Mentre a Nikanor Ivanovič succedeva questa disgrazia sempre sulla Sadovaja, a poca distanza dal 302 bis, nell’ufficio di Rimskij, direttore finanziario del Varietà, si trovavano due persone: Rimskij stesso e Varenucha, amministratore del teatro.
Il grande ufficio, sito al primo piano del teatro, aveva due finestre sulla Sadovaja, e una terza, proprio alle spalle del direttore seduto alla sua scrivania, che dava sul giardino estivo del Varietà, dove si trovavano il bar, il tirassegno, e un palcoscenico all’aperto. L’arredamento dell’ufficio comprendeva, oltre alla scrivania, dei vecchi manifesti appesi al muro, un tavolino con una caraffa d’acqua, quattro poltrone e, in un angolo, un supporto su cui stava l’antico bozzetto impolverato di uno spettacolo. S’intende che c’era anche una vecchia cassaforte scrostata di piccole dimensioni, sulla sinistra di Rimskij, vicino alla scrivania.
Sin dal mattino, Rimskij era di cattivo umore, mentre Varenucha era, al contrario, animatissimo e attivo in modo particolarmente irrequieto. Però la sua energia non trovava sfogo.
Varenucha si era nascosto nell’ufficio del direttore finanziario per sfuggire ai postulanti di biglietti di favore che gli avvelenavano l’esistenza, soprattutto quando il programma cambiava. Oggi era proprio una di quelle giornate. Non appena squillava il telefono, Varenucha prendeva il ricevitore e mentiva:
— Chi? Varenucha? Non c’è. È fuori teatro.
— Per favore, telefona ancora una volta a Lichodeev, disse con irritazione Rimskij.
— Ma se non è in casa. Ho già mandato Karpov, nell’appartamento non c’è nessuno.
— Il diavolo se lo porti! — sibilava Rimskij facendo scorrere le dita sulla calcolatrice.
La porta si aprí, e un inserviente trascinò dentro un grosso pacco di manifesti supplementari appena stampati; sui fogli verdi era impresso a grosse lettere rosse
Ogni giorno da oggi al Teatro di Varietà
fuori programma
IL PROFESSOR WOLAND
Sedute di magia nera e totale smascheramento della medesima
Allontanandosi dal manifesto che aveva buttato sul bozzetto, Varenucha lo ammirò e ordinò all’inserviente di farli immediatamente affiggere tutti.
— Bene… dà nell’occhio… — osservò Varenucha quando l’inserviente si fu allontanato.
— A me invece questa fantasia non piace per niente, brontolò Rimskij, guardando con malanimo il manifesto attraverso gli occhiali cerchiati di corno, — e mi stupisco che gli abbiano dato il permesso per queste rappresentazioni.
— No, Grigorij Danilovič, non dirlo! È una mossa molto sottile. Tutto il sugo sta nello smascheramento.
— Non so, non so, io non ci vedo alcun sugo… ne inventa sempre una!… Almeno ci avesse fatto vedere questo mago! Tu almeno l’hai visto? Dove l’avrà pescato, il diavolo lo sa!
Si scoprí che neppure Varenucha aveva mai visto il mago. Ieri, Stepa («sembrava pazzo», secondo Rimskij) era arrivato di corsa dal direttore finanziario con una bozza di contratto già redatta, aveva dato ordine di copiarlo immediatamente e di pagare Woland. Il mago poi era scomparso, e nessuno l’aveva visto, tranne Stepa.
Rimskij tirò fuori l’orologio, vide che segnava le due e cinque, e andò su tutte le furie. C’era di che! Lichodeev aveva telefonato verso le undici, dicendo che sarebbe giunto di li a mezz’ora, e non solo non era arrivato, ma era pure scomparso da casa.
— Ho tutto bloccato! — ruggiva Rimskij, puntando il dito verso il mucchio di documenti che aspettavano la firma.
— Non sarà mica andato a finire sotto un tram, come Berlioz? — diceva Varenucha tenendo incollato l’orecchio al ricevitore, in cui si sentivano lunghi, inutili squilli.
— Non sarebbe male… — disse Rimskij a denti stretti con voce che a stento si poteva sentire.
In quell’istante entrò nell’ufficio una donna in divisa, col berretto a visiera, la gonna nera e scarpette basse. Dalla piccola borsa attaccata alla cintura, la donna trasse un quadratino bianco e un quaderno, e disse:
— È qui il Varietà? C’è un telegramma lampo per voi. Firmi qui.
Varenucha fece uno scarabocchio nel quaderno della donna, e non appena la porta le si chiuse dietro, aprí la busta. Dopo aver letto il telegramma, cominciò a sbattere le palpebre e passò il foglio a Rimskij.
Il contenuto del telegramma era il seguente: «DA JALTA A MOSCA — VARIETÀ — OGGI ORE UNDICI E MEZZO PRESENTATOSI A PUBBLICA SICUREZZA ALIENATO CASTANO CAMICIA NOTTE PANTALONI SENZA SCARPE DICHIARANDOSI LICHODEEV DIRETTORE VARIETÀ STOP TELEGRAFATE PUBBLICA SICUREZZA JALTA DOVE TROVASI DIRETTORE LICHODEEV».
— Cose dell’altro mondo! — esclamò Rimskij, e soggiunse: — Altra sorpresa!
— Uno Pseudodemetrio![10] — esclamò Varenucha e disse nel ricevitore: — Telegrammi? Addebitare al Varietà. Telegramma lampo. Pronti? «PUBBLICA SICUREZZA JALTA — ’ DIRETTORE LICHODEEV TROVASI MOSCA — Firmato: DIRETTORE FINANZIARIO RIMSKIJ»…
Senza tener conto della comunicazione sull’impostore di Jalta, Varenucha si rimise al telefono per cercare Stepa a casaccio, senza naturalmente trovarlo.
Nel preciso momento in cui Varenucha, col ricevitore in mano, rifletteva dove avrebbe ancora potuto telefonare, entrò la stessa donna che aveva portato il primo telegramma, e consegnò a Varenucha un’altra busta. Varenucha si affrettò ad aprirla, lesse lo scritto e fischiò.
— Che c’è ancora? — chiese Rimskij, con una smorfia nervosa.
Varenucha gli porse in silenzio il telegramma, e il direttore finanziario vi lesse: «SUPPLICO CREDERE STOP CAPITATO JALTA CAUSA IPNOTISMO WOLAND STOP TELEGRAFATE PUBBLICA SICUREZZA CONFERMA IDENTITÀ — Firmato: LICHODEEV».
Rimskij e Varenucha, con le teste che si toccavano, rilessero il telegramma, e, dopo averlo letto, si fissarono in silenzio.
— Cittadini! — si arrabbiò la donna. — Prima firmate, poi potrete tacere finché vorrete! Ho dei telegrammi lampo da distribuire, io!
Varenucha, senza distogliere gli occhi dal foglio, appose una firma storta nel quaderno, e la donna scomparve.
— Tu gli hai parlato al telefono poco dopo le undici? prese a dire l’amministratore in preda a una perplessità assoluta.
— Non farmi ridere! — urlò Rimskij con voce penetrante. — Che gli abbia parlato o no, non può essere a Jalta in questo momento! È ridicolo!
— È sbronzo… — disse Varenucha.
— Chi? — chiese Rimskij, e di nuovo si fissarono.
Che da Jalta avesse telegrafato qualche pazzo o impostore, non c’erano dubbi. Ma ecco la cosa strana: come faceva il mistificatore di Jalta a conoscere Woland, giunto a Mosca solo ieri? Come faceva a sapere del rapporto tra Lichodeev e Woland?
— «Ipnotismo…», — rileggeva Varenucha. — Ma come fa a sapere di Woland? — Sbatté le palpebre, e di colpo esclamò con voce decisa: — No! Fandonie!… Fandonie, fandonie!
— Dove abita questo Woland, il diavolo se lo porti? chiese Rimskij.
Varenucha si mise subito in contatto con l’Ufficio turisti stranieri, che, con sommo stupore di Rimskij, dichiarò che Woland risiedeva nell’appartamento di Lichodeev.
Dopo aver rifatto il numero dell’appartamento di Lichodeev, Varenucha ascoltò a lungo gli squilli frequenti.
Tra essi, si sentí di lontano una voce densa e tetra cantare: «… rocce, mio rifugio…» e Varenucha pensò che fosse l’interferenza della voce di una stazione radiofonica.
— Non risponde, — disse, rimettendo il ricevitore sulla forcella, — proviamo a telefonare a…
Non terminò la frase. Sulla porta ricomparve la stessa donna, ed entrambi — tanto Rimskij quanto Varenucha le mossero incontro, e quella tolse dalla borsa un foglio questa volta non piú bianco, ma scuro.
— Sta diventando interessante, — borbottò tra i denti Varenucha, accompagnando con lo sguardo la donna che si allontanava in fretta. Il primo a impadronirsi del foglio fu Rimskij.
Sullo sfondo scuro di una carta per stampa fotografica risaltavano chiaramente alcune righe scritte in nero:
«PROVA MIA CALLIGRAFIA MIA FIRMA TELEGRAFATE CONFERMA ORGANIZZATE SORVEGLIANZA SEGRETA WOLAND. LICHODEEV».
In vent’anni di attività nei teatri, Varenucha ne aveva viste di tutti i colori, ma qui sentí che era come se la sua ragione gli si ricoprisse di un velo, e non seppe pronunciare altro che la frase banale e totalmente assurda:
— Questo non è possibile!
Rimskij invece reagí in modo diverso. Si alzò, aprí la porta, gridò all’inserviente seduta su uno sgabello:
— Non faccia entrare nessuno tranne il postino! — e chiuse la porta a chiave.
Poi prese dalla scrivania un mucchio di carte e cominciò a confrontare con cura le lettere grasse, pendenti verso sinistra, del telegramma con quelle degli ordini emanati da Stepa e con le sue firme, munite di uno svolazzo a viticcio.
Varenucha, ripiegato sul tavolo, soffiava il suo alito ardente sulla guancia di Rimskij.
— È la sua calligrafia, — disse infine con voce sicura il direttore finanziario, e Varenucha ripeté come un’eco:
— È la sua.
Fissando Rimskij, l’amministratore si sorprese del cambiamento avvenuto sul suo volto. Il direttore finanziario, già magro, sembrava essere ancora piú dimagrito e persino invecchiato, e i suoi occhi, nella montatura di corno, avevano perso l’abituale mordacità, in essi si leggeva non solo l’inquietudine, ma anche la tristezza.
Varenucha fece quello che si usa fare nei momenti di grande sbalordimento. Corse avanti e indietro per l’ufficio, alzò due volte le braccia al cielo come un crocefisso tracannò un bicchiere dell’acqua giallastra della caraffa, ed esclamò:
— Non capisco! Non capisco! Non ca-pi-sco!
Rimskij invece guardava dalla finestra e pensava a qualcosa con concentrazione. La posizione del direttore finanziario era molto difficile. Era necessario inventare immediatamente, su due piedi, spiegazioni ordinarie per fenomeni straordinari.
Con gli occhi socchiusi, egli si raffigurava Stepa, in camicia da notte e senza scarpe, che saliva verso le undici e mezzo di quel giorno in un fantastico aereo superveloce, e poi sempre lui, Stepa, sempre alle undici e mezzo, coi soli calzini ai piedi, all’aeroporto di Jalta… chi diavolo ci capiva qualcosa?!
Forse non era stato Stepa a parlargli, quella mattina, al telefono dal proprio appartamento? No, chi parlava era proprio lui! Figuriamoci se lui, Rimskij, non conosceva la voce di Stepa! Ma anche se gli avesse telefonato qualcun altro, non piú tardi di ieri, verso sera, Stépa in persona era venuto dal suo ufficio in questo con quello stupido contratto, irritando il direttore finanziario con la sua sventatezza. Come era potuto partire senza dire niente in teatro?
Ma anche se avesse preso l’aereo la sera prima, non poteva essere già sul posto a mezzogiorno del giorno successivo! Oppure poteva?
— Quanti chilometri ci sono fino a Jalta? — chiese.
Varenucha smise di correre avanti e indietro e urlò:
— Ci ho pensato! Ci ho già pensato! Fino a Sebastopoli per ferrovia ci sono circa millecinquecento chilometri, poi fino a Jalta aggiungine ancora un’ottantina! Be’, con l’aereo sono meno, naturalmente.
Hm… già… Ai treni non c’era neanche da pensare. Ma allora? Un caccia? Chi avrebbe fatto salire Stepa senza scarpe su un caccia? Perché? Forse si era tolto le scarpe quand’era arrivato a Jalta? Di nuovo: perché? Ma anche con le scarpe, non lo avrebbero lasciato salire su un caccia! E poi il caccia non c’entrava. Avevano pur scritto che era arrivato negli uffici della Pubblica sicurezza di Jalta alle undici e mezzo, e aveva telefonato da Mosca… un momento… (davanti a Rimskij apparve l’immagine del quadrante del suo orologio).
Rimskij cercava di ricordare dove fossero le lancette… Orrore! Segnavano le undici e venti!
Ma come poteva essere? Supponendo che, subito dopo la conversazione, Stepa si fosse precipitato all’aeroporto, e vi fosse giunto, diciamo, cinque minuti dopo (cosa, del resto, impensabile), vorrebbe dire che l’aereo — se fosse decollato subito — avrebbe dovuto percorrere in cinque minuti oltre mille chilometri. Di conseguenza, in un’ora percorrere oltre dodicimila chilometri! Il che era impossibile, quindi non era a Jalta!
Che restava? L’ipnosi? Non c’è al mondo un’ipnosi capace di scaraventare un uomo a mille chilometri di distanza! Allora s’immaginava soltanto di essere a Jalta? Lui magari s’immaginava, ma s’immaginava anche la Pubblica sicurezza?! No, no, scusate, sono cose che non succedono!… Eppure avevano telegrafato di laggiú!
Il volto del direttore finanziario faceva letteralmente paura. Nel frattempo la maniglia della porta veniva girata e scrollata dall’esterno, e si sentiva l’inserviente gridare istericamente dietro la porta:
— Non si può! Non vi lascio passare! Anche se mi ammazzate! Sono in riunione!
Rimskij si padroneggiò quanto poté, prese il ricevitore e disse:
— Voglio una comunicazione urgentissima con Jalta.
«Un’idea intelligente», esclamò Varenucha tra sé.
Ma la conversazione telefonica con Jalta non ebbe luogo. Rimskij depose il ricevitore dicendo:
— Sembra lo facciano apposta: la linea è guasta.
Si vedeva che il guasto alla linea lo indisponeva in modo particolare e lo rendeva perfino pensieroso. Dopo aver riflettuto un po’, prese di nuovo il ricevitore in una mano, mentre con l’altra trascriveva ciò che andava dicendo al telefono:
— Telegramma lampo. Varietà. Sí. Pubblica sicurezza Jalta. Sí. «OGGI CIRCA UNDICI TRENTA LICHODEEV TELEFONOMMI IN MOSCA STOP POI NON VENNE UFFICIO ET IMPOSSIBILE RINTRACCIARLO TELEFONICAMENTE STOP CONFERMO CALLIGRAFIA STOP PRENDO MISURE SCOPO SORVEGLIANZA ARTISTA SEGNALATO — Firmato: DIRETTORE FINANZIARIO RIMSKIJ».
«Un’idea intelligentissima!», pensò Varenucha, ma non fece in tempo di pensarci a dovere che nella sua mente già erano passate le parole: «Che scemenza! Non può essere a Jalta!»
Nel frattempo, Rimskij fece quanto segue: raccolse con cura tutti i telegrammi, compresa la copia del suo, in un pacchetto, mise il pacchetto in una busta, la incollò, vi scrisse sopra alcune parole e la consegnò a Varenucha, dicendo:
— Portala subito tu stesso, Ivan Savel’evic. Se la vedano loro.
«Questa sí che è un’idea intelligente!», pensò Varenucha, e ripose il plico nella sua cartella. Poi, per ogni evenienza, fece ancora una volta il numero dell’appartamento di Stepa e stette in ascolto, facendo ammicchi e smorfie con aria allegra e misteriosa. Rimskij allungò il collo.
— Potrei parlare con l’artista Woland? — chiese soavemente Varenucha.
— Il signore è occupato, — rispose il ricevitore con voce tremolante, — chi parla?
— Varenucha, amministratore del Varietà.
— Ivan Savel’evic? — gridò il ricevitore con gioia. — Come sono contento di sentire la sua voce! Come sta?
— Merci, — rispose sorpreso Varenucha. — Con chi sto parlando?
— Con l’aiutante, il suo aiutante e interprete Korov’ev! — strepitava il ricevitore. — Interamente ai suoi ordini, carissimo Ivan Savel’evic! Disponga di me come crede! Dica pure.
— Mi scusi… dica, è in casa Stepan Bogdanovič Lichodeev?
— Ohimè, no! Non c’è! — gridava il ricevitore. — È partito!
— Per dove?
— È andato in macchina a fare una gita fuori città.
— C… come? Una gi… gita?… Quando torna?
— Ha detto che andava a respirare una boccata d’aria fresca e che sarebbe tornato.
— Ah, cosí… — disse sconcertato Varenucha, — merci… Abbia la cortesia di riferire a monsieur Woland che il suo spettacolo avrà luogo oggi nella terza parte.
— Certo. Come no. Senz’altro. Subito. Assolutamente. Riferirò, — ticchettava il ricevitore.
— Tante cose, — disse Varenucha sorpreso.
— La prego di gradire, — diceva il ricevitore, — i miei saluti piú fervidi e piú cordiali! Le auguro successo! Fortuna! Felicità! Tutto!
— Ma naturalmente! Lo dicevo, io! — gridava l’amministratore eccitato. — Altro che Jalta, è andato a fare una gita!
— Be’, se è cosí, — disse il direttore finanziario, impallidendo dalla rabbia, — è una sconcezza tale che non si sa nemmeno come chiamarla!
A questo punto l’amministratore diede un balzo e urlò in modo tale che Rimskij sussultò.
— Adesso mi ricordo! A Puškino hanno inaugurato la rosticceria Jalta! Si capisce tutto! E andato lí, si è sbronzato e adesso manda telegrammi!
— Questo è troppo, — rispose Rimskij con un tic alla guancia, e nei suoi occhi ardeva una collera autentica, greve. — Gli verrà a costare cara, questa passeggiata!… — Si arrestò e soggiunse con voce indecisa: — Ma come, e la Pubblica sicurezza…
— Fandonie! Sono scherzetti suoi! — lo interruppe l’espansivo amministratore, e chiese: — Devo portare il plico?
— Senz’altro, — rispose Rimskij.
Di nuovo si aprí la porta ed entrò di nuovo quella dama… «Lei!», pensò con tristezza Rimskij. E si alzarono entrambi incontro alla postina.
Questa volta nel telegramma c’erano le parole:
«GRAZIE CONFERMA MANDATEMI URGENTEMENTE PRESSO PUBBLICA SICUREZZA CINQUECENTO PARTO MOSCA AEREO
DOMANI — Firmato: LICHODEEV».
— È impazzito… — disse fievolmente Varenucha.
Rimskij, invece, fece tintinnare la chiave, trasse dal cassetto della cassaforte il denaro, contò cinquecento rubli, suonò, consegnò i soldi al fattorino e lo mandò al telegrafo.
— Ma, Grigorij Danilovič, — disse Varenucha, che non credeva ai suoi occhi, — secondo me fai male a inviare quei soldi.
— Torneranno indietro, — replicò Rimskij sottovoce, ma lui, per questo picnic la pagherà cara — . E soggiunse, indicando la cartella: — Vai, Ivan Savel’evic, non perdere tempo.
Varenucha corse fuori dallo studio con la cartella.
Scese al piano sottostante, vide una lunghissima fila davanti allo sportello, apprese dalla cassiera che prevedeva il tutto esaurito entro un’ora perché il pubblico arrivava a frotte da quando era stato affisso il manifesto supplementare, ordinò alla cassiera di mettere da parte e non vendere trenta tra i posti migliori nei palchi e in platea, balzò fuori della biglietteria, sempre correndo respinse quelli che aspettavano i biglietti di favore, e si tuffò nel suo piccolo ufficio per prendere il berretto. In quell’attimo squillò il telefono.
— Sí! — gridò Varenucha.
— Ivan Savel’evic? — s’informò il ricevitore con un’antipaticissima voce nasale.
— Non è in teatro! — gridò Varenucha, ma il ricevitore lo interruppe subito:
— Non faccia lo stupido, Ivan Savel’evic, e ascolti. Non porti in nessun posto quei telegrammi, e non li faccia vedere a nessuno.
— Chi parla? — esplose Varenucha. — La pianti di scherzare! La scopriranno subito! Da che numero parla?
— Varenucha, — riprese la stessa voce ributtante, — lo capisci il russo, sí o no? Non portare i telegrammi da nessuna parte.
— Ah, non la vuole smettere! — urlò l’amministratore infuriato. — Be’, stia attento! La pagherà! — Lanciò ancora una minaccia, ma poi stette zitto perché sentí che nessuno lo ascoltava piú.
Allora nell’ufficio cominciò rapidamente a farsi buio. Varenucha corse fuori, sbatté la porta e attraverso l’uscita laterale si slanciò nel giardino estivo.
L’amministratore era eccitato e pieno di energia. Dopo quell’impudente telefonata non dubitava piú che una banda di teppisti stesse macchinando qualche brutto tiro, e che questo fosse collegato con la sparizione di Lichodeev. Il desiderio di smascherare i malfattori soffocava l’amministratore e, per quanto strano, nasceva in lui il presentimento di qualcosa di piacevole. Questo accade quando un uomo cerca di diventare il centro dell’attenzione e di recare una notizia sensazionale.
In giardino il vento soffiò in faccia all’amministratore riempiendo gli occhi di polvere, quasi a ostacolarlo, ad ammonirlo. Al primo piano, una finestra sbatté con tanta forza che per poco non saltarono i vetri, tra le cime dei tigli e degli aceri passò un fruscio inquieto. Si fece piú buio e piú fresco. L’amministratore si soffregò gli occhi e vide che su Mosca strisciava bassa una nuvola temporalesca dal ventre giallo. In lontananza si udí un fitto brontolio.
Per quanta fretta avesse Varenucha, un desiderio irresistibile lo spinse a passare per un attimo nel gabinetto estivo per controllare se l’elettricista aveva messo la rete intorno a una lampadina.
Dopo aver sorpassato di corsa il tirassegno, Varenucha finí in una folta macchia di lillà, dove sorgeva l’edificio azzurrognolo del gabinetto. L’elettricista si dimostrò una persona precisa: la lampadina sotto il soffitto nel reparto uomini era già avvolta in una rete metallica, ma l’amministratore fu addolorato dal fatto che perfino in quella penombra pretemporalesca si potevano vedere le pareti coperte di scritte a matita e a carbone.
— Ma che razza di… — stava per dire l’amministratore quando sentí alle spalle una voce gnaulante:
— È lei, Ivan Savel’evic?
Varenucha sussultò, si voltò, e vide davanti a sé un individuo piccolo e grassottello dalla faccia somigliante a quella d’un gatto.
— Sí, sono io, — rispose Varenucha con voce ostile.
— Piacere, molto piacere, — rispose con voce piagnucolosa il gattesco individuo e all’improvviso, preso lo slancio, appioppò a Varenucha una sventola tale sull’orecchio che il berretto volò via dalla testa dell’amministratore e scomparve senza lasciare tracce nel buco del gabinetto.
Il colpo del grassone illuminò per un attimo l’intero gabinetto con una luce palpitante e nel cielo echeggiò un colpo di tuono. Poi lampeggiò ancora, e davanti all’amministratore comparve un secondo individuo, piccolo, ma dalle spalle atletiche, con capelli rossi come il fuoco… un occhio con l’albugine, la bocca con una zanna… Questo secondo individuo, essendo evidentemente mancino, pestò l’amministratore sull’altro orecchio. In risposta tuonò di nuovo, e sul tetto di legno del gabinetto si rovesciò una pioggia torrenziale.
— Ma che vi piglia, compa… — sussurrò l’amministratore rincretinito, e resosi subito conto che la parola «compagni» non si addiceva di certo a dei banditi che assalivano un uomo in un gabinetto pubblico, rantolò: — Citta… capí che non meritavano neppure questo appellativo, e si pigliò un terzo tremendo colpo, senza sapere chi dei due glielo avesse tirato, sí che, dal naso, il sangue gli zampillò sul camiciotto.
— Che cos’hai nella cartella, parassita? — urlò con voce penetrante quello che somigliava a un gatto. — I telegrammi? Ti hanno pur avvertito per telefono di non portarli? Ti hanno avvertito, sí o no?
— Mi hanno avver… ver… vertito… — rispose l’amministratore boccheggiando.
— E ti sei precipitato lo stesso? Dammi qui la cartella verme! — gridò il secondo con la stessa voce nasale già sentita al telefono, e strappò la cartella dalle mani tremanti di Varenucha.
Entrambi presero l’amministratore sottobraccio, lo trascinarono fuori dal giardino e se lo portarono dietro lungo la Sadovaja. Il temporale imperversava a tutto spiano, l’acqua, con fragore e ululando, precipitava nei tombini, dovunque si gonfiavano, coprendosi di bolle, le onde, dai tetti l’acqua si riversava oltre le grondaie, dagli androni uscivano in corsa torrenti schiumosi. Tutto ciò che era vivo si era eclissato dalla Sadovaja, e non c’era nessuno che potesse salvare Ivan Savel’evic. Saltando tra i fiumi torbidi e illuminandosi coi lampi, i banditi trascinarono in un batter d’occhio l’amministratore mezzo morto fino al 302 bis, balzarono nell’androne dove si stringevano al muro due donne scalze che tenevano in mano le scarpe e le calze fradice. Poi si precipitarono verso l’interno 6, e Varenucha, prossimo alla pazzia, fu portato al quinto piano e gettato sul pavimento nella semibuia anticamera, a lui ben nota, dell’appartamento di Stepa Lichodeev.
Qui i due briganti scomparvero, e al loro posto comparve nell’anticamera una ragazza completamente nuda, rossa di capelli, con gli occhi che ardevano di un bagliore fosforescente.
Varenucha capí che quella era la cosa piú terribile tra tutto quello che gli era capitato e, con un gemito, indietreggiò verso la parete. La ragazza si avvicinò all’amministratore e gli mise le mani sulle spalle. I capelli di Varenucha si rizzarono perché anche attraverso la stoffa fredda, imbevuta d’acqua, del camiciotto sentí che quelle mani erano ancora piú fredde, fredde di un freddo di ghiaccio.
— Toh, ti voglio dare un bacio, — disse la ragazza con tenerezza, e gli occhi lucenti si avvicinarono ai suoi. Varenucha perse i sensi e non percepí il bacio.