CAPITOLO SETTIMO Un appartamento poco simpatico



Se, al mattino dopo, avessero detto a Stepa Lichodeev:

«Stepa! Sarai fucilato se non ti alzi subito!», Stepa avrebbe risposto con voce fievole e languida: «Fucilatemi, fate di me quel che volete, ma non mi alzo!»

Altro che alzarsi! Gli sembrava di non poter neppure aprire gli occhi: se lo avesse fatto, un fulmine sarebbe esploso e gli avrebbe mandato in pezzi la testa. In essa rimbombava una pesante campana, tra i globi oculari e le palpebre chiuse fluttuavano macchie brune orlate di un verde fiammeggiante, e per di piú sentiva una nausea che sembrava collegata ai suoni di un ossessivo grammofono.

Stepa tentava di ricordare qualcosa, ma ricordava soltanto che, forse ieri e non sapeva dove, se ne stava in piedi con un tovagliolo in mano e cercava di baciare una signora, e le prometteva che sarebbe andato a trovarla l’indomani a mezzogiorno in punto. La signora si schermiva, dicendo: «No, no, non sarò in casa!», ma Stepa insisteva con tenacia: «Invece io vengo!»

Chi fosse la signora, che ora fosse, che giorno, che mese, Stepa non lo sapeva assolutamente, e il peggio era che non riusciva a capire dove si trovasse. Tentò di chiarire almeno quest’ultimo punto e a questo scopo disserrò la palpebra appiccicata dell’occhio sinistro. Nella penombra qualcosa mandava un fioco riflesso. Finalmente Stepa riconobbe la specchiera, e capí che giaceva riverso sul suo letto, cioè sull’ex letto della gioielliera, nella propria camera. A questo punto sentí un tale colpo alla testa che chiuse gli occhi e lanciò un gemito.

Spieghiamoci: Stepa Lichodeev, direttore del Teatro di Varietà, si svegliò al mattino nell’appartamento che condivideva con il defunto Berlioz, in una casa a cinque piani che dava sulla Sadovaja.

Si deve dire che quell’appartamento — il n. 50 — godeva da tempo di una reputazione che, se non cattiva, era in ogni modo ambigua. Sino a due anni prima, esso apparteneva alla vedova del gioielliere de Fougeret. Anna Francevna de Fougeret, rispettabile signora cinquantenne molto attiva, affittava tre camere su cinque: uno degli inquilini si chiamava, pare, Belomut, l’altro non aveva piú il cognome.

Ed ecco che circa due anni fa, nell’appartamento erano cominciati avvenimenti inspiegabili: gli inquilini cominciarono a sparire senza lasciare traccia.

In un giorno festivo venne nell’appartamento un poliziotto, chiamò in anticamera il secondo inquilino (quello che non aveva piú il cognome) e disse che egli era pregato di passare per un attimo al commissariato per una firma. L’inquilino ordinò ad Anfisa, antica e fedele domestica di Anna Francevna, di dire — se qualcuno avesse telefonato che sarebbe ritornato di lí a dieci minuti, e andò via con il cortese poliziotto dai guanti bianchi. Però, non solo non tornò di lí a dieci minuti, ma non tornò piú del tutto. La cosa piú strana era che con lui, a quanto sembra, scomparve anche il poliziotto.

La religiosa o, per dirla schietta, la superstiziosa Anfisa dichiarò apertamente alla sconvolta Anna Francevna che si trattava di stregoneria e che lei sapeva perfettamente chi aveva rapito l’inquilino e il poliziotto, ma, poiché la notte si avvicinava, non lo voleva dire.

Si sa che la stregoneria basta che cominci e non c’è piú mezzo per fermarla. Il secondo inquilino scomparve, se ben ricordiamo, un lunedí, e al mercoledí sparí Belomut. Sia pure in circostanze differenti. Al mattino la macchina era passata a prenderlo, come sempre, per portarlo in ufficio, e ve lo portò, ma non riportò indietro nessuno e non si fece piú vedere.

Il dolore e il terrore della signora Belomut erano indescrivibili. Ma, ohimè, sia l’uno che l’altro durarono poco. Nella stessa notte, tornata con Anfisa da una dacia dove, chi sa perché, Anna Francevna si era recata in tutta fretta, essa non trovò piú la signora Belomut nell’appartamento.

Ma non basta: le porte delle due camere occupate dai coniugi Belomut avevano i sigilli.

Due giorni passarono alla bell’e meglio. Al terzo, Anna Francevna, che in tutto quel periodo soffriva d’insonnia, ripartí di nuovo in gran fretta per la dacia… Occorre dire che non ritornò?

Rimasta sola, Anfisa, dopo aver pianto a volontà, andò a dormire che era l’una passata. Che cosa le succedesse in seguito non si sa, ma gli inquilini degli altri appartamenti raccontavano che nell’appartamento n. 50 si udirono per tutta la notte dei colpi, e le finestre rimasero illuminate fino al mattino. Al mattino si scoprí che neppure Anfisa c’era piú!

Sugli scomparsi e sull’appartamento maledetto per lungo tempo nella casa si raccontarono leggende d’ogni sorta: ad esempio, che la gracile e religiosa Anfisa avrebbe portato sul seno inaridito in un sacchetto di camoscio venticinque grossi brillanti di proprietà di Anna Francevna. Che nella legnaia della dacia, dove si era recata in gran fretta Anna Francevna, sarebbero saltati fuori da soli tesori inestimabili consistenti sempre in brillanti nonché in monete d’oro di conio zarista… E altre cose del genere. Ma quello che non sappiamo non lo possiamo garantire.

Comunque stessero le cose, l’appartamento rimase vuoto e sigillato soltanto per una settimana, poi vi si stabilirono il defunto Berlioz con la moglie, e Stepa con la consorte. È del tutto naturale che, non appena si trovarono nell’appartamento maledetto, anche a loro cominciò a succedere il diavolo sa cosa. E precisamente: prima che fosse trascorso un mese le due consorti erano scomparse. Però non senza lasciare traccia. Della consorte di Berlioz si diceva che fosse stata vista a Char’kov con un coreografo, mentre quella di Stepa sarebbe stata individuata sulla Bozedomka dove, secondo le dicerie, il direttore del Varietà approfittando delle innumerevoli aderenze, era riuscito a procurarle una stanza, alla condizione che non mostrasse mai il naso sulla Sadovaja…

Dunque Stepa lanciò un gemito. Voleva chiamare la donna di servizio, Grunja, per chiederle del piramidone, ma riuscí a rendersi conto che sarebbe stato inutile perché naturalmente Grunja il piramidone non l’aveva. Tentò di chiamare in suo aiuto Berlioz, e gemette due volte: «Miša… Miša…», ma, come voi potete ben capire, non ebbe risposta. Nell’appartamento regnava il silenzio piú assoluto.

Stepa mosse le dita dei piedi e intuí che era a letto con i calzini, si passò poi una mano tremante lungo le cosce per sapere se aveva addosso o no i pantaloni, ma non riuscí a stabilirlo Quando finalmente vide che era solo e abbandonato e che non c’era nessuno che l’aiutasse, decise di alzarsi, benché sapesse quali sforzi sovrumani questo gli sarebbe costato.

Stepa disserrò le palpebre incollate e si vide riflesso nello specchio sotto forma di un uomo coi capelli rizzati in ogni direzione, la faccia gonfia coperta di peli neri, gli occhi enfiati, la camicia sporca col colletto e la cravatta, in mutandoni e calzini.

Si vide cosí nella specchiera, vicino alla quale scorse uno sconosciuto vestito di nero, con un berretto nero.

Stepa si sedette sul letto, e spalancò sullo sconosciuto, per quanto gli era possibile, gli occhi iniettati di sangue. Fu lo sconosciuto a rompere il silenzio, pronunciando, con una voce bassa e grave dall’accento straniero, le seguenti parole:

— Buon giorno, simpaticissimo Stepan Bogdanovič!

Vi fu una pausa, dopo la quale, facendo uno sforzo enorme, Stepa farfugliò:

— Che cosa desidera? — e rimase stupito, non riconoscendo la propria voce. Il «che», l’aveva pronunciato con timbro da soprano, il «cosa» con voce di basso, e «desidera» non gli era venuto fuori affatto.

Lo sconosciuto fece un sorriso amichevole, trasse di tasca un grosso orologio d’oro con un triangolo di diamanti sulla calotta, lo fece suonare undici volte e disse:

— Le undici. E esattamente un’ora che aspetto il suo risveglio. Lei infatti mi aveva fissato un appuntamento per le dieci. Ed eccomi qua!

Stepa trovò a tastoni i pantaloni su una sedia vicino al letto e sussurrò:

— Mi scusi… — li infilò e chiese rauco: — Mi vorrebbe dire il suo cognome?

Gli riusciva difficile parlare. Ad ogni parola, qualcuno gli ficcava un ago nel cervello, causandogli un dolore infernale.

— Come! Ha dimenticato il mio cognome? — e lo sconosciuto sorrise.

— Mi perdoni… — rantolò Stepa, sentendo che, fra i postumi della sbornia, era gratificato di un nuovo sintomo: gli sembrava che il pavimento vicino al letto fosse scomparso e che in quell’istante egli sarebbe precipitato a capofitto nel centro dell’inferno.

— Caro Stepan Bogdanovič, — disse il visitatore con un sorriso sagace, — nessun piramidone le sarà d’aiuto. Dia retta a una vecchia e saggia regola: curare il simile col simile. L’unica cosa che le ridarà vita, sono due bicchierini di vodka accompagnati da uno spuntino caldo e piccante.

Stepa era un uomo furbo e, per quanto stesse male, capí che, dal momento che l’avevano trovato in quello stato, doveva confessare tutto.

A dire il vero, — cominciò muovendo a stento la lingua, — ieri sera io ho un pochino…

— Non una parola di piú! — rispose il visitatore e si spostò con la sua poltrona.

Stepa, sbarrando gli occhi, vide sul tavolino un vassoio su cui si trovava del pane bianco affettato, del caviale pressato in un vasetto, funghi porcini marinati su un piattino, un tegame, e, infine, della vodka in una voluminosa caraffa della gioielliera. Ciò che lo sorprese soprattutto era che la caraffa fosse appannata dal freddo. Del resto, la cosa era comprensibile: la caraffa infatti si trovava in una bacinella piena di ghiaccio. Insomma, il tavolo era apparecchiato con lindezza e abilità.

Lo sconosciuto non aspettò che lo sbalordimento di Stepa raggiungesse un’intensità morbosa, e con destrezza gli versò un mezzo bicchiere di vodka.

— E lei? — pigolò Stepa.

— Con piacere!

Con mano tremante Stepa portò il bicchiere alle labbra, mentre lo sconosciuto tracannò d’un fiato il contenuto del suo. Mentre masticava un boccone di caviale, Stepa riuscí a dire:

— Ma… non mangia?

— Grazie, non mangio mai quando bevo, — rispose lo sconosciuto, e riempí i bicchieri per la seconda volta. Aprirono il tegame e dentro trovarono dei würsteln in un intingolo di pomodoro.

Ed ecco che le maledette macchie verdi davanti agli occhi si disciolsero, cominciarono a uscire le parole, e, quel che piú importa, Stepa cominciò a ricordare qualcosa. Cioè, che il giorno innanzi tutto era successo a Schodnja,[9] nella dacia di Chustov, autore di sketches, dove lo stesso Chustov aveva portato Stepa col tassí. Rammentò perfino come avevano preso il tassí vicino al Métropole, c’era anche uno, chi sa, forse un attore… con un grammofono in una valigetta. Sí, sí, tutto era successo nella dacia! Ricordò anche che i cani ululavano sentendo il grammofono. Soltanto la signora che Stepa voleva baciare restò inspiegata… lo sa il diavolo chi era… forse lavora alla radio, ma forse anche no…

Cosí la giornata precedente si schiariva a poco a poco ma ora Stepa era molto piú interessato al giorno in corso e in particolare all’apparizione nella sua camera da letto d’uno sconosciuto, per di piú provvisto di vodka e di vivande. Questo sí che sarebbe stato bello chiarire!

— Ebbene, spero che adesso lei ricordi il mio cognome.

Ma Stepa fece un sorriso confuso e allargò le braccia — Però! Scommetto che dopo la vodka lei ha bevuto del porto. Scusi, ma è una cosa da fare?!

— La pregherei… che questo resti fra di noi, — disse Stepa insinuante.

— Oh, naturalmente, naturalmente! Però per Chustov s’intende, non posso garantire.

— Perché, lei conosce Chustov?

— Ieri, nel suo ufficio, ho visto di sfuggita quell’individuo, ma è bastata una sola occhiata fugace alla sua faccia per capire che è un mascalzone, un intrigante, un conformista e un leccapiedi.

«Giustissimo!», pensò Stepa colpito da questa giusta esatta e laconica definizione di Chustov. Sí, la giornata di ieri si ricuciva dai vari pezzetti, eppure un senso di inquietudine non abbandonava il direttore del Varietà. Il fatto è che in quella giornata era spalancato un enorme buco nero. Quello sconosciuto col berretto, pensate quel che volete, Stepa il giorno prima non l’aveva proprio visto nel suo ufficio.

— Sono il professore di magia nera Woland, — disse con gravità il visitatore, vedendo le difficoltà in cui Stepa si dibatteva, e raccontò tutto per ordine.

Il giorno prima era giunto a Mosca dall’estero e si era presentato subito da Stepa per proporgli una tournée al Varietà. Stepa aveva telefonato alla Commissione regionale moscovita per gli spettacoli, aveva avuto il benestare (Stepa impallidí e batté le palpebre) e aveva firmato col professor Woland un contratto per sette rappresentazioni (Stepa spalancò la bocca), erano rimasti intesi che il professore sarebbe venuto a trovarlo stamane alle dieci per mettere a punto i particolari… Cosí Woland era venuto. Al suo arrivo, lo aveva accolto la domestica Grunja la quale gli aveva spiegato che era appena venuta anche lei, che lei veniva solo a ore, che Berlioz non era in casa, e che se il visitatore voleva vedere Stepan Bogdanovič, andasse pure in camera da letto: Stepan Bogdanovič dormiva cosí sodo che lei a svegliarlo non ce l’avrebbe fatta. Quando aveva visto lo stato di Stepan Bogdanovič, il mago aveva mandato Grunja nella piú vicina rosticceria a prendere la vodka e qualcosa da mangiare, quindi in farmacia per il ghiaccio e…

— Mi permetta allora di regolare il conto, — piagnucolò Stepa, annientato, e si mise a cercare il portafoglio.

— Ma non dica sciocchezze! — esclamò l’artista, e non ne volle piú sentire parlare.

E cosí la vodka e lo spuntino erano diventati comprensibili, eppure Stepa faceva pena a vedersi: non ricordava proprio nulla del contratto, e, lo avessero anche ammazzato, avrebbe giurato di non aver visto quel Woland alla vigilia. Sí, Chustov c’era stato, ma non Woland.

— Posso vedere il contratto? — chiese Stepa sottovoce.

— Prego, prego…

Stepa guardò il documento e impietrí. Tutto era a posto: per prima cosa, la sua firma autografa baldanzosa… a margine, la scritta sghemba, di pugno del direttore finanziario Rimskij, con l’autorizzazione a versare a Woland un anticipo di diecimila rubli a valere sui trentacinquemila allo stesso spettanti per sette rappresentazioni. E non basta: c’era anche la ricevuta di Woland per i diecimila rubli da lui già riscossi!

«Ma che succede?!», pensò il povero Stepa, e la testa gli girò. Cominciavano infauste amnesie? Comunque, dopo aver preso visione del contratto, qualsiasi ulteriore espressione di sbigottimento sarebbe stata semplicemente indecorosa. Stepa chiese al visitatore il permesso di allontanarsi un minuto, e cosí com’era, in calzini, corse in anticamera verso il telefono. Strada facendo, gridò in direzione della cucina: — Grunja!

Ma nessuno rispose. Diede un’occhiata alla porta dello studio di Berlioz, vicino all’anticamera, e rimase di stucco, come si suol dire. Sulla maniglia vide uno spago con un enorme sigillo di ceralacca.

«Caspita! — esclamò qualcuno nel cervello di Stepa. Ci mancava anche questa!» E qui i suoi pensieri corsero ormai lungo un doppio binario, ma, come sempre succede in caso di catastrofe, in una sola direzione, e il diavolo sa quale. È difficile perfino descrivere il guazzabuglio che regnava nella testa di Stepa. C’entrava anche tutta quella diavoleria del berretto nero, della vodka gelata e del contratto incredibile… E oltre tutto questo, come se non bastasse, il sigillo sulla porta! Cioè, dite a chi volete che Berlioz ha combinato un pasticcio, e non vi crederà, non vi crederà neanche ad ammazzarlo! Eppure, ecco lí il sigillo! Giaaaà…

Poi formicolarono nel cervello di Stepa certi sgradevolissimi pensieruzzi a proposito di un articolo che, quasi a farlo apposta, egli aveva consegnato a Michail Aleksandrovič poco tempo prima per la pubblicazione sulla sua rivista. Un articolo cretino, sia detto fra di noi! Robetta, e in tasca ne veniva ben poco…

Subito dopo il ricordo dell’articolo gli venne quello di una conversazione ambigua che, rammentava, si era svolta la sera del ventiquattro aprile in sala da pranzo, mentre stava cenando con Michail Aleksandrovič. Cioè, ambigua nel vero senso della parola chiamarla non si poteva (Stepa non l’avrebbe mai accettata, una conversazione cosí), però si era parlato di certe cose superflue. Si sarebbe proprio potuto fare a meno, signori miei, di avviare quella conversazione. Prima dei sigilli, la si poteva considerare, senza alcun dubbio, una cosettina da niente, ma dopo i sigilli…

«Oh, Berlioz, Berlioz! — turbinava nel cervello di Stepa. Non mi entra in testa!»

Tuttavia non c’era tempo per affliggersi a lungo, e Stepa formò il numero dell’ufficio di Rimskij, il direttore finanziario del Varietà. La posizione di Stepa era delicata: anzitutto lo straniero poteva offendersi perché egli procedeva a un controllo dopo aver visto il contratto, e poi parlare col direttore finanziario era estremamente difficile. Infatti, non gli poteva mica chiedere: «Mi dica un po’, ieri non ho forse concluso un contratto di trentacinquemila rubli con un professore di magia nera?» Non si possono fare domande del genere!

— Sí! — udí nel ricevitore la voce brusca e sgradevole di Rimskij.

— Buon giorno, Grigorij Danilovič, — disse Stepa sottovoce. — Parla Lichodeev. Ecco di che si tratta… hm… hm… C’è qui da me quel… eh… l’artista Woland… Bene… le volevo chiedere, che si fa per questa sera?

— Ah, quello della magia nera? — rispose Rimskij. — I manifesti sono quasi pronti.

— Aha… — disse Stepa con voce debole, — be’, ci vediamo…

— Lei viene tra poco? — chiese Rimskij.

— Tra mezz’ora, — rispose Stepa e, appeso il ricevitore, si strinse tra le mani la testa che scottava. Che brutta storia era quella! Che cos’era successo alla sua memoria, signori miei, eh?

Però non stava bene trattenersi oltre in anticamera, e Stepa stabilí subito un piano: nascondere con ogni mezzo la sua incredibile smemoratezza, e adesso, per prima cosa, farsi dire con l’astuzia dallo straniero che cosa intendeva mostrare quella sera al Teatro di Varietà di cui Stepa era il direttore.

Stepa volse le spalle all’apparecchio e, nello specchio dell’anticamera che la pigra Grunja non aveva spolverato da tempo, vide distintamente uno strano tipo, lungo come una stanga, con gli occhiali a molla (oh, se ci fosse stato Ivan Nikolaevič! L’avrebbe riconosciuto subito!) L’immagine balenò nello specchio e scomparve. Allarmato, Stepa scrutò piú a fondo l’anticamera, e barcollò una seconda volta perché, riflesso nello specchio, passò un robusto gatto nero, e anch’esso scomparve.

Il cuore di Stepa smise di battere ed egli vacillò.

«Che succede? — pensò. — Non starò mica diventando matto? Da dove vengono queste immagini?!» Scrutò l’anticamera e gridò spaventato:

— Grunja! Cos’è quel gatto che gira per casa?! Di dove viene? E c’è qualcun altro ancora!

— Non si preoccupi, Stepan Bogdanovič, — rispose una voce; non quella di Grunja però, bensí quella del visitatore in camera da letto. — Quel gatto è mio. Non sia nervoso. Grunja non c’è, l’ho mandata a Voronez. Si lamentava che lei le aveva soffiato le ferie.

Queste parole erano talmente inattese e assurde che Stepa pensò di aver capito male. Totalmente confuso, ritornò di trotto in camera da letto, e sulla soglia rimase di sasso. I suoi capelli si mossero, e la fronte gli si imperlò di sudore.

Nella camera da letto, l’ospite non era piú solo: nella seconda poltrona stava seduto quel tipo che gli era parso di intravedere in anticamera. Adesso lo si vedeva distintamente: baffi a penna, un vetro degli occhiali luccicava, l’altro non c’era. Ma scoprí cose anche peggiori: sul pouf della gioielliera stava sdraiato in una posa disinvolta un terzo essere, e precisamente un gatto nero di dimensioni paurose, con un bicchierino di vodka in una zampa, e, nell’altra, una forchetta, su cui aveva già infilato un fungo marinato.

La luce già debole della camera da letto si offuscò ancora di piú negli occhi di Stepa. «Ah, è cosí che si impazzisce…», pensò, e si afferrò allo stipite della porta.

— Vedo che lei è un poco sorpreso, carissimo Stepan Bogdanovič, — si rivolse Woland a Stepa, che batteva i denti. — Ma non è proprio il caso di stupirsi. Questo è il mio seguito.

In quel mentre il gatto bevve la vodka, e la mano di Stepa scivolò lungo lo stipite.

— Anche il seguito ha bisogno di spazio, — continuava Woland, — perciò uno di noi in questo appartamento è di troppo. A me pare che questa persona di troppo sia proprio lei.

— Loro, proprio loro, — canticchiò il lungo personaggio a quadretti con voce da caprone, parlando di Stepa al plurale. — Del resto, in questi ultimi tempi hanno fatto porcherie spaventose. Si sbronzano, allacciano relazioni con donne approfittando della propria posizione, non fanno un accidente, e non fanno niente per il semplice motivo che non capiscono niente del lavoro che è stato loro affidato. Dànno ad intendere lucciole per lanterne ai loro superiori!

— Usano senza una ragione le automobili dell’ufficio, spiattellò il gatto, masticando un fungo.

A questo punto nell’appartamento successe il quarto e ultimo avvenimento strano, mentre Stepa, che ormai era scivolato fino a terra, graffiava lo stipite con mano svigorita.

Proprio dal vetro della specchiera uscí un tale, piccolo, ma straordinariamente largo di spalle, con un tubino in testa, e una zanna che spuntava dalla bocca, rendendo ancora piú orrendo un ceffo che era già oltremodo repellente. Come se non bastasse, aveva i capelli di un rosso acceso.

— Io, — entrò nella conversazione il nuovo venuto, non capisco proprio come abbia fatto a diventare direttore — il rosso parlava con voce sempre piú nasale, — lui è direttore come io sono vescovo — Tu non assomigli a un vescovo, Azazello, — osservò il gatto, riempiendosi il piatto di würsteln.

— È quello che sto dicendo, — ribadí il rosso con la sua voce nasale voltandosi verso Woland, aggiunse con deferenza: — Mi permette, Messere, di mandarlo al diavolo, lontano da Mosca?

— Pscttt! — ringhiò all’improvviso il gatto, rizzando il pelo.

La camera da letto vorticò intorno a Stepa; egli urtò con la testa lo stipite della porta, e pensò, mentre perdeva conoscenza: «Sto morendo…»

Ma non morí. Socchiudendo gli occhi, si accorse di sedere su delle pietre. Intorno a sé udiva un rumore. Quando aprí ben bene gli occhi, capí che era il mare, e che, anzi un’onda fluttuava proprio ai suoi piedi, e che, insomma, stava seduto all’estremità di un molo, e sopra di lui c’era un azzurro cielo rilucente; e dietro, una bianca città adagiata sui monti.

Non sapendo come si reagisce in casi simili, Stepa si erse sulle gambe tremanti e, lungo il molo, si diresse alla volta della spiaggia.

Sul molo, un tale fumava e sputava in mare. Guardò Stepa con occhi attoniti e smise di sputare.

Allora Stepa la fece bella: si inginocchiò davanti al fumatore sconosciuto e disse:

— La supplico, mi dica, che città è questa?

— Però! — disse con indifferenza il fumatore.

— Non sono ubriaco, — rispose rauco Stepa, — mi è successo qualcosa… sono ammalato… Dove sono? Che città è questa?

— Be’, Jalta…

Stepa sospirò lievemente, si rovesciò su un fianco, batté la testa sui caldi massi del molo. Aveva perso i sensi.




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