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Prima che si facesse buio, Vickers scelse un posto per accamparsi, un boschetto attraversato da un corso d’acqua.

Si sfilò la camicia e la legò a un bastone per formare una specie di rete da pesca, poi scese in una pozza del ruscello, e dopo qualche esperimento, imparò a usare la rete nel modo migliore. Dopo un’ora, aveva catturato cinque pesci piuttosto grossi.

Li pulì con il temperino, accese il fuoco con un fiammifero soltanto e si complimentò con se stesso per la sua abilità nel vivere nei boschi.

Cucinò uno dei pesci e lo mangiò. Non fu molto facile mandarlo giù, perché non aveva sale, e non lo aveva cotto da esperto… per metà era bruciacchiato dalla fiamma, per metà era semicrudo. Ma lui aveva una fame tremenda, e il pesce non gli sembrò male, almeno fino a quando ebbe saziato in parte l’appetito. Dopo, fu un po’ difficile trangugiare il resto, ma si fece forza e ci riuscì, perché sapeva che lo attendevano giornate dure, e per superarle doveva nutrirsi meglio che poteva.

Ormai si era fatto buio: Vickers si rannicchiò accanto al fuoco. Cercò di riflettere, ma era troppo stanco. Si accorse di essersi assopito mentre era ancora seduto.

Dormì, si svegliò e si accorse che il fuoco si era spento e il cielo era ancora buio, e preparò di nuovo il fuoco, mentre si sentiva coprire da un sudore gelido. Le fiamme offrivano protezione e non soltanto il calore e la possibilità di cucinare: e durante la marcia, quel giorno, aveva scorto non soltanto dei lupi, ma anche degli orsi, e una volta una sagoma fulva era sfrecciata attraverso un boschetto al suo passaggio, troppo veloce perché lui potesse riconoscerla.

Si svegliò di nuovo e l’alba era nel cielo. Riattizzò il fuoco e cucinò gli altri pesci. Ne mangiò uno intero e parte di un altro, e gli altri, unti com’erano, se li ficcò in tasca. Avrebbe avuto bisogno di nutrirsi durante il giorno, e non voleva perdere tempo fermandosi ad accendere il fuoco.

Si aggirò nel boschetto e trovò un bastone solido e diritto, lo collaudò con il suo peso, e pensò che sarebbe andato bene. Gli sarebbe servito per camminare, e poteva essere abbastanza utile, se fosse stato costretto a difendersi. Si frugò in tasca per assicurarsi di non avere dimenticato nulla. Aveva il temperino e i fiammiferi, che erano le cose più importanti. Avvolse con cura i fiammiferi nel fazzoletto, poi si tolse la biancheria e li avvolse anche in quella. Se fosse stato sorpreso dalla pioggia o fosse caduto nell’attraversare un ruscello, in quel modo forse i fiammiferi sarebbero rimasti asciutti. E ne aveva bisogno. Dubitava seriamente di essere in grado di accendere il fuoco con le selci o con il sistema dei bastoncini usato dai boy scout.

Si mise in cammino prima del levar del sole, sempre verso nord-ovest: andava più lentamente del giorno prima, perché ora si rendeva conto che non era importante la velocità, bensì l’energia. Sarebbe stato uno sciocco se avesse consumato le proprie forze in quei primi giorni di marcia.

Prese del tempo compiendo un’ampia deviazione, nel pomeriggio, per aggirare una grossa mandria di bisonti. La notte si accampò in un altro boschetto, dopo essersi fermato un’ora prima per prendere un altro po’ di pesci con la sua rete improvvisata. Nel boschetto trovò qualche arbusto di more selvatiche, che portavano ancora alcuni frutti, e così mangiò anche quelle, dopo il pesce.

Il sole si alzò e Vickers si rimise in cammino. Il sole tramontò.

Poi cominciò un altro giorno, e Vickers continuò. E un altro, e un altro ancora.

Prendeva pesci. Trovava bacche. Trovò un cervo ucciso da poco, senza dubbio da qualche animale che, a quanto pareva, era fuggito al suo avvicinarsi. Con il temperino riuscì a staccare alcune fette irregolari di carne, tutte quelle che poteva portare con sé. Anche senza sale, la carne era una variante gradita, dopo il pesce. Imparò persino a mangiarne un po’ cruda, tagliandone un boccone e masticandolo metodicamente mentre camminava. Gli ultimi avanzi dovette buttarli via perché cominciavano a puzzare.

Perse il conto del tempo. Non sapeva quante miglia avesse coperto, né quanto poteva essere ancora lontano dalla sua destinazione, e neppure se sarebbe riuscito a trovarla.

Le scarpe si spaccarono, e lui le riempì d’erba secca e le legò con strisce di stoffa tagliate dai pantaloni.

Un giorno si inginocchiò per bere a una polla d’acqua e nell’acqua limpida come cristallo vide la faccia d’uno sconosciuto che lo fissava. Con un sussulto, comprese che quella faccia era la sua: un uomo barbuto, lacero e sporco, segnato dalla fatica.

I giorni venivano e andavano. Vickers avanzava verso nord-ovest. Continuava a muovere un piede dopo l’altro, quasi automaticamente. Dapprima il sole lo scottò, poi lo abbronzò. Attraversò un fiume ampio e profondo, a cavalcioni di un tronco. Impiegò parecchio nella traversata, e una volta per poco il tronco non si girò immergendolo nell’acqua, ma ce la fece.

Continuava ad avanzare. Non c’era altro da fare.

Camminava in quella terra deserta, senza tracce di presenza umana, benché fosse una zona ospitale per gli uomini. Il suolo era ricco e l’erba cresceva alta e fitta e gli alberi che si innalzavano al cielo lungo i corsi d’acqua, erano diritti e torreggiavano altissimi contro lo sfondo azzurro.

Poi un giorno, poco prima del tramonto, Vickers giunse in cima ad un’altura, e vide il terreno che scendeva, davanti a lui, incurvandosi verso il nastro lontano di un fiume che gli sembrò di riconoscere.

Ma non fu il fiume ad attirare la sua attenzione; fu il bagliore del sole calante sul metallo, su una larga area metallica, laggiù lontano, lungo il pendio.

Levò la mano per ripararsi gli occhi dalla luce del sole e cercò di distinguere che cosa fosse; ma era troppo lontano, e brillava troppo.

Mentre scendeva il pendio, senza sapere se doveva rallegrarsi o impaurirsi, Vickers non perdeva d’occhio lo scintillare del metallo lontano. Qualche volta lo perdeva di vista, quando si addentrava in una depressione, ma poi lo ritrovava sempre quando arrivava sul dosso, e quindi aveva la certezza che ci fosse realmente.

Finalmente riuscì a capire che quanto vedeva era un complesso di costruzioni… edifici metallici che scintillavano al sole. E poi vide strane sagome che andavano e venivano nell’aria, sopra quelle costruzioni, e intorno c’era un fremito di vita e di attività.

Ma non era una città, non era un paese. Innanzitutto, era troppo metallico. E poi, non c’erano strade che vi arrivassero.

Via via che si avvicinava, Vickers distinse sempre meglio i dettagli: e alla fine, quando fu solo a due o tre chilometri di distanza, si fermò a osservare e capì che cos’era.

Non era una città: era una fabbrica, una fabbrica gigantesca, estesissima, e vi arrivavano in continuazione le strane cose che probabilmente erano aerei, ma che avevano piuttosto l’aria di cassoni volanti. Quasi tutte venivano dal nord e dall’ovest, e volavano a bassa quota, non troppo velocemente, e scendevano per atterrare dietro un gruppo di edifici che si trovavano tra Vickers ed il campo d’atterraggio.

E gli esseri che si muovevano tra gli edifici non erano uomini… O almeno non sembravano uomini, bensì qualcosa d’altro, cose metalliche che balenavano negli ultimi raggi del sole.

Tutto intorno alle costruzioni, montati su grandi torri, c’erano dischi concavi dal diametro di alcuni metri, tutti rivolti verso il sole, e brillavano come se avessero dentro il fuoco.

Vickers si avviò lentamente verso gli edifici e quando fu più vicino si rese conto, per la prima volta, della loro enormità. Coprivano ettari ed ettari, torreggiavano alti parecchi piani, e le cose che correvano tra loro, impegnate a sbrigare molte e misteriose mansioni, non erano uomini, non somigliavano neppure agli uomini, erano macchine autosufficienti.

Vickers qualcuna riusciva a identificarla, ma in maggioranza gli riuscivano irriconoscibili. Vide una macchina da trasporto che passava correndo con un carico di legname stretto nel ventre, e una grande gru avanzò, a cinquanta chilometri orari, pesantemente, facendo dondolare le fauci d’acciaio. Ma ce n’erano altre che sembravano incubi meccanici, e tutte si muovevano come se fossero spinte da una terribile fretta.

Trovò una strada o, se non era una strada, uno spazio aperto tra due edifici, e s’incamminò, tenendosi rasente a una costruzione, perché procedere al centro poteva voler dire giocarsi la vita, dato che le macchine avrebbero potuto travolgerlo.

Giunse davanti a un’apertura dell’edificio: una rampa scendeva fino alla strada, e Vickers salì, guardingo, si affacciò sull’interno. Dentro era illuminato, anche se non riusciva a vedere da dove proveniva la luce: e vide file e file di macchinari in attività. Ma non c’era rumore… e questo, comprese, era ciò che più lo sconvolgeva. Era una fabbrica, e non c’era rumore. C’era un silenzio assoluto, rotto soltanto dal suono del metallo sulla terra, quando le macchine autosufficienti sfrecciavano lungo la strada.

Vickers ridiscese la rampa e continuò a percorrere la strada, tenendosi rasente all’edificio, e uscì sul limitare dell’aeroporto, dove i cassoni volanti atterravano e decollavano.

Guardò le macchine scendere e depositare il carico, grandi cataste di legname appena segato, che subito veniva afferrato dai trasporti e avviato in tutte le direzioni, grandi mucchi di minerale grezzo, molto probabilmente ferro, scaricato nelle fauci di altre macchine che a Vickers sembravano simili ad altrettanti pellicani.

Appena il cassone aveva finito di scaricare ripartiva… decollava senza far rumore, come se un vento misterioso l’avesse afferrato e sollevato nell’aria.

Le macchine volanti arrivavano a fiumi interminabili, deponendo i carichi che venivano ritirati e portati via quasi immediatamente. Niente veniva lasciato lì ammucchiato. Prima che il cassone si risollevasse nell’aria, il suo carico già veniva trasportato altrove.

Come uomini, pensò Vickers… queste macchine si comportavano proprio come uomini. Il funzionamento non era automatico, perché per esserlo, ogni operazione avrebbe dovuto venire eseguita in un certo punto e a un certo momento… e i cassoni non atterravano sempre nello stesso posto, e i loro arrivi non avvenivano a intervalli di tempo regolari. Ma ogni volta che un apparecchio atterrava, una macchina trasportatrice si trovava sempre lì accanto, per occuparsi del carico.

Come esseri intelligenti, pensò Vickers, e in queir istante comprese che lo erano veramente. Erano robot, capì: e ognuno era fatto in modo da svolgere un compito particolare. Non erano i robot antropomorfi che la gente poteva immaginare, bensì macchine pratiche, dotate d’intelligenza e di volontà.

Il sole era tramontato e Vickers, fermo all’angolo dell’edificio, alzò gli occhi verso le torri rivolte verso il sole. I dischi che le sormontavano, vide, stavano girandosi lentamente verso oriente, in modo da trovarsi rivolti verso il sole quando sarebbe sorto l’indomani mattina.

Energia solare, pensò Vickers… e quando aveva sentito parlare dell’energia solare? Ma a proposito delle case dei mutanti! Il piccolo venditore tutto azzimato aveva spiegato a lui e ad Ann che, quando si disponeva d’una centrale solare, si poteva fare a meno di rivolgersi all’azienda elettrica.

E anche lì c’era l’energia solare. Anche lì c’erano macchine senza attrito che funzionavano senza emettere il minimo rumore. Come l’auto Aeterna, non si sarebbero usurate: sarebbero durate per parecchie generazioni.

Le macchine non gli badavano. Era come se non lo vedessero, non sospettassero la sua presenza. Neppure una indugiò mentre gli passava accanto precipitosamente, neppure una si spostò per girargli al largo. Nessuna aveva compiuto un movimento minaccioso verso di lui.

Al tramontare del sole, l’area si illuminò, ma ancora una volta, Vickers non seppe distinguere la sorgente luminosa. L’oscurità non arrestò il lavoro. I cassoni volanti, grandi e angolosi, continuavano ad arrivare, scaricavano e riprendevano il volo. Le macchine da trasporto continuavano a correre. Le lunghe file di macchinari, dentro gli edifici, proseguivano il loro lavoro silenzioso.

I cassoni volanti, si chiese, erano robot anche quelli? E la risposta sembrava sì: probabilmente lo erano.

Vickers continuò ad aggirarsi, tenendosi rasente all’edificio per non farsi travolgere.

Trovò una possente piattaforma da carico, dove le casse, portate dalle macchine, venivano accatastate: altre macchine le caricavano sugli apparecchi volanti che li portavano a destinazione, chissà dove, in una fiumana initerrotta. Vickers si avvicinò cautamente, salì sulla piattaforma, guardò attentamente alcune di quelle casse, cercando di capire cosa contenessero: ma le uniche indicazioni erano lettere e cifre stampigliate. Pensò di forzarne qualcuna, ma non aveva gli utensili per farlo, e aveva un po’ paura di azzardarsi a farlo perché, sebbene le macchine continuassero a non badare a lui, avrebbero potuto intervenire in modo disastroso se avesse tentato di interferire nella loro attività.

Alcune ore dopo, uscì dalla parte opposta dell’ampia zona industriale e se ne allontanò, e poi si voltò indietro e la guardò, e la vide risplendere di quella strana luce, ne captò l’attività operosa.

Guardò la fabbrica e si chiese che cosa produceva, e pensò che forse lo sapeva. Probabilmente lamette per barba e accendini e forse lampadine, e magari anche le case e le auto Aeterna. Forse tutto quanto.

Perché quella, ne era certo, era la fabbrica, o almeno una delle fabbriche che Crawford e la North American Research avevano cercato dovunque senza trovarle.

Non c’era da meravigliarsi, pensò, che non fossero riusciti a trovarle.

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