Il temporale passò senza lasciare traccia e, come un arco gettato attraverso tutta Mosca, c’era in cielo un arcobaleno multicolore, che affondava nelle acque della Moscova. In alto, sulla collina, tra i due boschi si vedevano tre figure nere di profilo. Woland, Korov’ev e Behemoth sedevano su dei morelli sellati, guardando la città distesa dall’altra parte del fiume, col sole spezzato che brillava in mille finestre rivolte verso occidente, verso le torri di marzapane del monastero di Devičij.
Nell’aria si sentí un rumore, e Azazello, sulla nera coda del cui manto volavano il Maestro e Margherita, scese con loro presso il gruppo delle persone in attesa.
— Si è dovuto íncomodarla, Margherita Níkolaevna, e, lei, Maestro, — disse Woland dopo un po’ di silenzio, — ma non serbatemene rancore. Non credo che vi dispiaccia. Ebbene, — si rivolse egli al solo Maestro, — dica addio alla città. Per noi è giunta l’ora, — Woland indicò con la mano infidata in un guanto nero svasato là dove innumerevoli soli fondevano i vetri oltre il fiume e sopra questi soli c’era lo strato di nebbia, di fumo e di vapore della città arroventatasi durante il giorno.
Il Maestro saltò giú dalla sella, lasciò gli altri e corse verso il dirupo della collina. Il nero mantello gli strascicava dietro per terra. Il Maestro prese a guardare la città. Nei primi istanti nel cuore gli si insinuò una tristezza struggente, ma ben presto essa fu sostituita da una dolce inquietudine, da un’ansia zingaresca di vagabondaggio.
— Per sempre!… Bisogna rendersene conto, — bisbigliò il Maestro e si passò la lingua sulle labbra secche, screpolate. Si mise ad ascoltare e a rilevare con esattezza tutto quello che avveniva nell’anima sua. La sua ansia trapassò, gli parve, in un senso di profonda e sentita offesa. Ma essa era instabile, scomparve e inspiegabilmente fu sostituita da un’orgogliosa indifferenza, e questa dal presentimento di un immutabile riposo.
Il gruppo dei cavalieri aspettava il Maestro in silenzio. Il gruppo dei cavalieri guardava la sua nera, lunga figura, che gesticolava sull’orlo del dirupo e ora sollevava la testa, quasi cercasse di gettare lo sguardo attraverso l’intiera città e di guardare al di là dei suoi confini, ora la lasciava ricadere sul petto, quasi a studiare la rachitica erba calpestata ai suoi piedi.
Il silenzio fu interrotto da Behemoth che s’annoiava.
— Mi permetta, Maître, di fare un fischio d’addio prima della cavalcata, — disse.
— Potresti spaventare la signora, — rispose Woland, — e poi non dimenticare che per oggi le tue marachelle sono finite.
— No, no, Messere, — replicò Margherita, seduta sulla sella come un’amazzone, coi pugni sui fianchi, e col sottile strascico che penzolava fino a terra, — glielo permetta, lo lasci fischiare. La tristezza mi ha presa al pensiero della lunga strada che ci attende. Non è vero, Messere, che essa è perfettamente naturale anche quando si sa che alla fine della strada attende la felicità? Ci diverta pure, se no temo che finiremo per piangere, e tutto sarà rovinato prima d’intraprendere il cammino!
Woland fece un segno di capo a Behemoth, questi si rianimò tutto, balzò giú di sella, si mise le dita in bocca, gonfiò le gote e fischiò. A Margherita squillarono le orecchie. Il suo cavallo s’impennò, nel boschetto caddero i rami secchi dagli alberi, si alzò in volo un intero stormo di corvi e di passeri, una colonna di polvere fu sospinta verso il fiume, e si videro cadere in acqua i berretti di alcuni passeggeri del vaporetto che passava presso l’imbarcadero.
Il Maestro sobbalzò a quel fischio, ma non si voltò, e cominciò a gesticolare piú irrequieto, alzando un braccio al cielo, come se minacciasse la città. Behemoth si guardò intorno con orgoglio.
— Hai fischiato, non discuto, — osservò Korov’ev con condiscendenza, — sí, hai fischiato, però, a essere obiettivi, il fischio era molto mediocre.
— Ma io non sono un maestro di cappella, — rispose Bebemoth dignitoso e imbronciato, e improvvisamente ammiccò a Margherita.
— Toh, mi ci provo anch’io, come nei bei tempi andati, — disse Korov’ev, si fregò le mani e si soffiò sulle dita.
— Guarda però di non fare male alla gente, — si udí la voce severa di Woland a cavallo.
— Messere, mi creda, — rispose Korov’ev e si pose una mano sul cuore, — è uno scherzo, è soltanto uno scherzo… — Di colpo si allungò come se fosse stato di gomma, con le dita della destra formò una bizzarra figura, si attorcigliò come una vite e poi, distorcendosi di scatto, fischiò.
Questo fischio Margherita non lo sentí, ma lo vide quando fu scagliata insieme al suo focoso cavallo a una ventina di metri di distanza. Vicino a lei una quercia fu sradicata, e la terra si incrinò fino al fiume. Un enorme strato di riva fu scagliato nel fiume insieme con l’imbarcadero e il ristorante. L’acqua nel fiume ribollí, si sollevò, e sulla riva opposta, bassa e verde, fu gettato l’intero battello con i passeggeri assolutamente incolumi. Ai piedi del cavallo sbuffante di Margherita precipitò una cornacchia uccisa dal fischio di Fagotto.
Il Maestro sussultò a quel fischio. Si afferrò la testa e corse indietro verso il gruppo dei compagni che lo aspettavano.
— Ebbene, — si rivolse a lui Woland dall’alto del suo cavallo, tutti i conti sono pagati? L’addio si è compiuto?
— Sí, si è compiuto, — rispose il Maestro e, ormai tranquillo, guardò in viso Woland con franchezza e ardimento.
E allora sui monti echeggiò, come una voce di tromba, la voce terribile di Woland:
— È ora! — e, brusco, il fischio e il riso di Behemoth.
I cavalli si slanciarono e i cavalieri si alzarono in alto, al galoppo. Margherita sentiva che il suo furioso cavallo rodeva e tirava il morso. Il mantello di Woland si gonfiò sopra le teste di tutta la cavalcata e con quel mantello cominciò a coprirsi il firmamento, su cui scendeva la sera. Quando per un istante il nero drappo si spostò da un lato, Margherita, galoppando, si voltò e vide che dietro non c’erano píú non solo le torri variopinte, ma da un pezzo non c’era piú neppure la città, che era sprofondata sotto terra lasciandosi dietro soltanto nebbia e fumo.