CAPITOLO VENTISETTESIMO Fine dell’appartamento n.50



Quando Margherita giunse alle ultime parole del capitolo «Cosí il quinto procuratore della Giudea Ponzio Pilato incontrò l’alba del quindici di Nisan», era giunto il mattino.

Si udiva nel cortiletto, tra i rami del salice e del tiglio, l’allegro ed eccitato cicaleccio mattutino dei passerotti.

Margherita si alzò dalla poltrona, si stiracchiò, e solo allora sentí quanto fosse indolenzito il suo corpo e che voglia avesse di dormire. E interessante notare che l’animo di Margherita era perfettamente normale. I suoi pensieri non erano confusi, non era per nulla scossa dall’aver trascorso la notte in modo straordinario. Non l’emozionava il ricordo della sua presenza al ballo di Satana, né che per un miracolo il Maestro le fosse stato restituito, che dalla cenere fosse risorto il romanzo, che tutto fosse di nuovo al proprio posto nello scantinato del vicolo, da dove era stato scacciato il delatore Aloizij Mogaryč. Insomma, la conoscenza con Woland non le aveva recato alcun nocumento spirituale Tutto era andato come se cosí dovesse andare.

Passò nella camera accanto, si assicurò che il Maestro stesse dormendo di un sonno profondo e calmo, spense l’inutile lampada da tavolo, e si distese sul piccolo divano, coperto da un vecchio lenzuolo strappato, presso la parete opposta. Un minuto dopo stava dormendo, e in quel mattino non le apparve alcun sogno. Tacevano le camere nello scantinato, taceva tutta la casetta del capomastro e il vicolo cieco era silenzioso.

Ma in quello stesso momento, cioè all’alba del sabato, un intero piano di uffici di un’organizzazione moscovita stava vegliando, e le finestre, prospicienti una grande piazza asfaltata, percorsa lentamente da apposite macchine che ronzando la ripulivano coi loro spazzoloni, brillavano con tutte le loro luci, che fendevano la luce del sole sorgente.

Tutto quel piano era impegnato nell’investigazione dell’affare Woland, e le lampade rimasero accese per tutta la notte in decine di uffici.

In realtà, la questione era chiara sin dal giorno precedente, dal venerdí, quando era stato necessario chiudere il Varietà in conseguenza della scomparsa dei suoi amministratori e di ogni sorta di scandali avvenuti durante la famosa rappresentazione di magia nera. Ma il fatto è che a quegli uffici insonni giungevano continuamente sempre nuovi dati.

Adesso, l’inchiesta relativa a quello strano affare che puzzava chiaramente di diavoleria, con l’aggiunta per di piú di trucchi ipnotici e di evidenti crimini, aveva il compito di stringere in un sol nucleo i molteplici e ingarbugliati avvenimenti successi in diversi punti di Mosca.

Il primo che ebbe l’occasione di visitare gli uffici insonni, brillanti di luci elettriche, fu Arkadij Apollonovič Semplejarov, presidente della Commissione acustica.

Nel pomeriggio del venerdí, nel suo appartamento sito in una casa presso il ponte Kamennyj, risuonò uno squillo, e una voce maschile pregò di chiamare al telefono Arkadij Apollonovič. La consorte di Arkadij Apollonovič, che aveva risposto al telefono, disse con voce cupa che Arkadij Apollonovič stava poco bene, era andato a riposare e non poteva venire all’apparecchio. Tuttavia al telefono Arkadij Apollonovič dovette venire lo stesso: alla domanda chi lo volesse, la voce aveva spiegato con molta brevità chi fosse.

— Un secondo… subito… un minuto… — balbettò la consorte del presidente della Commissione acustica, di solito molto altera, poi sfrecciò come una saetta verso la camera da letto per far alzare Arkadij Apollonovič che se ne stava coricato, pieno di pene infernali al ricordo dello spettacolo della sera prima e dello scandalo notturno che aveva accompagnato la cacciata dall’appartamento della nipote di Saratov.

Non passò un secondo, ma neppure un minuto: dopo un quarto di minuto, Arkadij Apollonovič, con una scarpa al piede sinistro e in mutande, era già al telefono e vi balbettava:

— Sí, sono io… pronto, pronto…

La consorte, dimentica in quegli istanti di tutti gli abominevoli delitti contro la fedeltà di cui il povero Arkadij Apollonovič era stato incriminato, si sporgeva col volto spaventato nel corridoio, agitando una scarpa e sussurrando:

— Mettiti la scarpa, la scarpa… ti prendi un accidente… — Al che Arkadij Apollonovič, facendo segno alla moglie col piede nudo di lasciarlo stare e lanciandole occhiate belluine, balbettava al telefono:

— Sí, sí, sí, naturalmente… capisco… vengo subito…

Arkadij Apollonovič trascorse l’intera serata in quello stesso piano dove veniva svolta l’inchiesta.

La conversazione fu penosa, sgradevolissima, poiché egli dovette riferire con la franchezza piú assoluta non solo del lurido spettacolo e della rissa nel palco, ma anche — la cosa era effettivamente necessaria — di Milica Andreevna Pokobat’ko di via Elochovskaja, della nipote di Saratov, e molte altre cose, il cui racconto procurava ad Arkadij Apollonovič tormenti inenarrabili.

E evidente che la deposizione di Arkadij Apollonovič intellettuale e colto, testimone del vergognoso spettacolo, testimone intelligente e qualificato, che descrisse alla perfezione sia il misterioso mago mascherato sia i due farabutti che fungevano da aiutanti, e che ricordava perfettamente che il cognome del mago era proprio Woland, fece fare all’inchiesta un grande passo in avanti. Confrontando poi la dichiarazione di Arkadij Apollonovič con quelle di altre persone — tra cui alcune signore infortunate dopo lo spettacolo (quella della biancheria viola, che aveva sbalordito Rimskij, e, ohimè, molte altre), e il fattorino Karpov che era stato inviato nell’appartamento n. 50 sulla Sadovaja si stabilí subito il luogo ove occorreva cercare il colpevole di tutte quelle avventure.

L’appartamento n. 50 fu visitato, e non una volta sola; non solo fu perquisito con la massima minuzia, ma furono picchiettati i muri, controllate le canne fumarie, cercati i passaggi segreti. Però tutte quelle misure non diedero alcun risultato, e durante i sopralluoghi non si scoprí mai nessuno nell’appartamento, anche se si capiva benissimo che nell’appartamento qualcuno c’era, benché tutti coloro che, per un motivo o l’altro, erano preposti al soggiorno di artisti stranieri a Mosca, affermassero nel modo piú categorico e deciso che nessun mago di nome Woland era a Mosca né vi poteva essere.

Non era stato registrato in nessun ufficio all’arrivo, non aveva presentato a nessuno il proprio passaporto o qualsiasi altro documento, contratto o accordo, e nessuno ne aveva sentito parlare! Il direttore della sezione programmi della Commissione per gli spettacoli, Kitajcev, giurava che lo scomparso Stepa Lichodeev non aveva mai sottoposto alla sua approvazione nessun programma di spettacolo di nessun Woland, né aveva mai telefonato nulla a Kitajcev a proposito dell’arrivo di quel Woland. Per cui egli, Kitajcev, non sapeva e non capiva minimamente come Stepa avesse potuto includere nella rappresentazione del Varietà tale numero. Quando poi dissero che Arkadij Apollonovič aveva veduto coi propri occhi il mago sul palcoscenico, Kitajcev si limitò ad allargare le braccia alzando gli occhi al cielo. E dagli occhi di Kitajcev si poteva vedere e affermare arditamente che egli era puro come un cristallo.

Quello stesso Prochor Petrovič, presidente della Commissione centrale per gli spettacoli…

A proposito, era ritornato nel suo vestito subito dopo che la polizia fece il suo ingresso nel suo ufficio, procurando una gioia frenetica in Anna Ričardovna e una profonda perplessità nella polizia inutilmente disturbata.

A proposito, tornato al suo posto, nel suo vestito grigio a righe, Prochor Petrovič approvò senza riserve tutte le decisioni prese dal vestito durante la sua breve assenza.

… Ebbene, questo stesso Prochor Petrovič non sapeva assolutamente niente di nessun Woland.

Si aveva qualcosa, se cosí mi è lecito dire, di completamente insensato: migliaia di spettatori, tutto il personale del Varietà, e infine Arkadij Apollonovič Semplejarov, persona coltissima, avevano visto quel mago, nonché i suoi stramaledetti assistenti, eppure non era possibile trovarlo in alcun luogo. Ma allora, permettete la domanda, era sprofondato sotto terra subito dopo la lurida rappresentazione, oppure, come affermavano certuni, non era mai venuto a Mosca? Ma se si ammette la prima ipotesi, è indubbio che, sprofondando, si era tirato dietro l’intera amministrazione del Varietà; se si ammette la seconda, non ne deriverebbe che quella medesima amministrazione dello sciagurato teatro, dopo aver combinato chi sa quali porcherie (ricordate solo la finestra spaccata dell’ufficio e il comportamento di Assodiquadri), era scomparsa da Mosca senza lasciare tracce?

Bisogna rendere giustizia a colui che era a capo dell’inchiesta. Lo scomparso Rimskij fu ritrovato con una velocità sbalorditiva. Era stato sufficiente mettere a confronto l’atteggiamento di Assodiquadri presso il posteggio dei tassí davanti al cinematografo e l’ora in cui erano successi certi fatti — ad esempio, quando era terminato lo spettacolo e quando di preciso era potuto scomparire Rimskij per telegrafare immediatamente a Leningrado. Un’ora dopo giunse la risposta (era venerdí sera): Rimskij si trovava nella camera 412 dell’albergo Astoria, al quarto piano, vicino alla camera occupata dal direttore del repertorio di uno dei teatri di Mosca allora in tournée a Leningrado, in quella camera, che, com’è noto, aveva mobili grigioazzurri ornati d’oro e un bellissimo bagno.

Trovato mentre si nascondeva nell’armadio del 412 dell’Astoria, Rimskij fu subito arrestato e interrogato a Leningrado. Dopo di che giunse a Mosca un telegramma dove si rendeva noto che il direttore finanziario non era nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, che alle domande poste non dava risposte sensate o non desiderava darne, e che chiedeva una sola cosa: che lo rinchiudessero in una cella blindata e mettessero di sentinella una guardia armata. Da Mosca con un telegramma si ordinò che Rimskij fosse portato sotto scorta nella capitale e, di conseguenza il venerdí egli partí sotto scorta col treno della sera.

Sempre il venerdí sera fu trovata la traccia di Lichodeev. In tutte le città erano stati diramati telegrammi con richieste d’informazioni, e da Jalta era arrivata la risposta che Lichodeev era stato a Jalta, ma era ripartito in aereo per Mosca.

L’unico di cui non si riuscí a trovare traccia fu Varenucha. Il celebre amministratore teatrale, noto a tutta Mosca, era scomparso senza dar segno di vita.

Nel frattempo fu necessario occuparsi anche degli avvenimenti successi in altri luoghi di Mosca, fuori del Teatro di Varietà. Si dovette risolvere lo straordinario caso degli impiegati che cantavano Celebre mare (del resto, il professor Stravinskij riuscí a riportarli alla normalità nel giro di due ore, con l’aiuto di certe iniezioni sottocutanee), quello delle persone che spacciavano ad altre persone o a enti chi sa che diavoleria in luogo di denaro, e infine quello di coloro che erano stati vittime di simili pagamenti.

È evidente che il piú sgradevole, il piú scandaloso e insolubile di questi casi era il furto della testa del defunto letterato Berlioz, avvenuto in pieno giorno nella sala del Griboedov.

Dodici persone conducevano l’inchiesta, e raccoglievano, come su un ferro da calza, le maglie maledette di quel complicato affare che dilagava per tutta Mosca.

Uno degli investigatori si recò nella clinica del professor Stravinskij e, per prima cosa, pregò che gli mostrassero l’elenco di coloro che erano stati internati nel corso degli ultimi tre giorni. Furono cosí scoperti Nikanor Ivanovič Bosoj e l’infelice presentatore al quale era stata strappata la testa. Del resto, di loro si occuparono poco. Adesso era facile stabilire che entrambi erano rimasti vittime della stessa banda capeggiata dal misterioso mago. Però Ivan Nikolaevič Bezdomnyj interessò moltissimo l’investigatore.

La porta della camera n. 117, dove abitava Ivan, si aprí la sera del venerdí, e nella stanza entrò un uomo giovane, dal volto rotondo, tranquillo, e dal fare dolce, che non sembrava affatto un investigatore, eppure era uno dei migliori di Mosca. Vide coricato sul letto un giovanotto pallido e smagrito, nei cui occhi si leggeva una totale mancanza d’interesse verso quanto avveniva intorno, occhi che, a volte, fissavano un punto lontano al di sopra dei presenti, e a volte l’intimo del giovane medesimo. L’investigatore si presentò con affabilità e disse che era passato da Ivan Nikolaevič per fare due chiacchiere a proposito degli avvenimenti successi due giorni prima agli stagni Patriaršie.

Oh, come avrebbe trionfato Ivan, se l’investigatore si fosse presentato prima, ad esempio anche solo la sera del giovedí, quando Ivan cercava con irruenza e passione di fare ascoltare il suo racconto sugli stagni Patriaršie. Adesso si avverava il suo sogno di aiutare a catturare il consulente ed egli non doveva piú correre dietro a nessuno, ma erano venuti da lui appositamente per ascoltare il suo racconto riguardante i fatti successi mercoledí sera.

Ma ohimè, Ivanuška era completamente cambiato durante il tempo trascorso dalla fine di Berlioz: era pronto a rispondere di buon grado e con cortesia a tutte le domande dell’investigatore, ma si sentiva l’apatia nel suo sguardo e nel suo tono. Il destino di Berlioz non toccava piú il poeta.

Prima dell’arrivo dell’investigatore, Ivanuška sonnecchiava, e davanti a lui passavano certe visioni. Cosí, gli appariva una città strana, incomprensibile, inesistente, con blocchi di marmo, porticati scolpiti, con tetti che scintillavano al sole, con la tetra e spietata torre Antonia, con un palazzo sulla collina occidentale, immerso quasi fino al tetto nel verde tropicale del giardino, con statue di bronzo fiammeggianti nel tramonto sopra la verzura, vedeva centurie romane corazzate marciare sotto le mura dell’antica città.

Nel dormiveglia balenava davanti a Ivan un uomo immobile in una scranna, rasato, col giallo volto spossato, un uomo con un mantello bianco foderato di rosso, che guardava con odio il rigoglioso ed estraneo giardino. Ivan vedeva pure la nuda collina gialla e i pali con le traverse vuote.

Invece gli avvenimenti agli stagni Patriaršie non interessavano piú il poeta Ivan Bezdomnyj.

— Mi dica, Ivan Nikolaevič, lei era lontano dal tornello quando Berlioz finí sotto il tram?

Chi sa perché, un sorriso indifferente, quasi impercettibile, sfiorò le labbra di Ivan, che rispose:

— Io ero lontano.

— E quel tipo vestito a quadretti era vicinissimo al tornello?

— No, sedeva su una panchina poco distante.

— Lei ricorda bene che non si avvicinò al tornello nel momento in cui Berlioz scivolò?

— Ricordo. Non si avvicinò. Era sdraiato sulla panchina.

Queste furono le ultime domande dell’investigatore.

Dopo, egli si alzò, tese la mano a Ivanuška, gli augurò di guarire in fretta ed espresse la speranza di poter presto leggere altri suoi versi.

— No, — rispose sottovoce Ivan, — non scriverò piú poesie.

L’investigatore fece un sorriso cortese e si permise di esprimere la convinzione che il poeta era attualmente in uno stato forse un po’ depressivo, ma che questo sarebbe passato presto.

— No, — replicò Ivan guardando non l’investigatore ma, in lontananza, il cielo che si spegneva, — non mi passerà mai. I versi che scrivevo erano brutti, e adesso l’ho capito.

L’investigatore lasciò Ivanuška che gli aveva fornito importantissimi dati. Risalendo il filo degli avvenimenti dalla fine al principio, si era finalmente riusciti ad arrivare alla fonte da cui avevano preso origine tutti gli avvenimenti. L’investigatore non dubitava che questi fossero cominciati con l’uccisione agli stagni Patriaršie. Naturalmente, né Ivanuška, né quel tipo col vestito a quadretti avevano spinto sotto il tram l’infelice presidente del MASSOLIT, cioè nessuno, in senso materiale, aveva causato la sua caduta sotto le ruote. Ma l’investigatore era convinto che Berlioz si fosse buttato sotto il tram (o vi fosse caduto) sotto l’influenza dell’ipnosi.

Sí, dati ce n’erano già molti, e si sapeva già chi pescare. Ma il fatto era che non si riusciva assolutamente a prendere nessuno. Nello stramaledetto appartamento n. 50, va ripetuto, qualcuno indubbiamente c’era. A volte, qualcuno rispondeva al telefono, ora con voce nasale, ora con voce stridula, a volte aprivano una finestra, anzi si sentivano i suoni di un grammofono. Eppure, ogni volta che si entrava, non vi si trovava proprio nessuno. Eppure l’avevano visitato tante volte, e in diverse ore del giorno. Anzi l’appartamento fu perquisito tenendo aperta una rete e scrutando ogni angolo. Già da molto tempo l’appartamento aveva suscitato dei sospetti. Era sorvegliato non solo il percorso che attraverso il portone andava nel cortile, ma anche la scala di servizio. Anzi, sui tetti presso i comignoli erano stati messi uomini di guardia. Sí, l’appartamento n. 50 ne combinava di belle, e non c’era niente da fare.

Cosí la cosa andò avanti fino alla mezzanotte del venerdí, quando il barone Meigel, con un vestito da sera e scarpe di vernice, si diresse solennemente verso l’appartamento n. 50 in qualità di invitato. Si udí che il barone veniva introdotto nell’appartamento. Dopo dieci minuti esatti questo fu aperto senza suonare alla porta, ma non solo non si trovarono i padroni di casa, ma — cosa oltremodo curiosa — non vi trovarono neppure tracce del barone Meigel.

Ebbene, come si è detto, la cosa andò avanti cosí fino all’alba del sabato. Qui si aggiunsero dati nuovi e molto interessanti. All’aeroporto di Mosca atterrò un aereo a sei posti che arrivava dalla Crimea. Tra gli altri ne discese un passeggero strano. Era un giovanotto con la barba lunghissima, che non si era lavato da tre giorni, con occhi arrossati e spaventati, senza bagagli, e vestito in modo alquanto curioso. L’uomo portava un berretto caucasico, un mantello pure caucasico sopra la camicia da notte, e pantofole azzurre di pelle appena comperate. Non appena lasciò la scaletta da cui si scendeva dall’aereo, egli fu avvicinato. Infatti era già atteso, e poco dopo, l’indimenticabile direttore del Varietà, Stepan Bogdanovič Lichodeev, comparve davanti agli investigatori. Forní nuovi dati. Allora divenne chiaro che Woland si era intrufolato nel Varietà sotto le sembianze di un artista dopo aver ipnotizzato Stepa Lichodeev, poi era riuscito a sbattere Stepa a chi sa quanti chilometri da Mosca. In tal modo, si aggiunse altro materiale, ma questo non rese le cose piú facili, anzi, forse piú difficili ancora, perché diventava evidente che impadronirsi di un personaggio capace di giocare un brutto tiro come quello di cui era rimasto vittima Stepan Bogdanovič, non sarebbe stato semplice. Tra l’altro, Lichodeev, dietro sua propria richiesta, fu rinchiuso in una cella sicura, e davanti agli investigatori si presentò Varenucha, appena arrestato in casa sua, dove era tornato dopo una misteriosa assenza protrattasi per quasi due giorni.

Nonostante la promessa fatta ad Azazello di non mentire piú, l’amministratore incominciò proprio con una menzogna. Però, non lo si può giudicare con molta severità. Infatti, Azazello gli aveva proibito di mentire e insolentire al telefono, e in questo caso l’amministratore stava parlando senza l’ausilio di tale apparecchio. Con occhi irrequieti, Ivan Savel’evic dichiarò che il giovedí, da solo nel suo ufficio, aveva bevuto tanto da sbronzarsi, poi era andato in un posto ma non ricordava dove, poi aveva ancora bevuto della vodka stagionata, ma non ricordava dove, era rimasto disteso vicino a uno steccato, ma non ricordava dove. Solo dopo che ebbero detto all’amministratore che con il suo atteggiamento, sciocco e insensato, ostacolava l’inchiesta di un caso importante, e di questo, naturalmente, avrebbe risposto, Varenucha scoppiò a piangere e sussurrò con voce tremante, guardandosi attorno, che mentiva soltanto per paura, temendo la vendetta della banda di Woland, nelle cui mani si era già trovato, e che pregava, supplicava, bramava di essere rinchiuso in una cella blindata.

— Accidenti! E dài con questa cella blindata! — brontolò uno degli investigatori.

— Questi delinquenti li hanno proprio terrorizzati, disse l’altro che era stato da Ivanuška.

Tranquillizzarono alla bell’e meglio Varenucha, dissero che l’avrebbero protetto anche senza cella blindata, e si venne subito a sapere che non aveva affatto bevuto vodka stagionata presso uno steccato, e che erano stati in due a picchiarlo, uno coi capelli rossi e una zanna sporgente, l’altro grasso…

— Ah, quello che somiglia a un gatto?

— Sí, sí, sí, — sussurrava l’amministratore, sentendosi gelare di paura e voltandosi a ogni istante, e spiattellava ulteriori particolari sul fatto che era rimasto per due giorni nell’appartamento n. 50 in qualità di vampiro al servizio di quella banda e per poco non aveva causato la morte del direttore finanziario Rimskij…

In quel momento stavano introducendo Rimskij, trasferito da Leningrado. Però quel vecchio canuto e tremante di paura, dalla mente sconvolta, in cui era difficilissimo riconoscere il direttore di prima, non voleva assolutamente dire la verità e in questo senso si dimostrò molto ostinato. Rimskij affermava che non aveva visto nessuna Hella alla finestra del suo ufficio quella notte, e neppure Varenucha, ma si era semplicemente sentito male e, fuori di sé, era partito per Leningrado. Inutile dire che il direttore finanziario concluse la sua deposizione con la preghiera di essere rinchiuso in una cella blindata.

Annuška fu arrestata mentre tentava di rifilare a una cassiera dei grandi magazzini sull’Arbat un biglietto da dieci dollari. Il racconto di Annuška sulla gente che volava fuori dalla finestra sulla Sadovaja e sul ferro da cavallo che, secondo lei, aveva raccattato per portarlo alla polizia, fu ascoltato con attenzione.

— Il ferro era veramente d’oro con brillanti? — chiesero ad Annuška.

— Volete che non riconosca i brillanti? — rispose Annuška.

— Ma le hanno dato banconote da dieci rubli, dice?

— Volete che non riconosca le banconote da dieci rubli? — rispose Annuška.

— Be’, quand’è allora che si sono trasformate in dollari?

— Non so niente di dollari, non ho mai visto dollari, io — rispondeva Annuška con voce stridula. — Siamo nel nostro diritto! Ci hanno dato una ricompensa, e con quella compriamo della tela — . E cominciò a blaterare che lei non era responsabile del fatto che l’amministrazione della casa avesse alloggiato al quinto piano uno spirito maligno che rendeva la vita impossibile a tutti.

A questo punto l’investigatore fece cenno con la penna ad Annuška che aveva rotto le scatole a tutti, poi le firmò un lasciapassare su un foglietto verde, dopo di che, con sollievo generale, Annuška scomparve dall’edificio.

Poi seguí un’intera processione di gente, tra cui Nikolaj Ivanovič, da poco fermato unicamente a causa della stupidità della propria gelosa consorte, che al mattino aveva fatto sapere alla polizia che suo marito era scomparso. Nikolaj Ivanovič non stupí molto gli investigatori deponendo sul tavolo il buffonesco certificato da cui risultava che aveva trascorso il tempo al ballo di Satana. Quando raccontò che aveva portato in volo, nuda, la domestica di Margherita Nikolaevna fino a casa del diavolo, a bagnarsi nel fiume, e che prima gli era apparsa alla finestra Margherita Nikolaevna completamente spogliata, Nikolaj Ivanovič si scostò alquanto dalla verità. Cosí, ad esempio, non ritenne necessario menzionare che si era presentato in camera da letto tenendo in mano la camicia buttatagli addosso né che si era rivolto a Nataša chiamandola Venere. Stando alle sue parole, sembrava che Nataša fosse volata fuori dalla finestra, le si fosse messa a cavallo e lo avesse trascinato via da Mosca…

— Cedendo alla forza, sono stato costretto a sottomettermi, — raccontava Nikolaj Ivanovič, e terminò la sua narrazione con la preghiera di non farne parola a sua moglie. Il che gli fu promesso.

La testimonianza di Nikolaj Ivanovič diede la possibilità di stabilire che Margherita Nikolaevna, nonché la sua domestica Nataša, erano scomparse senza lasciare traccia. Furono prese misure per ritrovarle.

E cosí, con le indagini che non cessavano un istante, ebbe inizio la mattina del sabato. Intanto in città stavano nascendo e diffondendosi voci assolutamente assurde, in cui una minutissima porzione di verità era infiorata da rigogliosissime fandonie. Dicevano che c’era stato uno spettacolo al Varietà, dopo il quale tutti i duemila spettatori erano sbucati in strada come mamma li aveva fatti, che nella Sadovaja avevano messo le mani su una tipografia che stampava banconote false di tipo magico, che una banda aveva rapito cinque dirigenti del settore dei divertimenti ma che la polizia li aveva subito ritrovati, e molte altre cose da perdere la voglia di ripeterle.

Nel frattempo si avvicinava l’ora del pranzo, e là dove si svolgeva l’inchiesta squillò il telefono. Dalla Sadovaja comunicavano che il maledetto appartamento aveva di nuovo dato segno di vita. Dicevano che le finestre venivano aperte, che giungevano suoni di pianoforte e canti, e che avevano visto alla finestra, seduto sul davanzale a rosolarsi al sole, un gatto nero.

Verso le quattro di quel caldo pomeriggio, un folto gruppo di uomini vestiti in borghese scese da tre automobili poco prima di arrivare al n. 302 bis della Sadovaja.

Qui il gruppo si divise in due gruppi piú piccoli: uno attraversò il portone e il cortile e si diresse verso l’interno sei, l’altro aprí un portoncino abitualmente sprangato che dava sull’ingresso di servizio, ed entrambi cominciarono a salire per due scale diverse verso l’appartamento n. 50.

In quel momento, Korov’ev e Azazello — Korov’ev col suo abbigliamento abituale, e non con il frac festivo — erano seduti nella sala da pranzo e stavano terminando di far colazione. Woland, secondo il suo solito, era in camera da letto. Dove però fosse il gatto, non si sapeva. Ma il fracasso delle pentole che giungeva dalla cucina faceva pensare che Behemoth si trovasse proprio lí, intento a combinar guai, secondo il suo solito.

— Che cosa sono questi passi per le scale? — chiese Korov’ev giocherellando col cucchiaino nella tazza di caffè nero.

— Vengono per arrestarci, — rispose Azazello, e bevette un bicchierino di cognac.

— A-ah!… ma guarda.. — rispose Korov’ev.

Nel frattempo, coloro che salivano la scala principale erano giunti sul pianerottolo del terzo piano. Lí, due idraulici stavano dandosi da fare con un radiatore del termosifone. Quelli che salivano scambiarono con gli idraulici sguardi espressivi.

— Sono tutti in casa, — sussurrò uno degli idraulici, picchiettando un tubo col martello.

Allora quello che apriva il gruppo tolse di sotto il cappotto una nera rivoltella, e un altro, vicino a lui, dei grimaldelli. In genere, quelli che stavano andando nell’appartamento n. 50 erano attrezzati di tutto punto. Due di essi avevano in tasca sottili reti di seta facili da aprire. Un altro aveva un cappio, un altro ancora maschere di garza e fiale di cloroformio.

Bastò un attimo per aprire l’ingresso principale dell’appartamento n. 50, dopo di che si trovarono tutti in anticamera, e la porta che sbatté contemporaneamente in cucina segnalò che anche il secondo gruppo, salito dalla scala di servizio, era arrivato al momento giusto.

Questa volta, riportarono un successo, sia pur parziale. Gli uomini si sparsero istantaneamente nelle stanze e non trovarono nessuno, però in sala da pranzo videro sul tavolo i resti di una colazione evidentemente abbandonata un attimo prima, e in salotto sulla mensola del camino, vicino a una caraffa di cristallo, sedeva un enorme gatto nero. Nelle zampe stringeva un fornello a petrolio.

In un silenzio assoluto, gli uomini entrati nel salotto contemplarono quel gatto per un tempo piuttosto lungo.

— Giaà… mica male, davvero… — sussurrò uno di loro.

— Non faccio scherzi, non tocco nessuno, sto solo aggiustando il fornello, — disse il gatto in tono ostile e imbronciato, — e ritengo pure mio dovere avvertire che il gatto è un animale antico e intoccabile.

— Un lavoro coi fiocchi, — mormorò uno degli uomini mentre un altro diceva con voce chiara e forte:

— Be’, intoccabile gatto ventriloquo, si accomodi qui!

La rete si aprí e volò, ma chi l’aveva lanciata, con grande stupore di tutti, sbagliò il colpo e prese solo la caraffa che si frantumò immediatamente con fracasso.

— Mancato! — sbraitò il gatto. — Urrà! — e abbandonando il fornello, afferrò alle proprie spalle una browning. La puntò in un batter d’occhio contro l’uomo che gli era piú vicino, ma — prima che il gatto avesse il tempo di sparare nella mano dell’uomo divampò una fiammata, e, contemporaneamente allo sparo il gatto stramazzò a testa in giú dalla mensola del camino, lasciando cadere la browning e gettando via il fornello.

— Tutto è finito, — disse con voce debole il gatto, e si distese languidamente in una pozza di sangue, — allontanatevi da me per un attimo, lasciatemi dare l’addio alla terra. Oh, Azazello, amico mio, — gemette il gatto dissanguandosi, — dove sei? — Rivolse verso la porta della sala da pranzo gli occhi che si stavano spegnendo: — Non sei venuto ad aiutarmi nella impari lotta, hai abbandonato il povero Behemoth per un bicchiere di cognac — sia pure ottimo, lo riconosco. Ebbene, che la mia morte ricada sulla tua coscienza; ti lascio in eredità la mia browning…

— La rete, la rete, la rete… — sussurravano voci inquiete intorno al gatto. Ma la rete, il diavolo sa perché, si era impigliata nella tasca di un poliziotto e rifiutava di venirne fuori.

— L’unica cosa che può salvare un gatto mortalmente ferito, — diceva ancora il gatto, — è un sorso di petrolio, e approfittando della confusione, avvicinò la bocca all’apertura rotonda del fornello e trangugiò il petrolio. Immediatamente il sangue che fluiva da sotto la zampa anteriore sinistra si arrestò. Il gatto balzò su vivo e vegeto, si mise il fornello sotto l’ascella, con esso balzò sulla mensola del camino, da lí, stracciando la carta da parati, si arrampicò sul muro, e due secondi dopo era in alto sopra gli uomini, appollaiato su un’asta metallica.

Immediatamente varie mani afferrarono la tenda e la strapparono giú insieme con l’asta, e il sole inondò la stanza prima ombreggiata. Ma né il gatto furfantescamente guarito né il fornello caddero. Senza mollare il fornello, il gatto riuscí a balzare sul lampadario appeso nel centro della stanza.

— Una scala! — gridarono dal basso.

— Vi sfido a duello! — urlò il gatto svolazzando sopra le teste, appeso al lampadario oscillante, e qui nelle sue zampe riapparve la rivoltella, mentre il fornello fu sistemato tra i bracci del lampadario. Prese la mira, e, volando come un pendolo sopra le teste degli uomini, cominciò a sparare contro di loro. Il fracasso scosse l’appartamento. Dal lampadario caddero in terra pezzi di cristallo, lo specchio sul camino s’incrinò a stella, volò polvere di intonaco, saltellarono bossoli sul pavimento, s’infransero i vetri delle finestre, dal fornello colpito cominciò a sprizzare petrolio. Adesso non c’era neppure da pensarci di prendere il gatto vivo, e i sopraggiunti gli rispondevano sparando con furia e precisione rivoltellate nella testa, nella pancia, nel petto e nella schiena. La sparatoria suscitò il panico nel cortile asfaltato.

Ma la sparatoria durò pochissimo tempo e si placò da sé. Il fatto è che non causava danno alcuno né al gatto né agli uomini. Non solo non vi furono morti, ma neppure feriti. Tutti — compreso il gatto — rimasero illesi. Uno degli uomini, per verificare il fatto in modo definitivo, scaricò cinque pallottole nella testa della maledetta bestia, e il gatto rispose sveltamente con un intero caricatore, sempre con lo stesso risultato: la cosa non fece impressione a nessuno. Il gatto si dondolava sul lampadario, le cui oscillazioni diminuivano sempre piú di ampiezza, soffiava nella canna della browning e si sputava sulla zampa.

Sul volto degli uomini che stavano in basso in silenzio si dipinse un’espressione di assoluta perplessità. Era l’unico caso — o uno degli unici casi — in cui una sparatoria si dimostrava totalmente inefficace. Si poteva supporre naturalmente che la browning del gatto fosse una semplice rivoltella scacciacani, ma lo stesso non si poteva di certo affermare delle armi della polizia. La prima ferita del gatto, circa la quale, evidentemente, non c’era alcun dubbio, non era stata che un trucco e una sconcia finta, come, del resto la bevuta di petrolio.

Fecero ancora un tentativo per catturare il gatto. Fu lanciato il cappio, ma questo s’impigliò in una delle candele, e il lampadario rovinò a terra. Sembrò che il suo tonfo facesse tremare l’intero edificio, ma non successe niente di straordinario. I presenti furono innaffiati di frammenti mentre il gatto volava per aria e andò a sedersi in alto, sotto il soffitto, sulla parte superiore della cornice dorata dello specchio sul camino. Non aveva la minima intenzione di fuggire, anzi, seduto in un luogo relativamente sicuro, iniziò un discorso:

— Non capisco proprio, — diceva dall’alto, — le cause di un trattamento cosí brutale…

Questo discorso fu interrotto sin dall’inizio da una voce greve e bassa che giunse da chi sa dove:

— Che succede in casa? M’impediscono di studiare… Un’altra voce, sgradevole, nasale, replicò:

— Naturalmente, è Behemoth, il diavolo se lo porti!

Una terza voce, tremula, disse:

— Messere! È sabato. Il sole declina. È ora, per noi.

— Scusate, non posso piú chiacchierare, — disse il gatto dallo specchio, — è ora, per noi — . Lanciò la sua browning e spaccò entrambi i vetri della finestra. Poi lasciò colare il petrolio, che divampò da sé, gettando un’onda di fuoco fino al soffitto.

L’incendio fu straordinariamente rapido e forte, come non succede neanche quando brucia il petrolio. Cominciò subito a fumare la tappezzeria, s’infiammò la tenda strappata che giaceva in terra, si misero ad ardere le intelaiature delle finestre dai vetri rotti. Il gatto si raccolse come una molla, miagolò, balzò dallo specchio sul davanzale e scomparve insieme col fornello. Fuori si udirono degli spari. L’uomo seduto sulla scala metallica antincendio al livello dell’appartamento della gioielliera aveva sparato contro il gatto, mentre quello balzava da un davanzale all’altro dirigendosi verso la doccia della grondaia all’angolo della casa che, come si è detto, si stendeva su tre lati di un quadrilatero. Lungo questa doccia, il gatto si arrampicò fin sul tetto. Anche lí fu fatto segno, purtroppo senza risultato, a una sparatoria della polizia che sorvegliava i camini, e il gatto si disciolse nel sole che tramontava inondando di luce la città.

In quel momento il parquet dell’appartamento prese fuoco sotto i piedi degli uomini, e tra le fiamme, nel punto in cui si era sdraiato il gatto quando si fingeva ferito, apparve, acquistando via via spessore, il cadavere del fu barone Meigel con il mento puntato all’insú e gli occhi vitrei. Non era ormai possibile portarlo fuori.

Saltando sulle assicelle fiammeggianti del parquet, battendo con le mani le spalle e il petto che fumavano, quelli che erano stati in salotto arretravano verso lo studio e l’anticamera. Quelli che si trovavano in sala da pranzo e in camera da letto corsero nel corridoio. Arrivarono di corsa anche quelli che erano in cucina, e si precipitarono in anticamera. Il salotto era già pieno di fuoco e di fumo. Qualcuno riuscí a malapena a formare al telefono il numero dei pompieri e a gridare brevemente nel ricevitore:

— Sadovaja 302 bis!…

Non ci si poteva trattenere oltre. Le fiamme guizzavano anche nell’anticamera. Divenne difficile respirare.

Non appena dalle finestre spalancate dell’appartamento stregato si spinsero fuori le prime volute di fumo, in cortile si udirono urli disperati:

— Al fuoco! Al fuoco!

In vari appartamenti, la gente cominciò a gridare al telefono:

— Sadovaja! Sadovaja 302 bis!

Nel momento in cui sulla Sadovaja si udí il suono, che raggela il cuore, delle campane sulle lunghe macchine rosse che accorrevano da tutte le parti della città, la gente che si agitava nel cortile vide che, insieme al fumo, da una finestra del quinto piano uscivano in volo tre sagome scure che parevano d’uomini e una di una donna nuda.




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