Non è difficile indovinare che il grassone dalla faccia purpurea sistemato nella stanza 119 della clinica era Nikanor Ivanovič Bosoj.
Dal professor Stravinskij però non era capitato subito ma solo dopo essere stato in un altro luogo. Di quest’altro luogo a Nikanor Ivanovič rimase poco nella memoria. Ricordava solo una scrivania, un armadio e un divano.
Lí con Nikanor Ivanovič, che aveva la vista torbida per l’afflusso di sangue e l’eccitazione psichica, fu avviata una conversazione, ma la conversazione riuscí alquanto strana confusa, anzi non riuscí affatto.
La prima domanda che gli fu posta era:
— Lei è Nikanor Ivanovič Bosoj, presidente del Comitato della casa n. 302 bis sulla Sadovaja?
Con una risata spaventosa, Nikanor Ivanovič rispose testualmente:
— Sono Nikanor, naturalmente, proprio Nikanor! Ma che razza di presidente sono mai io?
— Come sarebbe a dire? — chiesero, socchiudendo gli occhi.
— Sarebbe a dire, — rispose, — che se fossi presidente avrei dovuto capire subito che lui era il maligno! Se no, bella roba! Gli occhiali a molla erano rotti, lui era tutto stracciato, come poteva essere l’interprete di uno straniero?
— Di chi sta parlando? — gli chiesero.
— Korov’ev! — esclamò Nikanor Ivanovič. — Si è installato nell’appartamento n. 50! Scrivete: Korov’ev! Bisogna subito arrestarlo! Scrivete: interno 6. È lí.
— Dove ha preso la valuta straniera? — chiesero cordialmente a Nikanor Ivanovič.
— Dio è verità, Dio è sapienza, — disse Nikanor Ivanovič, — lui vede tutto, e ben mi sta. Non ho mai avuto in mano della valuta straniera, non sospettavo neanche che cosa fosse! Il signore mi punisce dei miei peccati, — continuava Nikanor Ivanovič con sentimento, ora sbottonando ora abbottonando la camicia, ora facendosi il segno della croce, — sí, prendevo le bustarelle! Le prendevo, ma solo coi nostri soldi sovietici! Alloggiavo la gente a pagamento, non lo nego, è capitato. Bravo anche il nostro segretario Proleznev, bravo anche lui! Ma sí, diciamolo apertamente, tutti ladri nell’amministrazione della casa… Ma la valuta straniera non l’ho mai presa!
Alla preghiera di non fare lo stupido e di raccontare invece come avessero fatto i dollari a finire nel condotto di aerazione, Nikanor Ivanovič si mise in ginocchio e cominciò a oscillare, spalancando la bocca, come se avesse voluto inghiottire un’assicella del parquet.
— Volete? — borbottò. — Mangerò la terra, ma non li ho avuti. Quanto a Korov’ev, è il diavolo!
Ogni pazienza ha i suoi limiti, e dietro la scrivania avevano già alzato la voce e avevano fatto capire a Nikanor Ivanovič che era ora di non parlare piú turco.
A questo punto la stanza col divano fu invasa da un urlo atroce di Nikanor Ivanovič che era scattato in piedi:
— Eccolo! Eccolo dietro l’armadio! Sghignazza! I suoi occhiali a molla!… Pigliatelo! Benedite la casa!
Il sangue defluí dal volto di Nikanor Ivanovič. Tremando, faceva segni della croce nell’aria, si gettava verso la porta e tornava indietro, poi cominciò a cantare una preghiera, e infine sragionò del tutto.
Divenne lampante che Nikanor Ivanovič non era atto a sostenere alcuna conversazione. Fu condotto via e sistemato in una stanza isolata, dove si calmò un po’ e si limitò a pregare e a singhiozzare.
Andarono naturalmente sulla Sadovaja e visitarono l’appartamento n. 50. Ma di Korov’ev non trovarono traccia, e nessuno in casa lo conosceva o lo aveva visto. L’appartamento occupato dal defunto Berlioz, nonché da Lichodeev partito per Jalta, era vuoto, e nello studio penzolavano pacifici sugli armadi i sigilli intatti. Lasciarono quindi la Sadovaja, e in loro compagnia, confuso e disfatto, se ne andò Proleznev, il segretario dell’amministrazione della casa.
Alla sera Nikanor Ivanovič fu portato alla clinica di Stravinskij. Là si comportò con tanta irrequietezza che dovettero fargli un’iniezione secondo la ricetta del primario e solo dopo mezzanotte Nikanor Ivanovič si addormentò nella stanza 119, emettendo a intervalli pesanti urli di sofferenza.
Ma piú passava il tempo, piú il suo sonno si faceva tranquillo. Cessò di rivoltarsi e di gemere, il respiro gli si fece profondo e regolare, e lo lasciarono solo.
Allora Nikanor Ivanovič fu visitato da un sogno, alla cui base stavano certamente le vicissitudini della giornata. Prima Nikanor Ivanovič vide degli uomini con trombe d’oro in mano che lo conducevano, e con grande solennità verso una grande porta rivestita di pelle lucida. Presso la porta gli accompagnatori suonarono una fanfara in suo onore, poi una rimbombante voce di basso venuta dal cielo disse allegramente:
— Benvenuto, Nikanor Ivanovič, consegni la valuta straniera.
Con estrema sorpresa, Nikanor Ivanovič vide sopra di sé un altoparlante nero.
Poi, chi sa perché, si ritrovò in una sala di teatro, dove, sul soffitto dorato, rilucevano lampadari di cristallo e alle pareti, delle appliques. Tutto era a posto, come si addice a un teatro di piccole dimensioni ma molto fastoso. C’era un palcoscenico, nascosto da un sipario di velluto, il cui fondo di color rosso era cosparso, come un cielo di stelle, di disegni ingranditi di monete d’oro, c’era la buca del suggeritore e perfino il pubblico.
Nikanor Ivanovič fu sorpreso dal fatto che tutto il pubblico fosse di un solo sesso, quello maschile, e che tutti avessero la barba. Stupiva inoltre il fatto che la platea non avesse sedie, e tutto il pubblico fosse seduto sul pavimento, lucidato alla perfezione e scivoloso.
Imbarazzato in quella nuova e numerosa compagnia, Nikanor Ivanovič, dopo qualche esitazione, seguí l’esempio generale e si sedette alla turca sul parquet, trovandosi un posticino tra un omaccione dalla barba rossiccia e un altro signore pallido e setoloso. Nessuno dei presenti rivolse attenzione al nuovo spettatore.
Si udí il dolce trillo di una campanella, nella sala la luce si spense, il sipario si alzò e si vide il palcoscenico illuminato, con una poltrona e un tavolino sul quale c’era una campanella d’oro, e con lo sfondo di compatto velluto nero.
Dalle quinte uscí un attore in smoking, rasato di fresco e pettinato con la scriminatura, giovane e dai lineamenti assai gradevoli. Il pubblico nella sala si animò, e tutti si voltarono verso il palcoscenico. L’attore si avvicinò alla buca del suggeritore e si fregò le mani.
— Siete ancora qui? — chiese con morbida voce baritonale e sorrise alla sala.
— Siamo qui, — gli risposero in coro tenori e bassi.
— Hmmm… — disse pensieroso l’attore. — Come fate a non essere stufi, non riesco a capirlo! Tutta la gente normale se ne va a spasso per le vie, si gode il sole e il tepore primaverile, e voi ve ne state qui in una sala afosa. Possibile che il programma sia cosí interessante? Del resto, ognuno ha i suoi gusti, — concluse filosoficamente l’attore.
Poi cambiò il tono e il timbro di voce, e dichiarò con sonorità e allegria:
— Dunque il numero successivo del nostro programma è Nikanor Ivanovič Bosoj, presidente del Comitato di casa e gerente di una mensa dietetica. Prego, Nikanor Ivanovič!
Un applauso unanime rispose all’attore. Sorpreso, Nikanor Ivanovič sbarrò gli occhi, mentre il presentatore, proteggendosi con una mano dalle luci della ribalta, lo trovò con lo sguardo tra coloro che erano seduti e con un affabile segno d’un dito lo invitò sul palcoscenico. E Nikanor Ivanovič, senza sapere come, vi si ritrovò. I suoi occhi furono colpiti dal basso e di fronte dalla luce di lampadine variopinte, e la sala col pubblico sprofondò immediatamente nell’oscurità.
— Su, Nikanor Ivanovič, dia il buon esempio, — disse il giovane attore con fare cordiale, — consegni la valuta.
Si fece silenzio. Nikanor Ivanovič riprese fiato e disse sommesso:
— Giuro su dio che…
Ma non fece in tempo a pronunciare queste parole che la sala intera scoppiò in grida d’indignazione. Nikanor Ivanovič si confuse e tacque.
— Se ho capito, — disse l’uomo che dirigeva il programma, — lei voleva giurare su dio che non ha valuta? — e guardò Nikanor Ivanovič con simpatia.
— Proprio cosí, non ne ho, — rispose Nikanor Ivanovič.
— Bene, — rispose l’attore, — ma… scusi l’indiscrezione, da dove sono saltati fuori i quattrocento dollari scoperti nel gabinetto dell’appartamento abitato esclusivamente da lei e da sua moglie?
— Sono magici! — disse qualcuno con tono chiaramente ironico nel buio della sala.
— Proprio cosí, sono magici, — rispose timido Nikanor Ivanovič, rivolto non si sa bene a chi, se all’attore o alla sala buia, e chiarí: — Lo spirito maligno, l’interprete a quadretti me li ha rifilati.
Di nuovo la sala urlò con indignazione. Quando ritornò il silenzio, l’attore disse:
— Ecco quali favole di La Fontaine mi tocca sentire! Hanno rifilato quattrocento dollari! Voi qui siete tutti trafficanti di valuta, e mi rivolgo a voi come specialisti: è concepibile una cosa simile?
— Noi non siamo trafficanti di valuta, — echeggiarono singole voci offese nel teatro, — ma non è concepibile!
— Sono completamente del vostro parere, — disse con risolutezza l’attore, — e vi chiedo: che cosa si può rifilare?
— Un trovatello! — gridò qualcuno in sala.
— Giustissimo, — confermò il presentatore, — un trovatello, una lettera anonima, un proclama, una bomba a orologeria, chissà che cos’altro ancora, ma quattrocento dollari non li rifilerà nessuno, perché un idiota simile non esiste al mondo, — e rivolgendosi a Nikanor Ivanovič l’attore aggiunse con voce accorata e piena di rimprovero: — Lei mi ha rattristato, Nikanor Ivanovič, io facevo affidamento su di lei. Pazienza, il nostro numero non è riuscito.
Nella sala si udirono fischi all’indirizzo di Nikanor Ivanovič.
— È un trafficante di valuta, — gridavano nella sala, — per colpa di gente simile soffriamo anche noi che siamo innocenti!
— Non lo sgridate, — disse con dolcezza il presentatore — si pentirà — . E volgendo verso Nikanor Ivanovič gli occhi azzurri pieni di lacrime, aggiunse: — Su, Nikanor Ivanovič, torni al suo posto.
Poi l’attore suonò la campanella e dichiarò con voce forte:
— Intervallo, farabutti!
Profondamente scosso, Nikanor Ivanovič che, senza aspettarselo, aveva preso parte a un programma teatrale, si ritrovò al suo posto seduto in terra. Qui sognò che la sala s’immergeva in un buio completo, e che sulle pareti s’imprimevano rosse parole di fuoco: «Consegnate la valuta!» Poi si rialzò il sipario e il presentatore invitò:
— S’accomodi sul palcoscenico, Sergej Gerardovič Dunčil’ era un uomo sulla cinquantina, di bell’aspetto, ma molto trascurato.
— Sergej Gerardovič, — gli si rivolse il presentatore, — è già un mese e mezzo che lei sta seduto qui, rifiutando ostinatamente di consegnare la valuta che le è rimasta, valuta di cui il paese ha bisogno, mentre a lei non serve a niente. Eppure lei s’incaponisce. Lei è una persona colta, capisce tutto questo alla perfezione, eppure non mi vuole venire incontro.
— Purtroppo non posso fare niente in quanto non ho piú valuta, — rispose tranquillo Dunčil’.
— Allora, non avrebbe almeno dei brillanti? — chiese l’attore.
— Neppure brillanti.
L’attore chinò la testa e rimase pensieroso, poi batté le mani. Dalle quinte uscí sul palcoscenico una signora di mezza età, vestita alla moda, cioè con un cappotto senza colletto e un minuscolo cappellino. La signora aveva un’aria allarmata, mentre Dunčil’ la guardava senza battere ciglio.
— Chi è questa signora? — chiese il direttore del programma a Dunčil’.
— Mia moglie, — rispose dignitoso Dunčil’, e guardò il lungo collo della signora con un certo ribrezzo.
— L’abbiamo disturbata, madame Dunčil’, — si rivolse il presentatore alla signora, — per il seguente motivo: volevamo chiederle se suo marito ha ancora della valuta.
— Ha consegnato tutto quella volta, — rispose emozionata madame Dunčil’.
— Bene, — disse l’attore, — se è cosí, va bene. Se ha consegnato tutto, dobbiamo immediatamente separarci da Sergej Gerardovič, non c’è niente da fare! Se lo desidera, può lasciare il teatro, Sergej Gerardovič, — e l’attore fece un gesto maestoso.
Dunčil’ si voltò tranquillo e dignitoso, e si diresse verso le quinte.
— Un momento! — lo fermò il presentatore, — mi permetta, a mo’ di saluto, di farle vedere ancora un numero del nostro programma, — e batté di nuovo le mani.
Il fondale nero si scostò, e sul palcoscenico apparve una giovane e bellissima donna vestita da sera, che teneva in mano un piccolo vassoio d’oro su cui giaceva uno spesso involto legato con un nastrino, e una collana di brillanti che lanciava in ogni direzione bagliori azzurri, gialli e rossi.
Dunčil’ arretrò di un passo, e il suo volto si coprí di pallore. La sala si fece silenziosa.
— Diciottomila dollari e una collana del valore di quarantamila rubli-oro, — dichiarò solennemente l’attore — erano depositati da Sergej Gerardovič nella città di Char’kov, nell’appartamento della sua amante Ida Gerkulanovna Vors, che abbiamo il piacere di vedere qui davanti a noi, e che ha avuto la gentilezza di aiutarci a scoprire questi tesori inestimabili, sebbene inutilizzabili nelle mani di un privato cittadino. Molte grazie, Ida Gerkulanovna.
La bella, sorridendo, fece scintillare i denti, e le sue folte ciglia ebbero un fremito.
— E sotto la sua maschera piena di dignità, — l’attore si rivolse a Dunčil’, — si nasconde un avido ragno e un furfante e un impostore di tre cotte. Lei ha rotto le scatole a noi tutti per un mese e mezzo con la sua ottusa ostinazione. Adesso vada a casa, e l’inferno che le farà passare la sua consorte sia la sua punizione.
Dunčil’ barcollò e sembrava che stesse per cadere, ma mani compassionevoli lo afferrarono. A questo punto calò il sipario e nascose tutti coloro che erano sul palcoscenico.
Applausi frenetici scossero la sala al punto che a Nikanor Ivanovič sembrò che nei lampadari ballassero le luci. E quando il sipario si alzò, sul palcoscenico non c’era piú nessuno all’infuori dell’attore. Egli riscosse una seconda salva di applausi, s’inchinò e disse:
— Nella persona di questo Dunčil’, avete visto nel nostro programma un tipico somaro. Avevo pur avuto il piacere di dire ieri che è assurdo tenere nascosta della valuta. Nessuno può utilizzarla in nessun caso, ve lo assicuro. Prendiamo per esempio, questo Dunčil’. Ha un ottimo stipendio e non gli manca nulla. Ha un bellissimo appartamento, una moglie e una splendida amante. Ebbene no! Invece di vivere tranquillo e pacifico, senza grane, dopo aver consegnato valuta straniera e pietre preziose, questo avido imbecille si è fatto smascherare in pubblico, e per coronare il tutto si è procurato grossi guai in famiglia. Dunque, chi consegna? Non ci sono volontari? In tal caso, passiamo al numero successivo del nostro programma: il celebre attore drammatico Savva Potapovič Kurolesov, appositamente invitato, reciterà brani dal Cavaliere avaro del poeta Puskin.
L’annunciato Kurolesov non tardò a comparire sul palcoscenico. Era un uomo massiccio e carnoso, con la testa rasata, in frac e cravatta bianca. Senza alcun preambolo egli fece il volto cupo, aggrottò le ciglia e disse con voce innaturale, guardando la campanella d’oro:
Come un giovane bellimbusto aspetta
Un convegno con donna scaltra e dissoluta…
E Kurolesov raccontò di sé molte cose sgradevoli. Nikanor Ivanovič sentí confessare che una povera vedova lo implorava, inginocchiata davanti a lui sotto la pioggia, ma senza commuovere l’arido cuore dell’attore.
Prima di questo sogno, Nikanor Ivanovič non conosceva minimamente le opere del poeta Puskin, ma conosceva benissimo l’uomo e ogni giorno pronunciava piú volte frasi come: «E l’affitto, lo paga Puskin?» oppure «La lampadina della scala, l’avrà svitata Puskin!», «La nafta, è Puskin che la compera?»…
Adesso, fatta conoscenza con una delle sue opere, Nikanor Ivanovič divenne triste, si immaginò la donna in ginocchio, con gli orfani, sotto la pioggia, e pensò involontariamente: «Un bel tipo, però, quel Kurolesov!»
Quello frattanto, alzando sempre piú la voce, continuava a confessare e fece perdere del tutto il filo a Nikanor Ivanovič, perché a un tratto cominciò a rivolgersi a qualcuno che sul palcoscenico non c’era, rispondeva a se stesso a nome di quell’assente, chiamando se stesso a volte signore, a volte barone, a volte padre, a volte figlio, ogni tanto usando il tu, ogni tanto il lei.
Nikanor Ivanovič capí una cosa sola: che l’attore moriva di una brutta morte, gridando: «Le chiavi, le chiavi!» dopo di che cadeva in terra rantolando e strappandosi con precauzione la cravatta.
Dopo essere morto, Kurolesov si alzò, si scosse la polvere dai pantaloni del frac, salutò con un sorriso falso, e si allontanò accompagnato da rari applausi. Il presentatore disse:
— Abbiamo sentito, nella meravigliosa interpretazione di Savva Potapovič, Il cavaliere avaro. Quel cavaliere sperava che vispe ninfe sarebbero corse da lui e che sarebbero avvenute molte altre cose piacevoli dello stesso tipo. Invece, come avete visto, niente di tutto questo è avvenuto nessuna ninfa è corsa da lui, le muse non gli hanno dato il loro tributo, ed egli non ha innalzato alcun palazzo, anzi ha fatto una bruttissima fine, è crepato per un colpo sopra i suoi forzieri pieni di valuta straniera e di pietre preziose. Vi avverto che anche a voi capiterà qualcosa di simile, se non di peggio, se non consegnerete la valuta!
Fosse l’arte poetica di Puskin ad avere tanta efficacia oppure il prosaico discorso del presentatore, fatto sta che dalla sala si udí a un tratto salire una voce timida:
— Consegno la valuta.
— Si accomodi sul palcoscenico, — invitò urbanamente il presentatore fissando la sala buia.
Sul palcoscenico apparve un signore biondo di bassa statura che, a giudicare dal volto, non si radeva da tre settimane.
— Scusi, come si chiama? — s’informò il presentatore.
— Nikolaj Kanavkin, — rispose timido il nuovo venuto.
— Ah! Piacere, signor Kanavkin. Dunque?…
— Consegno, — disse sottovoce Kanavkin.
— Quanto?
— Mille dollari e venti pezzi d’oro da dieci rubli.
— Bravo! È tutto quello che ha?
Il direttore del programma fissò negli occhi Kanavkin, e a Nikanor Ivanovič sembrò persino che da quegli occhi sprizzassero raggi che trafiggevano Kanavkin come raggi Roentgen. La sala tratteneva il respiro.
— Ci credo! — esclamò infine l’attore e spense il suo sguardo, — ci credo! Questi occhi non mentono! Quante volte ve l’ho detto: il vostro errore fondamentale sta nel sottovalutare l’importanza degli occhi umani. Capite, la lingua può nascondere la verità, ma gli occhi mai! Vi rivolgono una domanda inaspettata, voi, senza battere ciglio, in un secondo, vi padroneggiate e sapete che cosa bisogna dire per nascondere la verità, e lo dite nel modo piú convincente, non un muscolo del vostro volto si muove, ma, ahimè, la verità smossa dalla domanda balza per un istante dal fondo dell’anima negli occhi, e tutto è finito! Essa è stata notata, e voi ci siete cascati!
Dopo aver pronunciato con molto ardore questo convincente discorso, l’attore domandò cordialmente a Kanavkin:
— Dove li ha nascosti?
— Da mia zia, la Porochovnikova, sulla Prečistenka.
— Ah! E… aspetti… da Klavdija Il’inišna, vero?
— Sí.
— Ah sí, sí, sí, sí. Una piccola palazzina? Con un giardinetto di fronte? Sí, certo, la conosco, la conosco benissimo! Dove li ha ficcati?
— In cantina, in una scatola di cioccolatini…
L’attore alzò le braccia al cielo.
— Si è mai visto una cosa simile! — esclamò rattristato. Ma saranno coperti di muffa, fradici d’umidità! Come si fa ad affidare della valuta a gente cosí? Eh? Veri bambini! Parola d’onore!…
Kanavkin capiva anche troppo bene che aveva fatto una figuraccia, e reclinò la testa irsuta.
— Il denaro, — continuava l’attore, — va tenuto nella banca di stato, in ambienti appositi, asciutti e ben sorvegliati, non nella cantina della zia dove, tra l’altro, lo possono rosicchiare i topi. Davvero, si vergogni, Kanavkin! E sí che è un uomo!
Kanavkin non sapeva piú dove nascondersi, e si tormentava con un dito il risvolto della giacchetta.
— E va bene, — si addolcí l’attore, — non rivanghiamo il passato… — e aggiunse inaspettatamente: — Già, a proposito… per pigliare due piccioni con una fava… Cosí non mandiamo la macchina avanti e indietro… quella sua zia, ne ha anche lei, no?
Kanavkin, che non si aspettava assolutamente che la conversazione prendesse questa piega, sobbalzò, e nel teatro si fece silenzio.
— Ehi, Kanavkin… — disse il presentatore con tono che era di rimprovero e di affabilità, — e io che la stavo lodando! È partito bene, e a un tratto si ferma! È un assurdo, Kanavkin! Ma se ho appena parlato degli occhi! Si vede che la zia ne ha. Ma perché lei ci tormenta inutilmente? — Ne ha! — esclamò baldanzoso Kanavkin.
— Bravo! — gridò il presentatore.
— Bravo! — ululò spaventosamente la sala.
Quando fu tornato il silenzio, il presentatore si congratulò con Kanavkin, gli strinse la mano, gli propose di portarlo in macchina a casa sua in città, e ordinò a qualcuno tra le quinte di andare con la stessa macchina a prendere la zia per pregarla di intervenire nel programma del teatro femminile.
— Già, volevo chiedere, la zia non le ha detto dove nasconde i suoi? — s’informò il presentatore, offrendo amabilmente a Kanavkin una sigaretta e un fiammifero acceso. Quello, accendendo la sigaretta, sorrise con una certa aria malinconica.
— Ci credo, ci credo, — rispose l’attore con un sospiro, — quella vecchia spilorcia non solo al nipote, ma neanche al diavolo lo direbbe! Be’, cercheremo di risvegliare in lei sentimenti umani. Può darsi che non tutte le corde siano marcite nella sua animuccia di strozzina. Tante cose, Kanavkin.
Felice, Kanavkin se ne andò. L’attore s’informò se vi fossero altri presenti desiderosi di consegnare la valuta, ma in risposta ebbe solo silenzio.
— Cervelli bislacchi, parola d’onore! — disse l’attore stringendosi nelle spalle, e il sipario lo nascose.
Le lampade si spensero, per un po’ di tempo fu buio, e da lontano giungeva una nervosa voce tenorile che cantava:
Vi giacciono mucchi d’oro e mi appartengono…
Poi giunse per due volte, chi sa da dove, un sordo fragore di applausi.
— Nel teatro femminile, una signora sta consegnando, — disse inaspettatamente il barbuto vicino di Nikanor Ivanovič, e con un sospiro aggiunse: — Eh, se non fosse per le mie oche!… Io, caro mio, a Ljanozovo ho delle oche da combattimento… ho paura che senza di me crepino. È un uccello battagliero, delicato, che ha bisogno di cure… Eh, se non fosse per le oche!… Non è con Puskin che mi fanno impressione… — e sospirò di nuovo.
Poi la sala s’illuminò, e Nikanor Ivanovič sognò che da tutte le porte sbucavano cuochi con berretti bianchi e mestoli in mano. Degli aiuti-cuochi portarono in sala un bidone di minestra e un tavolino con pane nero affettato. Gli spettatori si animarono. Gli allegri cuochi guizzavano tra gli spettatori, versando la minestra in scodelle e distribuendo il pane.
— Pranzate, ragazzi! — gridavano i cuochi, — e consegnate la valuta! Perché state qui a perdere tempo? Che gusto a mandar giú questa sbobba! Andate a casa vostra, vuotate un bicchierino, ci mangiate sopra e subito vi sentite bene!
— Tu, padre, che ci stai a fare qui? — si rivolse direttamente a Nikanor Ivanovič un cuoco grasso con il collo purpureo porgendogli una scodella, dove nel liquido galleggiava solitaria una foglia di cavolo.
— Non ne ho, non ne ho! — urlò Nikanor Ivanovič con voce terribile, — lo vuoi capire che non ne ho!
— Non ne hai? — ringhiò il cuoco con minacciosa voce di basso, — non ne hai? — chiese con tenera voce femminile, — non ne hai, non ne hai! — mormorò tranquillizzante trasformandosi nell’infermiera Praskov’ja Fëdorovna.
Quella stava delicatamente scuotendo per una spalla Nikanor Ivanovič che gemeva nel sonno. Allora si dissolsero i cuochi e crollò il teatro con il sipario. Attraverso le lacrime Nikanor Ivanovič vide la sua camera nella clinica, e due uomini in camice bianco, ma non erano i disinvolti cuochi che ficcavano il naso negli affari degli altri per dare consigli, ma il dottore e la stessa Praskov’ja Fëdorovna che in mano teneva non una scodella, ma un piattino coperto di garza, con una siringa.
— Ma guardate che roba, — diceva amaramente Nikanor Ivanovič mentre gli facevano l’iniezione, — non ne ho, punto e basta. Gliela dia Puskin, la valuta. Non ne ho!
— Non ne ha, non ne ha, — lo calmava la buona Praskov’ja Fëdorovna, — se non ne ha, non se ne parli piú.
Nikanor Ivanovič si sentí meglio dopo l’iniezione, e si addormentò senza piú sognare.
Ma a causa delle sue grida, l’irrequietezza si trasmise alla stanza 120, il cui ricoverato si svegliò e cominciò a cercare la propria testa; nella 118, il Maestro sconosciuto cominciò ad agitarsi e a torcersi le mani in un accesso di angoscia, mentre guardava la luna e ricordava l’ultima amara notte autunnale della sua vita, la striscia di luce sotto la porta dello scantinato e i capelli disfatti.
Attraverso il balcone, l’inquietudine passò dalla 118 alla stanza di Ivan, ed egli si svegliò e cominciò a piangere.
Ma il medico calmò presto tutti gli irrequieti malati di mente ed essi si addormentarono. L’ultimo ad assopirsi fu Ivan, quando già albeggiava sul fiume. Dopo i medicinali che avevano inebriato il suo corpo, la calma lo avvolse come un’ondata e lo ricoprí. Il suo corpo si alleggerí, e sul suo capo come una tiepida brezza soffiò la sonnolenza. Si addormentò, e l’ultima cosa che udí da sveglio fu il cinguettio antelucano degli uccelli nel bosco. Ma ben presto essi tacquero, ed egli sognò che il sole si stava già abbassando sul Calvario e il monte era circondato da un duplice cordone di truppe…