno parte vivissima! — E ordinò: Prego di guardare in alto!… Uno! — Nella sua mano apparve una pistola; gridò: — Due! — La pistola si puntò verso l’alto. Gridò: — Tre! — Lampeggiò, tuonò, e di colpo cominciarono a cadere in sala, da sotto la cupola, e svolazzando tra i trapezi, dei biglietti bianchi.

Volteggiavano, si sparpagliavano, cadevano nel loggione, si riversavano sull’orchestra e sul palcoscenico. Alcuni secondi dopo, la pioggia di denaro s’infittí, raggiunse le poltrone, e gli spettatori cominciarono ad afferrare i biglietti.

Si alzavano centinaia di mani, gli spettatori guardavano i biglietti contro la luce del palcoscenico e riconoscevano la filigrana piú autentica e piú sacrosanta. Anche l’odore non lasciava adito a sospetti: era il delizioso odore inconfondibile del denaro appena stampato. Dapprima l’allegria, poi lo stupore invase l’intero teatro. Dovunque ronzava la parola: «Denaro, denaro», si sentivano esclamazioni e allegre risate. Qualcuno era già a quattro zampe nel passaggio tra le poltrone, frugava sotto i sedili. Molti erano saliti sulle poltrone per acchiappare le banconote sventate e capricciose.

Sui volti dei poliziotti cominciò a dipingersi la perplessità, mentre gli artisti, senza tanti complimenti, cominciarono a sbucare dalle quinte.

Dal primo ordine di palchi si udí una voce: «Perché la pigli? E mia, è da me che volava!» e un’altra: «Non spingere, se no te lo do io uno spintone che vedi!» E a un tratto si udí il rumore di uno schiaffo. Immediatamente apparve nei palchi l’elmetto di un poliziotto, e qualcuno fu condotto via.

L’eccitazione generale stava aumentando, e non si sa come sarebbe andata a finire, se Fagotto non avesse interrotto la pioggia di denaro soffiando all’improvviso in aria.

Due giovanotti, dopo essersi scambiati un’occhiata allegra e significativa, lasciarono i propri posti per andare dritti al bar. Il teatro rumoreggiava, gli occhi di tutti gli spettatori brillavano di eccitazione. No, non si sa come sarebbe andata a finire, se Bengal’skij non avesse trovato in sé un po’ di forza e non si fosse mosso. Cercando di padroneggiarsi meglio, si fregò le mani per consuetudine, e con la voce piú sonora di cui disponesse disse cosí:

— Ecco, signori, abbiamo appena visto un caso di cosiddetta ipnosi collettiva. Un’esperienza prettamente scientifica, che dimostra nel modo migliore che nella magia non esistono miracoli. Vogliamo ora pregare il maestro Woland di spiegarci questo trucco. Adesso, signori, vedrete che queste, che sembrano banconote da dieci rubli, scompariranno all’improvviso come sono apparse.

Applaudí, ma in completa solitudine, e sul suo volto aleggiava un sorriso sicuro, ma negli occhi questa sicurezza era assente, anzi, essi esprimevano piuttosto un’implorazione.

Al pubblico, il discorso di Bengal’skij non piacque. Sopraggiunse un silenzio totale, che fu interrotto da Fagotto.

— E questo è di nuovo un caso di cosiddetta bugia, — dichiarò egli con alta voce tenorile da caprone; — le banconote, signori, sono autentiche.

— Bravo! — ringhiò brevemente una voce di basso dal loggione.

— A proposito, questo tipo, — Fagotto indicò Bengal’skij, — mi ha stufato. Ficca il naso dappertutto senza esserne richiesto, rovina lo spettacolo con osservazioni sballate. Che cosa ne facciamo?

— Strappagli la testa! — disse una voce severa dal loggione.

— Come dice, eh? — replicò immediatamente Fagotto a quella brutta proposta. — Strappargli la testa? È un’idea!

Behemoth![11] — gridò al gatto. — Dài! Ein, zwei, drei!!

E successe una cosa inaudita. Il pelo del gatto nero si rizzò, e l’animale miagolò da spaccare i timpani. Poi si raccolse su se stesso e balzò come una pantera sul petto di Bengal’skij; di lí saltò sulla sua testa. Con un borbottio, il gatto affondò le gonfie zampe nella rada capigliatura del presentatore, e, con un urlo tremendo, gli strappò la testa dopo averla fatta ruotare due volte sul collo grassoccio.

Duemilacinquecento spettatori gridarono come un solo uomo. Un getto di sangue zampillò dalle arterie recise del collo e si riversò sullo sparato e sul frac. Il corpo decapitato strascicò bizzarramente le gambe e si sedette sul pavimento. Nella sala si udirono grida isteriche di donne. Il gatto consegnò la testa a Fagotto, che la prese per i capelli e la mostrò al pubblico; la testa gridò tremendamente per tutto il teatro:

— Un dottore!!

— Continuerai a dir fandonie anche in futuro? — chiese minaccioso Fagotto alla testa piangente.

— No, non lo farò piú! — rantolò la testa.

— Per amor di dio, non lo tormentate! — si udí da un palco una voce femminile che coprí il fracasso, e il mago si voltò nella sua direzione.

— Allora, signori, lo perdoniamo? — chiese Fagotto rivolgendosi agli spettatori.

— Lo perdoniamo, lo perdoniamo! — echeggiarono delle voci, dapprima isolate e in prevalenza femminili, poi si fusero in coro con quelle maschili.

— Quali sono i suoi ordini, Messere? — chiese Fagotto all’uomo mascherato.

— Già, — rispose quello pensieroso, — è gente normale…Ama il denaro, ma è sempre stato cosí… L’umanità ama il denaro, di qualunque cosa sia fatto: di cuoio, di carta, di bronzo o d’oro. Sí, è sconsiderata… già… e la misericordia a volte bussa ai loro cuori… gente normale… in fondo, ricorda quella di prima, ma è stata rovinata dal problema degli alloggi.. — e ordinò con voce forte: — Gli si rimetta la testa.

Il gatto prese con cura la mira e calcò sul collo la testa che riprese il suo posto come se non se ne fosse mai staccata. E quel che piú conta non rimase neppure una cicatrice sul collo. Con le zampe il gatto spolverò lo sparato e il frac di Bengal’skij, e le macchie di sangue scomparvero. Fagotto alzò in piedi Bengal’skij ancora seduto, gli ficcò nella tasca del frac un pacchetto di banconote e lo condusse via dal palcoscenico esclamando:

— Via di qua, senza di lei si sta piú allegri!

Guardandosi intorno con occhi privi di espressione e barcollando, il presentatore riuscí ad arrivare soltanto fino ai pompieri di servizio, e si sentí male. Gettò un grido lamentoso:

— La mia testa, la mia testa!…

Tra gli altri, anche Rimskij si precipitò verso di lui. Il presentatore piangeva, cercava di afferrare qualcosa in aria, borbottando:

— Ridatemi la mia testa, la mia testa… Prendetevi l’appartamento, prendetevi i quadri, ridatemi solo la mia testa!

Un fattorino corse a cercare un medico. Tentarono di far sdraiare Bengal’skij su un divano dell’ufficio, ma egli cominciò a divincolarsi, diventando furioso. Fu necessario chiamare il pronto soccorso. Quando portarono via lo sfortunato presentatore, Rimskij ritornò verso il palcoscenico e vide che succedevano nuovi miracoli. A proposito, forse in quel momento, o forse un po’ prima, il mago era scomparso dalla scena con la sua poltrona sbiadita, e bisogna dire che il pubblico non se n’era affatto accorto, trascinato dalle cose straordinarie che andava facendo sul palcoscenico Fagotto.

Questi, dopo aver accompagnato fuori il presentatore sinistrato, dichiarò al pubblico:

— Adesso che ci siamo sbarazzati di quel rompiscatole, apriamo un negozio di articoli per signora.

Il palcoscenico si ricoprí subito di tappeti persiani, sorsero enormi specchi illuminati ai lati da tubi verdognoli, e, tra gli specchi, delle vetrine in cui gli spettatori, allegramente sbalorditi, videro esposti vestiti femminili parigini di varie fogge e colori. Questo in alcune; in altre, invece, apparvero centinaia di cappellini con piume e senza piume con fibbie e senza fibbie, nonché centinaia di scarpe, bianche, nere, gialle, di cuoio, di raso, di camoscio, con cinghietti, con pietre dure. Tra le scarpe si videro astucci di profumo, montagne di borsette di antilope, di camoscio di seta, e, tra di esse, mucchi di lunghi astucci d’oro cesellati per il rossetto.

Apparsa da chi sa dove, una ragazza dai capelli rossi, con un abito nero da sera, assai piacente, ma rovinata da una bizzarra cicatrice al collo, sorrise accanto alle vetrine con fare da padrona.

Con un mellifluo sorriso, Fagotto dichiarò che la ditta eseguiva, a titolo assolutamente gratuito, il cambio di vecchi abiti e scarpe femminili con modelli parigini. Lo stesso valeva per le borsette e gli altri articoli.

Il gatto strisciava la zampa posteriore, facendo nel contempo con l’anteriore i gesti di un portiere che apre una porta.

Con voce un po’ rauca, ma dolce, mangiandosi le erre, la ragazza cominciò a canterellare qualcosa di poco comprensibile ma oltremodo seducente, a giudicare dai volti femminili in platea:

— Guerlain, Chanel, Mitsouko, Narcisse noir, Chanel numero cinque, vestiti da sera, vestiti da cocktail…

Fagotto si contorceva, il gatto eseguiva inchini, la ragazza apriva le vetrine.

— Si accomodino! — urlava Fagotto. — Senza complimenti e senza cerimonie!

Il pubblico era emozionato, ma nessuno ancora si decideva a salire sul palcoscenico. Finalmente una brunetta uscí dalla decima fila di platea e, sorridendo, quasi a dire che a lei non importava niente e se ne fregava, avanzò e salí sul proscenio per la scaletta laterale.

— Brava! — esclamò Fagotto. — Do il benvenuto alla prima visitatrice! Behemoth, una poltrona! Cominciamo dalle scarpe, madame?

La brunetta sedette in poltrona, e Fagotto le ammucchiò subito davanti una montagna di scarpe. La brunetta si tolse la scarpa destra, ne provò una viola, premette due o tre volte il tappeto col piede, esaminò il tacco.

— Non mi faranno male? — chiese pensierosa.

Al che Fagotto esclamò con voce offesa:

— Per carità! — e anche il gatto miagolò in tono offeso.

— Prendo questo paio, monsieur, — disse la brunetta con fare dignitoso, calzando anche l’altra scarpa.

Le sue vecchie scarpe furono gettate dietro una tenda, e nella stessa direzione andò pure la donna accompagnata dalla ragazza dai capelli rossi e da Fagotto, che portava appesi sulle grucce, alcuni modelli. Il gatto si indaffarava aiutava e, per darsi maggiore importanza, si appese al collo un metro da sarta.

Un minuto dopo, da dietro la tenda uscí la brunetta con un vestito tale che un sospiro passò per tutta la platea. L’ardimentosa donna, diventata piú bella sorprendentemente, si fermò davanti a uno specchio, alzò le spalle nude, si toccò i capelli sulla nuca e si contorse, tentando di guardarsi la schiena.

— La ditta la prega di gradire questo a titolo di ricordo — disse Fagotto porgendo alla brunetta un flacone in un astuccio aperto.

— Merci, — rispose altera la donna e scese in platea.

Mentre avanzava, gli spettatori balzavano in piedi per toccare l’astuccio.

Successe il finimondo: da tutte le parti le donne cominciarono a salire sul palcoscenico. Nell’eccitato rumore generale di voci, di risate e di sospiri si udí una voce maschile: «Non ti permetto!», poi una femminile: «Despota! Borghesuccio! Mi rompi il braccio!» Le donne scomparivano dietro la tenda, vi lasciavano i propri vestiti e ritornavano indossandone dei nuovi. Su sgabelli dai piedi dorati sedeva tutta una fila di signore che pestavano energicamente il tappeto con il piede calzato a nuovo. Fagotto s’inginocchiava, si dava da fare con un calzatoio di metallo; il gatto, allo stremo delle forze sotto montagne di borsette e di scarpe, si trascinava dalla vetrina agli sgabelli e viceversa; la ragazza dal collo deturpato ora appariva ora scompariva, arrivando al punto di cicalare solo in francese ed era sorprendente che la capissero a volo tutte le donne, perfino quelle che non sapevano una parola di quell’idioma.

Un uomo che si intrufolò sul palcoscenico provocò lo stupore generale. Spiegò che sua moglie aveva l’influenza, e pregava quindi di farle avere qualcosa tramite suo. A comprovare il fatto che fosse effettivamente sposato, il signore era pronto a esibire la carta d’identità. La dichiarazione del premuroso marito fu accolta da grandi risate. Fagotto urlò che anche senza passaporto si fidava come di se stesso, e consegnò al signore due paia di calze di seta, mentre il gatto prese l’iniziativa di aggiungere un vasetto di crema di bellezza.

Le ritardatarie si precipitarono verso il palcoscenico, da cui scendeva una fiumana di donne felici con vestiti da ballo, pigiami ricamati con draghi, severi tailleur, cappellini inclinati su un sopracciglio.

Fagotto dichiarò a quel punto che, data l’ora, il negozio sarebbe stato chiuso, tra un minuto esatto fino alla sera successiva, e sul palcoscenico scoppiò il finimondo. Le donne afferravano le scarpe alla svelta, senza neppure misurarle. Una irruppe come un fulmine dietro la tenda, si strappò di dosso il vestito e s’impadroní della prima cosa che le capitò sottomano: una vestaglia di seta ornata di enormi mazzi di fiori, e fece in tempo ad arraffare anche due flaconi di profumo.

Un minuto esatto piú tardi echeggiò un colpo di pistola, e gli specchi scomparvero, sprofondarono vetrine e sgabelli, il tappeto si sciolse in aria, come pure la tenda. Per ultima sparí l’altissima montagna di vestiti e scarpe vecchie, e il palcoscenico ridiventò severo, vuoto e nudo.

Fu allora che un nuovo personaggio s’immischiò. Una gradevole voce baritonale, sonora e molto insistente, echeggiò dal palco n. 2.

— Sarebbe desiderabile, signor artista, che lei smascherasse senza ulteriore ritardo davanti agli spettatori la tecnica dei suoi trucchi, e in particolare il trucco con le banconote. Sarebbe anche opportuno il ritorno in palcoscenico del presentatore. La sua sorte preoccupa gli spettatori.

Quella voce baritonale non apparteneva ad altri che all’ospite d’onore della serata, Arkadij Apollonovič Semplejarov, presidente della Commissione acustica dei teatri di Mosca.

Arkadij Apollonovič si trovava in un palco con due signore: l’una anziana, che indossava un costoso vestito alla moda, l’altra, giovane e carina, vestita in modo piú modesto. La prima, come si venne a sapere poco dopo, quando si stese il verbale, era la moglie di Arkadij Apollonovič, la seconda una sua lontana parente, un’attrice principiante di grandi speranze, arrivata da Saratov, che viveva in casa dei coniugi Semplejarov.

— Pardon! — replicò Fagotto. — Chiedo scusa, qui non c’è niente da smascherare, tutto è chiaro.

— No, mi perdoni! È assolutamente necessario smascherare tutto. Altrimenti i vostri brillanti numeri lasceranno un’impressione penosa. La massa degli spettatori esige una spiegazione.

— La massa degli spettatori, — lo interruppe l’insolente buffone, — mi pare non abbia chiesto un bel nulla. Prendendo tuttavia in considerazione il suo stimabilissimo desiderio, Arkadij Apollonovič, d’accordo, procederò allo smascheramento. Ma a tale scopo mi permetta ancora un numeruccio piccolo piccolo.

— Perché no, — rispose con aria di protezione Arkadij Apollonovič, — ma non deve mancare lo smascheramento.

— Signorsí, signorsí. Mi permetta dunque di chiederle: dov’è stato ieri sera, Arkadij Apollonovič?

A questa domanda fuori posto, e forse persino villana, il volto di Arkadij Apollonovič cambiò, e cambiò in modo assai forte.

— Ieri sera, Arkadij Apollonovič presenziava a una seduta della Commissione acustica, — dichiarò con fare molto altero la moglie di Arkadij Apollonovič, — ma non capisco che rapporto abbia questo con la magia.

— Oui, madame! — confermò Fagotto. — Naturalmente, lei non capisce. In quanto alla seduta, lei è in completo errore. Uscito per recarsi alla predetta seduta, la quale, tra parentesi, non era affatto indetta per ieri, Arkadij Apollonovič lasciò libero il suo autista presso l’edificio della Commissione, agli stagni Cistye, — (l’intero teatro stava col fiato sospeso), — e con l’autobus si recò in via Elochovskaja a far visita a Milica Andreevna Pokobat’ko, attrice della compagnia viaggiante rionale, e vi rimase per circa quattro ore.

— Ohi! — esclamò qualcuno con voce sofferente tra il silenzio generale.

La giovane parente di Arkadij Apollonovič sbottò a ridere con voce bassa e terribile.

— Capisco tutto! — esclamò.- Lo sospettavo da tempo. Adesso so perché quella nullità ha avuto la parte di Luisa!!

E con un inatteso slancio, calò il suo corto e grosso ombrello viola sulla testa di Arkadij Apollonovič.

Il vile Fagotto, ossia Korov’ev, esclamò:

— Ecco, egregi signori, un esempio di quello smascheramento che Arkadij Apollonovič esigeva con tanta insistenza!

— Canaglia, come hai osato toccare Arkadij Apollonovič? — chiese con voce minacciosa la moglie di Semplejarov, ergendosi nel palco in tutta la sua gigantesca statura.

Un secondo scoppio di riso satanico s’impadroní della giovane parente.

— Se qualcuno ha il diritto di toccarlo, — rispose sghignazzando — quella sono io! — E per la seconda volta si udí il rumore secco dell’ombrello che rimbalzò dalla testa di Arkadij Apollonovič.

— Polizia! Pigliatela! — urlò la moglie con voce cosí tremenda che molti sentirono raggelarsi il cuore.

Come se non bastasse, il gatto balzò verso la ribalta, e ringhiò per tutto il teatro con voce umana:

— Lo spettacolo è finito! Maestro! Ci spari una marcia!

Il direttore d’orchestra, mezzo istupidito, senza rendersi conto di quel che faceva, alzò la bacchetta, e l’orchestra non suonò, neppure attaccò, neppure scatenò, ma, secondo la disgustosa espressione del gatto, sparò una marcetta inverosimile, di una sfacciataggine inaudita.

Per un istante sembrò che un tempo, sotto le stelle del Sud, nei café-chantant, si fossero già sentite le parole poco comprensibili, quasi insensate ma smargiasse di quella marcetta:


Sua eccellenza

Amava le pollastrelle

E proteggeva

Le pupette belle!!!


Ma forse non esistevano affatto quelle parole, ma altre, sullo stesso motivo, oltremodo indecenti. Questo però non importa: importa che al Varietà cominciò allora una vera babele. Verso il palco di Semplejarov correva la polizia, i curiosi si arrampicavano fin sulla balaustra, si udivano scoppi di risate infernali, urla furiose, coperte dal suono dei piatti dorati dell’orchestra.

Si vide il palcoscenico diventare vuoto all’improvviso, e Fagotto il furfante e l’insolente gattaccio Behemoth si disciolsero nell’aria, scomparendo come prima era scomparso il mago con la poltrona dalla fodera sbiadita.




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