Non andrò, certo, pensò Vickers. Non posso andare. Non vi andrei per nessuna ragione al mondo, ormai. Quel luogo non significa più niente per me, ormai, e io non voglio che significhi più nulla, dopo tutti gli anni che ho trascorso cercando di dimenticarlo.
Avrebbe potuto chiudere gli occhi e vederlo… l’argilla gialla dei campi di granoturco dilavati dalle piogge, le strade tutte bianche di polvere che si snodavano tra le valli e lungo le creste, le solitarie cassette della posta sui pali desolati delle staccionate, i cancelli malfermi, le case sciupate dalle intemperie, il bestiame magro che scendeva il viottolo, seguendo la pista piena di solchi, segnata dai loro zoccoli, i cani rognosi che correvano fuori ad abbaiare, quando passavi davanti alle fattorie…
Se ritorno mi chiederanno perché ci sono andato, e come me la passo, e tutto il resto. «Peccato per tuo padre, era un così brav’uomo.» Se ne staranno seduti sulle casse rovesciate davanti all’emporio e masticheranno lentamente il tabacco, e sputeranno sui marciapiedi e mi guarderanno socchiudendo gli occhi e diranno. «Dunque scrivi dei libri. Perdio, un giorno o l’altro dovrò proprio leggerne uno. Non ne ho mai sentito parlare.»
Sarebbe andato al cimitero e avrebbe sostato davanti a una tomba con il cappello in mano, ad ascoltare il vento gemere tra i pini possenti della cinta, e avrebbe pensato: «Se almeno avessi combinato qualcosa in tempo perché lo sapeste, perché voi due aveste potuto essere fieri di me e darvi un poco d’arie quando i vicini venivano a trovarvi… Ma naturalmente non è stato così.»
Avrebbe percorso le strade che aveva conosciuto da bambino, e avrebbe fermato la macchina vicino al ruscello, sarebbe sceso e avrebbe scavalcato la recinzione di filo spinato, e sarebbe sceso alla lanca dove prendeva sempre i ghiozzi e il ruscello sarebbe stato un rigagnolo, e la lanca sarebbe stata un’insaccatura fangosa del rigagnolo, e l’albero sotto cui si sedeva un tempo sarebbe stato portato via da qualche piena primaverile. Avrebbe guardato le colline e gli sarebbero apparse familiari e nello stesso tempo estranee, e lui avrebbe cercato di capire cos’avevano che non andava, e non sarebbe riuscito a capirlo, e avrebbe proseguito, pensando al ruscello e alle colline diventati sconosciuti, sentendosi più solo a ogni istante che passava. E poi, alla fine, sarebbe fuggito. Avrebbe schiacciato l’acceleratore a tavoletta, e si sarebbe aggrappato al volante, cercando di non pensare.
E poi… finalmente lo ammetteva… e poi, e poi, sarebbe passato davanti alla grande casa di mattoni con il portico e le roste a ventaglio sopra la porta. Sarebbe passato molto lentamente, e l’avrebbe guardata, e avrebbe visto che le imposte erano malferme, la vernice era scrostata, e le rose un tempo in fiore accanto al cancello erano morte, avvizzite e raggelate dai rigori di qualche passato, gelido inverno.
Non ci andrò, si disse. Non ci andrò.
Eppure, forse doveva andare.
Poteva servire a togliere la polvere, aveva scritto Flanders, e aiutarlo a vedere con occhi più limpidi.
Che cosa poteva fargli vedere, con occhi più limpidi?
C’era qualcosa, laggiù, tra i viottoli della sua infanzia, che poteva piegare la situazione, qualche realtà nascosta, qualche simbolo astratto che prima gli era sfuggito? Qualcosa, forse, che aveva già visto, magari molte volte, ma che non aveva mai riconosciuto?
Oppure lui si lasciava trasportare troppo dall’immaginazione, leggeva un significato in parole che non ne avevano? Come poteva essere così sicuro che Horton Flanders, con il suo abito logoro e il ridicolo bastone da passeggio, avesse qualcosa a che fare con la storia narrata da Crawford a proposito dell’umanità messa con le spalle al muro?
Non c’era la minima prova.
Eppure Flanders era scomparso, e gli aveva scritto una lettera.
Togliere la polvere, aveva detto Fladers, per vedere meglio. E poteva avere voluto dire una cosa sola: che lui doveva togliere quella polvere per scrivere meglio, perché il manoscritto che stava sulla sua scrivania potesse diventare migliore, poiché il suo creatore avrebbe guardato la vita e i propri simili con occhi sgombri della polvere. La polvere del pregiudizio, forse, o quella della vanità, o forse la polvere che impediva semplicemente di vedere con chiarezza.
Vickers posò una mano sul manoscritto, e ne fece scorrere i fogli con il pollice, con un gesto assente, quasi affettuoso. Aveva fatto così poco, pensò, e c’era ancora tanto da fare.
E adesso, da due giorni, non vi aveva lavorato affatto. Due interi giorni sprecati.
Per scrivere come doveva, aveva bisogno di potersi mettere seduto, sereno e concentrato, per chiudere fuori il mondo, e poi lasciare che il mondo venisse a lui, un poco per volta, un mondo estremamente selezionato, da analizzare e rendere con una chiarezza, una nitidezza inequivocabili.
Sereno, pensò. Mio Dio, come può essere sereno un uomo quando mille domande e mille dubbi gli assillano la mente?
Abiti da quindici centesimi, aveva detto Ann al telefono. Abiti da quindici centesimi, in un negozio della Quinta Strada.
C’era qualche fattore che lui trascurava, qualche fattore in piena luce, e bastava guardarlo.
Era sembrato tutto così semplice, meno di due giorni prima. La vita si era svolta normalmente, anche se i fattori d’inquietudine erano stati tutti là; ma lui aveva lavorato, e non aveva pensato più di tanto all’invito di Ann, né si era posto tante domande sulle cose che aveva visto intorno a lui. Era come se da quel momento avesse visto le cose con una percezione diversa, o forse le cose si erano fatte vedere a lui in modo diverso, perché lui si tormentasse di dubbi e di problemi.
Prima c’era stata la bambina che era venuta a fare colazione con lui, e poi il giornale che aveva letto. Poi era andato in paese a prendere la macchina, ed Eb gli aveva parlato delle automobili Aeterna, e poiché la sua macchina non era stata pronta, lui era andato all’angolo del drugstore per prendere l’autobus, e il vecchio signor Flanders l’aveva raggiunto mentre stava guardando la vetrina del negozio di casalinghi, e aveva detto…
Un momento. Lui era andato all’angolo del drugstore per prendere l’autobus.
C’era qualcosa a proposito dell’autobus, qualcosa che gli turbava la mente.
Lui era salito sull’autobus, e si era seduto accanto al finestrino. Si era seduto e aveva guardato fuori e nessun altro era venuto a sedersi accanto a lui. Era andato in città senza avere nessuno vicino.
Ecco, pensò: e mentre lo pensava, provò un’euforia frenetica, e poi un senso di orrore indicibile per un episodio dimenticato, e per un momento restò immobile, cercando disperatamente di cancellare l’episodio di tanti anni prima. Restò lì e attese, e l’episodio non voleva saperne di cancellarsi, ed era impossibile sfuggirlo, e lui sapeva quel che doveva fare.
Tornò alla scrivania, tirò fuori il primo cassetto di sinistra e lentamente, metodicamente, ne tolse il contenuto, oggetto per oggetto. Poi ripeté il procedimento con tutti i cassetti e non trovò ciò che cercava.
Lo troverò, da qualche parte, pensò. Era una cosa che non avrei mai gettato via.
In soffitta, magari. In una delle casse, in soffitta.
Salì la scala, e, arrivato in cima, sbatté le palpebre nella luce della lampada senza paralume che pendeva dal soffitto. L’aria era fredda, notò, e la nudità delle travi che scendevano ai due lati come fauci poderose in procinto di serrarsi su di lui accrebbe quel senso alieno di freddo.
Dalla scala, Vickers avanzò verso le casse spinte nell’angolo. In quale delle tre l’avrebbe trovato, più probabilmente? Era impossibile indovinarlo.
Perciò incominciò dalla prima, e lo trovò a metà altezza, sotto a un paio di fucili che aveva cercato invano l’autunno precedente, e che aveva dato per persi.
Aprì il taccuino, e lo sfogliò, fino a quando arrivò alle pagine che cercava.