CAPITOLO TRENTESIMO È ora! È ora!



— Sai, — diceva Margherita, — proprio quando ti sei addormentato ieri notte, stavo leggendo il brano sulle tenebre arrivate dal Mediterraneo… e quegli idoli, oh, gli idoli dorati! Non so perché, ma non mi danno requie. Mi sembra che anche adesso ci sarà pioggia. Senti come si sta facendo piú fresco?

— D’accordo, d’accordo, — rispondeva il Maestro, fumando e scacciando il fumo con la mano, — e gli idoli, lasciamoli stare… ma che cosa succederà adesso, non lo capisco proprio!

Questa conversazione si svolgeva al tramonto, proprio nel momento in cui Levi Matteo era apparso a Woland sul terrazzo. Il finestrino dello scantinato era aperto, e se qualcuno vi avesse lanciato un’occhiata, si sarebbe stupito dell’aspetto strano degli interlocutori. Margherita aveva sul corpo nudo un mantello nero, mentre il Maestro indossava la camicia e le mutande dell’ospedale. Questo perché Margherita non aveva proprio niente da mettersi addosso, in quanto tutte le sue cose erano rimaste nella palazzina, e anche se questa era poco lontana, non si poteva naturalmente neppure pensare di andarle a prendere. In quanto al Maestro, i cui vestiti erano tutti nell’armadio come se non fosse mai andato via, non aveva semplicemente voglia di vestirsi, e stava svolgendo davanti a Margherita la tesi che tra poco avrebbe avuto inizio un’assurdità senza pari. Tuttavia era rasato, per la prima volta dopo quella notte autunnale (nella clinica la barba gliela spuntavano con la macchinetta).

Anche la stanza aveva un’apparenza strana, ed era assai difficile capire qualcosa in quel caos. Sul tappeto erano sparpagliati dei manoscritti e altri si trovavano sul divano. Nella poltrona era caduto un libro con il dorso all’insú. Sul tavolo rotondo era preparato il pranzo, e tra gli antipasti stavano alcune bottiglie. Da dove fossero sbucati i cibi e le bevande, non lo sapevano né Margherita né il Maestro.

Quando si erano svegliati, avevano già trovato tutto sul tavolo.

Dopo aver dormito fino al tramonto del sabato, sia il Maestro che la sua compagna si sentivano del tutto rinvigoriti e una cosa sola ricordava loro gli avvenimenti del giorno prima: a entrambi doleva leggermente la tempia sinistra. Per quanto riguarda la psiche, in entrambi erano sopravvenuti profondi cambiamenti, come chiunque, origliando, avrebbe dedotto dalla conversazione che avveniva nello scantinato. Ma non c’era proprio nessuno a origliare. Il cortiletto aveva questo di bello, che era sempre vuoto. I tigli e il salice, che rinverdivano sempre piú intensamente, emanavano profumo primaverile, e la brezza incipiente lo portava nello scantinato.

— Che diavolo! — esclamò all’improvviso il Maestro. Se uno ci pensa… — spense il mozzicone nel portacenere e si strinse la testa tra le mani, — no, senti, tu sei una persona intelligente, e pazza non sei stata… sei proprio convinta che ieri siamo stati da Satana?

— Nel modo piú assoluto, — rispose Margherita.

— Naturalmente, naturalmente, — disse ironico il Maestro, — quindi adesso invece di uno ci sono due pazzi, il marito e la moglie! — Alzò le braccia al cielo ed esclamò: — Lo sa il diavolo, che succede! Il diavolo, il diavolo…

Invece di rispondere, Margherita crollò sul divano, scoppiò a ridere, agitò in aria i piedi nudi e poi esclamò:

— Oh, non ce la faccio piú… oh, non ce la faccio piú!… Guarda a chi assomigli!…

Finito che ebbe di ridere, mentre il Maestro si aggiustava pudicamente le lunghe mutande dell’ospedale, Margherita si fece seria.

— Adesso hai detto la verità senza volerlo, — disse, — il diavolo sa che cosa succede, e il diavolo, credimi, aggiusterà tutto! — I suoi occhi a un tratto fiammeggiarono, essa balzò in piedi, cominciò a ballare senza muoversi dal suo posto, ed esclamò: — Oh! Come sono felice! Oh! Come sono felice, felice di aver fatto un patto con lui! Oh diavolo diavolo!… Ti toccherà, carissimo, vivere con una strega! Poi si gettò verso il Maestro, lo abbracciò e cominciò a baciargli le labbra, il naso, le guance. Ciocche di neri capelli spettinati saltellavano sul capo del Maestro, e le sue guance e la fronte ardevano sotto i baci.

— E tu assomigli davvero a una strega.

— Non lo nego, — rispose Margherita, — sono una strega e ne sono contentissima.

— Va bene, — disse il Maestro, — sei una strega, è una cosa splendida e meravigliosa. Allora, io sono stato rapito dalla clinica… Bella anche questa. Mi hanno riportato qui, ammettiamolo pure. Supponiamo anche che non si ricorderanno di noi… Ma dimmi, per tutti i santi, di che cosa e come vivremo? Se te lo chiedo, è a te che penso, credimi!

In quel momento davanti al finestrino si videro delle scarpe dalla punta quadrata, e la parte inferiore di un paio di pantaloni a righe. Poi i pantaloni si piegarono alle ginocchia e la luce del giorno fu nascosta da un grosso deretano.

— Aloizij, sei in casa? — chiese una voce in alto sopra i pantaloni, fuori della finestra.

— Ecco, incomincia, — disse il Maestro.

— Aloizij? — chiese Margherita avvicinandosi alla finestra. — È stato arrestato ieri. Chi lo desidera? Come si chiama lei?

Nello stesso istante le ginocchia e il deretano scomparvero e si udí sbattere il cancello, dopo di che tutto tornò alla normalità. Margherita cadde sul divano ridendo al punto che le lacrime le colavano dagli occhi. Ma quando si calmò, il suo volto subí una profonda trasformazione, essa cominciò a parlare con serietà e, senza smettere di parlare scivolò giú dal divano, strisciò verso le ginocchia del Maestro e, guardandolo negli occhi, si mise ad accarezzargli la testa.

— Come hai sofferto, come hai sofferto, mio caro! Questo lo so soltanto io. Guarda, hai fili bianchi nei capelli e una piega incancellabile all’angolo della bocca. Mio unico mio caro, non pensare a nulla! Hai dovuto pensare troppo, adesso penserò io per te. E ti garantisco, ti garantisco che tutto sarà stupendamente bello!

— Io non temo nulla, Margot, — le rispose all’improvviso il Maestro, e alzò la testa e le riapparve cosí com’era quando scriveva ciò che non aveva mai visto, ma che sapeva con certezza che c’era stato, — non temo nulla perché ho già provato di tutto. Mi hanno troppo minacciato e non c’è minaccia che possa farmi paura. Mi dispiace per te Margot, ecco il nocciolo di tutto, ecco perché ripeto sempre la stessa cosa. Torna in te! Perché devi rovinare la tua vita con un malato e un miserabile? Torna a casa! Provo pena per te, perciò ti dico questo.

— Oh tu, tu… — sussurrava Margherita scuotendo la testa spettinata, — uomo di poca fede, infelice!… Io per te ieri ho girato nuda tutta la notte, ho perso la mia natura umana e l’ho sostituita con un’altra, ho passato vari mesi in uno stanzino buio a pensare a una cosa sola, al temporale su Jerushalajim, ho pianto da non poterne piú, e adesso che è caduta su di noi la felicità, tu mi scacci! Va bene, me ne andrò, andrò via, ma sappi che sei un uomo crudele! Ti hanno svuotato l’anima!

Un’amara tenerezza nacque nel cuore del Maestro, e non si sa perché, egli scoppiò a piangere affondando il viso nei capelli di Margherita. Essa, singhiozzando, mentre le sue dita si muovevano sulle tempie del Maestro, gli sussurrava:

— Sí, fili, fili… sotto ai miei occhi la sua testa si copre di neve… oh, povera mia testa, che ha tanto sofferto! Guarda che occhi hai! In essi c’è il deserto… e le spalle, le spalle col fardello… ti hanno rovinato, rovinato… — Le parole di Margherita diventavano slegate, Margherita era scossa dal pianto.

Allora il Maestro si asciugò gli occhi, fece alzare dalle ginocchia Margherita, si alzò pure lui e disse con voce sicura:

— Basta. Mi hai fatto vergognare. Non mi permetterò mai piú di essere pusillanime, e non ritornerò su questo argomento, stai tranquilla. So che siamo tutti e due vittime della nostra malattia psichica che forse io ti ho trasmessa… Va bene, la sopporteremo insieme.

Margherita gli avvicinò le labbra all’orecchio e sussurrò:

— Ti giuro sulla tua vita, ti giuro sul figlio dell’astrologo che tu hai intuíto, tutto andrà per il meglio!

— Va bene, allora, va bene, — rispose il Maestro, e dopo una risata aggiunse: — Certo, la gente a cui è stata tolta ogni cosa, come tu ed io, cerca la salvezza presso una forza ultraterrena! Va bene, sono disposto a cercare là!

— Ecco, ecco, adesso sei quello di prima, ridi, — rispondeva Margherita, — e va’ pure al diavolo con le tue dotte parole. Ultraterreno o non ultraterreno, che cosa importa? Ho fame! — e trascinò per mano il Maestro verso il tavolo.

— Non sono certo che questo cibo non sprofondi subito sotto terra o non voli fuori dalla finestra, — disse egli ormai completamente tranquillo.

— Non volerà via.

In quel preciso istante, si udí dal finestrino una voce nasale:

— La pace sia con voi.

Il Maestro sussultò, mentre Margherita, già assuefatta allo straordinario, esclamò:

— Ma è Azazello! Oh che bello, che simpatico! — e dopo aver sussurrato al Maestro: — Vedi, vedi: non ci dimenticano! — si precipitò ad aprire.

— Chiuditi almeno! — le gridò dietro il Maestro.

— Me ne infischio, — rispose Margherita dal corridoio.

Ed ecco Azazello a fare inchini e a salutare il Maestro, facendo scintillare il suo occhio, mentre Margherita esclamava:

— Oh, come sono contenta! Non sono mai stata cosí contenta in vita mia! Ma mi scusi, Azazello, se sono nuda!

Azazello la pregò di non preoccuparsi, assicurando che aveva avuto occasione di vedere donne non solo nude, ma interamente scorticate, e si sedette volentieri al tavolo, dopo aver messo nell’angolo presso la stufa un pacco avvolto in un broccato scuro.

Margherita versò del cognac ad Azazello, che lo bevve volentieri. Il Maestro, senza distogliere gli occhi da lui, si pizzicava ogni tanto sotto il tavolo la mano sinistra. Ma i pizzicotti non servivano a nulla. Azazello non si dissolveva nell’aria, e poi, a dire il vero, non era affatto necessario che lo facesse. Non c’era nulla di pauroso in quell’uomo dai capelli rossi, di bassa statura, tranne forse l’occhio col leucoma — ma questo succede anche senza stregonerie — , sí, forse, l’abbigliamento era un po’ fuori del comune, una specie di tonaca o mantello, eppure, a pensarci bene, anche quello poteva capitare. Il cognac lo beveva con disinvoltura, come ogni persona a modo, a bicchierini interi, senza mangiare. Quel cognac fece nascere un ronzio nella testa del Maestro, che pensò:

«No, Margherita ha ragione… Naturalmente, davanti a me siede un inviato del diavolo. Io stesso, non piú tardi dell’altro ieri sera, dimostravo a Ivan che aveva incontrato ai Patriaršie proprio Satana, e adesso, chi sa perché, quest’idea mi ha fatto paura e mi sono messo a farneticare di ipnotizzatori e allucinazioni… Ma che diavolo d’ipnotizzatori, figuriamoci!…»

Cominciò ad osservare Azazello, e si convinse che negli occhi di lui si vedeva un che di impacciato, un pensiero che non voleva esprimere finché non fosse giunto il momento. «Non è venuto per una semplice visita, ma con un incarico», pensava il Maestro.

Il suo senso di osservazione non lo aveva ingannato.

Dopo aver bevuto il terzo bicchierino di cognac, che non faceva alcun effetto su Azazello, il visitatore disse:

— Una cantina simpatica, diavolo! Ci si domanda una cosa soltanto: che cosa fare in questa cantina?

— Me lo domando anch’io, — rispose ridendo il Maestro.

— Perché m’inquieta, Azazello? — chiese Margherita. In qualche modo ci si arrangia.

— Ma per carità, che dice! — esclamò Azazello. — Non avevo la minima intenzione di inquietarla! Lo dico anch’io: in qualche modo ci si arrangia. Ah sí, quasi me ne dimenticavo… Messere la saluta, e le fa dire che la invita a fare una breve passeggiata con lui, se, naturalmente, lo desidera. Che ne dice?

Sotto il tavolo, Margherita colpí con un piede il piede del Maestro.

— Con gran piacere, — rispose il Maestro, studiando Azazello che continuò:

— Speriamo che neppure Margherita Nikolaevna rifiuti.

— Io non rifiuterò di certo, — disse Margherita, e di nuovo il suo piede cercò quello del Maestro.

— Ma benissimo! — esclamò Azazello. — Questo sí che mi piace! Uno-due, e tutto è fatto! Non come quella volta nel giardino Aleksandrovskij!

— Oh, non stia a rammentarmelo, Azazello, ero sciocca allora. Del resto, non si può farmene una colpa, non capita tutti i giorni d’incontrare il maligno!

— Altro che! — confermò Azazello. — Fosse tutti i giorni, sarebbe troppo bello!

— Anche a me piace la velocità, — diceva Margherita eccitata, — mi piace la velocità e la nudità… Come con una rivoltella, zac! Oh, come spara! — esclamò Margherita rivolgendosi al Maestro. — Mette un sette sotto il cuscino, e centra qualunque punto!…- Margherita cominciava a ubriacarsi, i suoi occhi ardevano.

— Oh, dimenticavo di nuovo, — esclamò Azazello dandosi una manata sulla fronte, — non capisco piú niente! Messere vi ha mandato un regalo, — qui si rivolse proprio al Maestro, — una bottiglia di vino. Prego notare che si tratta di quello stesso vino che beveva il procuratore della Giudea. È Falerno.

È piú che naturale che una simile rarità attirasse la massima attenzione sia di Margherita sia del Maestro. Azazello trasse da un pezzo di sudario scuro una caraffa tutta coperta di muffa. Il vino venne annusato, versato nei bicchieri e rimirato contro la luce della finestra che si stava oscurando a causa del temporale. Videro che tutto assumeva il colore del sangue.

— Alla salute di Woland! — esclamò Margherita alzando il bicchiere.

Tutti e tre portarono i bicchieri alle labbra e trangugiarono un grande sorso. Immediatamente la luce pretemporalesca cominciò a spegnersi negli occhi del Maestro, il suo respiro si fermò ed egli sentí che giungeva la fine. Vide ancora Margherita che, diventata mortalmente pallida, gli protendeva sgomenta le braccia, poi lasciava cadere la testa sul tavolo e scivolava a terra.

— Avvelenatore!… — fece ancora in tempo a gridare il Maestro. Voleva afferrare sul tavolo un coltello per colpire Azazello, ma la sua mano, priva di forza, scivolò dalla tovaglia, tutto quanto lo circondava nello scantinato assunse una tinta nera, poi scomparve del tutto. Cadde supino, e nella caduta si graffiò la tempia contro l’angolo della scrivania.

Quando i due avvelenati furono immobili Azazello si mise all’opera. Per prima cosa, si lanciò dalla finestra e qualche istante dopo si trovava nella palazzina di Margherita Nikolaevna. Sempre preciso e accurato, Azazello voleva controllare che tutto fosse stato fatto a dovere. E tutto risultò a posto. Azazello vide una donna tetra, che aspettava il ritorno del marito, uscire dalla camera da letto, impallidire all’improvviso, afferrarsi il petto, e, col grido disperato: — Nataša… qualcuno… aiuto… — stramazzare in terra nel salotto senza arrivare fino allo studio.

— Tutto è a posto, — disse Azazello. Un attimo dopo era presso gli amanti abbattuti: Margherita giaceva con la faccia affondata nel tappeto. Con le sue mani d’acciaio, Azazello la voltò come una bambola, con il viso verso di sé, e la fissò. Davanti ai suoi occhi, il volto dell’avvelenata cambiava. Perfino nel buio temporalesco che si stava diffondendo, si vedeva sparire il suo temporaneo strabismo di strega, e la crudeltà e la turbolenza dei lineamenti. Il volto della defunta divenne piú puro, e, finalmente, addolcí, e i suoi denti digrignanti non le davano piú un’espressione rapace, ma solo di femmineo dolore. Allora Azazello le dischiuse i bianchi denti e le versò in bocca alcune gocce di quello stesso vino con cui l’aveva avvelenata. Margherita sospirò, cominciò a sollevarsi senza l’aiuto di Azazello, e mettendosi a sedere chiese con voce debole:

— Perché, Azazello, perché? Che cosa mi ha fatto?

Vedendo il Maestro disteso, sussultò e mormorò:

— Questo non me lo aspettavo… assassino!

— Ma no, ma no, — rispose Azazello, — adesso si alzerà. Oh, perché è cosí nervosa?

Margherita gli credette subito, tanto la voce del rosso demonio era convincente. Essa balzò in piedi, energica e viva, e lo aiutò a far bere del vino all’uomo disteso. Aperti gli occhi, quello lanciò un’occhiata cupa e con odio ripeté la sua ultima parola:

— Avvelenatore…

— Eh, l’insulto è la ricompensa abituale di un lavoro ben fatto, — rispose Azazello. — Ma è cieco, lei? Ricuperi presto la vista!

Allora il Maestro si alzò, si guardò intorno con occhi vivi e limpidi, e chiese:

— Che significa questa novità?

— Significa, — rispose Azazello, — che è ora. Già romba il temporale, sente? Si sta facendo buio. I cavalli scalpitano, il giardino sussulta. Salutate lo scantinato, salutate in fretta.

— Ah, capisco, — disse il Maestro guardandosi in giro. Lei ci ha uccisi, noi siamo morti. Che soluzione intelligente! E com’è tempestiva! Adesso ho capito tutto.

— Ma per carità, — rispose Azazello, — proprio lei dice questo? Lei che la sua compagna chiama Maestro, lei, che sta pensando, come può essere morto? Forse che, per considerarsi vivo, bisogna per forza starsene in questo scantinato con la camicia e le mutande dell’ospedale? E ridicolo!…

— Ho capito tutto quello che lei ha detto, — esclamò il Maestro, — inutile continuare! Lei ha mille volte ragione!

— Grande Woland! — echeggiò Margherita, — grande Woland! Ha avuto un’idea molto migliore della mia! Ma il romanzo, il romanzo, — gridava al Maestro, — portati dietro il romanzo, dovunque tu volerai!

— Inutile, — rispose il Maestro, — lo so a memoria.

— Ma non dimenticherai… non dimenticherai neppure una parola? — chiedeva Margherita stringendosi all’amante e asciugandogli il sangue sulla tempia ferita.

— Non preoccuparti. Da questo momento non dimenticherò mai niente, — rispose lui.

— Allora, il fuoco! — esclamò Azazello. — Il fuoco da cui tutto è cominciato e col quale facciamo terminare tutto!

— Il fuoco! — gridò con voce terribile Margherita. La finestra dello scantinato sbatté, il vento spinse da una parte la tenda. Nel cielo risuonò un tuono allegro e breve. Azazello cacciò nella stufa la mano artigliata, ne trasse fuori un tizzone fumante e diede fuoco alla tovaglia sul tavolo. Diede poi fuoco a un pacco di vecchi giornali sul divano, e al manoscritto e alla tendina della finestra.

Il Maestro, già inebriato dall’imminente cavalcata, buttò giú dallo scaffale sul tavolo un libro, ne arruffò le pagine nella tovaglia fiammeggiante, e il libro fu avvolto da un’allegra fiammata.

— Brucia, brucia, vita passata!

— Brucia, sofferenza! — gridava Margherita.

La stanza stava già ondeggiando tra colonne purpuree, e insieme col fumo i tre uscirono di corsa dalla porta, risalirono la scala di pietra e si ritrovarono nel cortile. La prima cosa che videro fu la cuoca del capomastro, seduta in terra. Vicino a lei erano sparpagliate delle patate e alcuni mazzetti di cipolle. Lo stato della cuoca era comprensibile. Tre cavalli neri sbuffavano vicino al ripostiglio, fremevano e, scalpitando, alzavano spruzzi di terra. Margherita balzò in sella per prima, la seguí Azazello, ultimo fu il Maestro. La cuoca, gemendo, voleva alzare la mano per farsi il segno della croce, ma Azazello gridò minaccioso dalla sella:

— Ti taglio la mano! — Gettò un fischio e i cavalli, spezzando i rami dei tigli, si alzarono in volo e s’infilarono in una bassa nuvola nera. Immediatamente dal finestrino dello scantinato il fumo si riversò fuori. Dal basso giunse il debole pietoso grido della cuoca:

— Al fuoco…

I cavalli stavano già volando sopra i tetti di Mosca.

— Voglio salutare la città, — gridò il Maestro ad Azazello che volava davanti. Il tuono inghiottí la fine della frase. Azazello fece un cenno affermativo con la testa e lanciò il cavallo al galoppo. Incontro a loro si precipitava una nuvola, ma non spruzzava ancora pioggia.

Volavano sopra un viale e vedevano minuscole figure di uomini che si disperdevano per ripararsi dalla pioggia. Cadevano le prime gocce. Volarono sopra un nugolo di fumo, tutto quel che rimaneva della casa di Griboedov. Volarono sopra la città, che l’oscurità stava già sommergendo. Sopra di loro fiammeggiavano lampi. Poi i tetti furono sostituiti dal verde. Solo allora la pioggia scrosciò, trasformando i volatori in tre enormi bolle nell’acqua.

Margherita conosceva già la sensazione del volo, ma non la conosceva il Maestro, ed egli si stupí della velocità con la quale arrivarono alla meta, presso colui che egli desiderava salutare perché non c’era nessun altro al quale egli potesse dire addio. Riconobbe subito nel velo della pioggia l’edificio della clinica di Stravinskij, il fiume e il bosco sull’altra riva, che conosceva cosí bene. Si abbassarono su una radura nel bosco, poco distanti dalla clinica.

— Vi aspetterò qui, — gridò Azazello mettendo le mani attorno alla bocca, ora illuminato dai lampi, ora scomparendo nel velo grigio, — salutate, ma sbrigatevi!

Il Maestro e Margherita balzarono dalle selle e volarono, baluginando come ombre d’acqua, attraverso il giardino della clinica. Un attimo dopo, il Maestro con mano pratica scostava l’inferriata del balcone nella stanza n. 117. Margherita lo seguiva. Entrarono da Ivanuška, invisibili e inosservati, tra il fracasso e l’ululo del temporale. Il Maestro si fermò vicino al letto.

Ivanuška, giaceva immobile, come allora, quando per la prima volta osservava il temporale nella casa dove aveva trovato riposo. Ma non piangeva come quella volta. Quando alla fine riuscí a distinguere la sagoma scura che aveva fatto irruzione dal balcone, si sollevò, protese le braccia e disse con gioia:

— Ah, è lei! L’aspettavo, l’aspettavo da tanto! Eccola finalmente, vicino mio!

Il Maestro rispose:

— Sono qui, ma purtroppo non posso piú essere suo vicino. Me ne vado per sempre, e sono venuto solo per salutarla.

— Lo sapevo, l’ho intuito, — rispose sommesso Ivan, e chiese: — Lo ha incontrato?

— Sí, — disse il Maestro, — sono venuto a dirle addio perché lei è l’unica persona con cui io abbia parlato negli ultimi tempi.

Ivanuška si illuminò e disse:

— Ha fatto bene a passare di qui. Io manterrò la mia parola, non scriverò piú poesiucce. Adesso m’interessa altro, — Ivanuška sorrise e guardò con occhi spiritati oltre il Maestro, — voglio scrivere altro. Mentre ero qui, sa, ho capito molte cose.

Il Maestro si emozionò a sentire quelle parole e disse, sedendosi sul bordo del letto:

— Bene, questo sí che è bene. Scriva il seguito su di lui. Gli occhi di Ivanuška fiammeggiarono.

— E lei non lo farà? — Qui abbassò la testa e soggiunse, pensieroso: — Ah sí, che domanda, la mia… — Ivanuška sbirciò il pavimento e guardò spaventato.

— Sí, — disse il Maestro, e la sua voce sembrò a Ivanuška sconosciuta e sorda, — non scriverò piú di lui. Altro mi occuperà.

Il fragore del temporale fu squarciato da un fischio lontano.

— Sente? — chiese il Maestro.

— È il temporale…

— No, chiamano me, è ora, — spiegò il Maestro e si alzò dal letto.

— Aspetti! Una parola ancora, — pregò Ivan. — Ha ritrovato lei? Le era rimasta fedele?

— Eccola, — rispose il Maestro e indicò la parete. Dalla bianca parete si distaccò, scura, Margherita, che si avvicinò al letto. Guardava il giovane disteso, e nei suoi occhi si leggeva l’afflizione.

— Povero, povero Ivan, — sussurrò Margherita con le sole labbra, chinandosi sul letto.

— Com’è bella, — disse Ivan senza invidia, ma con mestizia e con una placida commozione, — guarda come le cose si sono messe bene per voi. Per me invece no, — qui rifletté, e aggiunse, pensieroso: — o forse sí, invece…

— Sí, sí, senz’altro, — sussurrò Margherita e si chinò completamente su di lui. — Adesso le do un bacio e tutto per lei andrà bene… mi creda, ho già visto di tutto, so tutto…

Il giovane, steso sul letto, le abbracciò il collo, ed essa lo baciò.

— Addio, discepolo, — disse il Maestro con voce appena percettibile e cominciò a dissolversi nell’aria. Scomparve, e con lui scomparve Margherita. L’inferriata del balcone si chiuse.

Ivanuška divenne irrequieto. Si sedette sul letto, si guardò preoccupato in giro, gemette perfino, cominciò a parlare con se stesso, si alzò. Il temporale imperversava sempre piú forte e, evidentemente, lo rendeva agitato. Era anche inquieto perché dietro la porta, col suo udito ormai assuefatto al costante silenzio, aveva afferrato passi rapidi e voci sorde. Chiamò, cominciando a innervosirsi e a sussultare:

— Praskov’ja Fëdorovna!

Praskov’ja Fëdorovna stava già entrando nella stanza, guardando Ivanuška con espressione interrogativa e preoccupata.

— Che cosa? Che cosa c’è? — chiedeva. — La turba il temporale? Niente, niente… adesso l’aiuteranno… adesso chiamo il dottore…

— No, Praskov’ja Fëdorovna, non è il caso di chiamare il dottore, — disse Ivanuška guardando inquieto non Praskov’ja Fëdorovna, bensí la parete, — non ho niente di speciale. Adesso comincio a capire, non si preoccupi. Mi dica piuttosto, — pregò Ivan con voce carezzevole, — che cos’è successo lí vicino, nella stanza 118?

— Nella 118? — ripeté la domanda Praskov’ja Fëdorovna, e i suoi occhi diventarono sfuggenti. — Niente, proprio niente — . Ma la sua voce era falsa. Ivanuška se ne accorse subito e disse:

— Eh, Praskov’ja Fëdorovna! Lei è una persona sincera… Crede che darò in escandescenze? No, Praskov’ja Fëdorovna, questo non succederà. E meglio che lei dica la verità, tanto io sento tutto attraverso la parete.

— E morto adesso il suo vicino, — sussurrò Praskov’ja Fëdorovna, incapace di vincere la sua sincerità e bontà, e, tutta rivestita della luce d’un fulmine, guardò spaventata Ivanuška. Ma ad Ivanuška non successe nulla di terribile. Si limitò ad alzare il dito con fare significativo e disse:

— Lo sapevo! Le assicuro, Praskov’ja Fëdorovna, che in questo momento in città è morta anche un’altra persona. So perfino chi è, — qui Ivanuška sorrise con aria misteriosa: — è una donna!




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