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Dunque era un mutante, dopotutto, nel corpo di androide, e quando avesse fermato Crawford, sarebbe stato un mutante diciottenne innamorato di una mutante diciassettenne, e prima che morissero c’era la possibilità che l’ascoltatore carpisse il segreto dell’immortalità. E se era così, allora lui e Kathleen avrebbero passeggiato per sempre nelle valli fatate, e avrebbero avuto figli mutanti dotati di straordinarie facoltà d’intuizione, e tutti avrebbero vissuto un’esistenza che gli stessi antichi dei pagani della Terra avrebbero invidiato.

Vickers gettò via le coperte, scese dal letto e si accostò alla finestra. Guardò, al chiaro di luna, la valle fatata in cui aveva passeggiato quel giorno, tanto tempo prima, e vide che la valle era vuota, e vuota sarebbe rimasta, qualunque cosa lui facesse.

Aveva portato in sé quel sogno per più di vent’anni, e adesso che il sogno si avverava, si accorgeva che era contaminato da tutto il tempo trascorso, che non esisteva la possibilità di ritornare a quel giorno del 1966, che un uomo non può ritornare veramente a ciò che ha lasciato.

Non si potevano cancellare gli anni vissuti, non si potevano ammucchiare ordinatamente in un angolo e poi andarsene lasciandoli lì. Potevi cancellarli dalla tua mente e dimenticarli, ma non per sempre, e sarebbe venuto il giorno in cui si sarebbero riaffacciati. E quando ti avessero ritrovato, tu avresti scoperto di aver vissuto non una sola menzogna, ma due.

Quella era la cosa più tremenda: non potevi nasconderti al passato.

La porta si aprì, scricchiolando, e Vickers si voltò.

Sulla soglia stava Hezekiah, e la luce fioca del ballatoio scintillava sul suo involucro di plastica e di metallo.

«Il signore non riesce a dormire?» chiese il robot. «Forse potrei fare qualcosa. Magari un sonnifero, oppure…»

«C’è qualcosa che puoi fare,» disse Vickers. «C’è una documentazione che vorrei vedere.»

«Una documentazione, signore?»

«Sì. Quella della mia famiglia. Devi averla, da qualche parte.»

«In archivio, signore. Posso andarla a prendere subito. Se aspetta un momento…»

«E anche la documentazione dei Preston,» aggiunse Vickers. «Della famiglia Preston.»

«Sì, signore,» disse Hezekiah. «Un momento solo.»

Vickers accese la lampada sul comodino e sedette sull’orlo del letto e comprese ciò che doveva fare.

La valle fatata era un luogo vuoto. Il chiaro di luna che si infrangeva sul candore delle colonne era un ricordo senza vita né colore. Il profumo di rose di quella lontana notte di giugno era stato portato via dal vento di quegli anni.

Ann, si disse. Mi sono comportato troppo a lungo da stupido, con Ann. «Che ne dici, Ann,» disse, sottovoce. «Abbiamo litigato e discusso e ci siamo serviti dei litigi e delle discussioni per nascondere l’amore che entrambi provavamo e se non fosse stato per colpa mia, del mio sogno di quella valle, del sogno che si raffreddava senza che io lo sapessi, avremmo capito da tanto tempo la verità.»

Ci hanno portato via, pensò, a tutti e due, il diritto di vivere la nostra vita nel corpo in cui abbiamo imparato a conoscere il mondo. Hanno fatto di noi due cose che non sono né un uomo né una donna, ma passano per un uomo e per una donna, e noi camminiamo per le vie della vita come ombre che guizzano lungo un muro. E adesso vorrebbero toglierci la dignità della morte, la coscienza di aver compiuto la nostra missione, e ci farebbero vivere una menzogna: io, un androide mosso dalla forza vitale di un uomo che non sono io; e tu, viva d’una vita che non ti appartiene.

«Al diavolo tutti,» disse. «Al diavolo questa doppia vita, questa esitenza di essere artificiale.»

Sarebbe ritornato all’altra Terra e avrebbe cercato Ann Carter e le avrebbe detto che l’amava, non come si poteva amare un ricordo fatto di rose e di chiaro di luna, ma come amano un uomo e una donna quando lo slancio della giovinezza è passato, e insieme vogliono vivere ciò che resta loro della vita, e lui avrebbe scritto i suoi libri, e lei avrebbe continuato il suo lavoro, e avrebbero dimenticato, come potevano, questa faccenda dei mutanti.

Ascoltò la casa, quei lievi mormoni di una casa, di notte, che di giorno non si notano, quando è piena dei suoni umani. E pensò che se ascoltavi attentamente e conoscevi il linguaggio, la casa ti narrava le storie che volevi ascoltare, poteva dirti l’espressione, e il modo in cui veniva pronunciata una parola, e cosa poteva fare o pensare un uomo quando restava solo.

La documentazione non gli avrebbe narrato la storia che voleva conoscere, né tutta la verità che sperava di scoprire: ma gli avrebbe detto chi era stato, e qualcosa del povero contadino e di sua moglie, che erano stati suo padre e sua madre.

La porta si aprì ed entrò Hezekiah, con un fascicolo sotto il braccio. Lo consegnò a Vickers e si fece da parte, in attesa.

Vickers aprì il fascicolo con dita tremanti, ed era tutto lì, sulla pagina.

«Vickers, Jay, n. 5 ago. 1947, v.t. 20 giugno 1966, f.L, s.t., m.L, lat.»

Vickers studiò quella riga, e non aveva senso.

«Hezekiah.»

«Sì, signore.»

«Che cosa significa?»

«A cosa si riferisce, signore?»

«Questa riga,» disse Vickers, indicandola. «Questo v.t. e tutto il resto.»

Hezekiah si piegò e lesse.

«Jay Vickers, nato 5 agosto 1947, vita trasferita 20 giugno 1966, facoltà d’intuizione, senso del tempo, memoria innata, mutazione latente. Vuol dire, signore, che è inconsapevole.»

Vickers diede un’occhiata alla riga più sopra, e trovò i nomi e il luogo, sulla linea tra parentesi, che indicavano il matrimonio, e da cui derivava la linea su cui stava il suo nome.

Charles Vickers, n. 10 genn. 1917, cont. 8 ago. 1938, cons., t., el., m.i., a.s. 6 feb. 1971.

E poi:

Sarah Graham, n. 16 apr. 1920, cont. 12 sett. 1937, cons., ind. comm., t., m.i., a.s. 9 mar. 1970.

I suoi genitori. Due paragrafi di simboli. Tentò di decifrarli.

«Charles Vickers, nato il 10 gennaio 1917, continuato… no, non può essere…»

«Contattato, signore,» disse Hezekiah.

«Contattato 8 agosto, 1938, consapevole, t., el., che significa?»

«Senso del tempo ed elettronica, signore,» disse Hezekiah.

«Senso del tempo?»

«Senso del tempo, signore. Gli altri mondi. Sono una questione di tempo, lo sa.»

«Non lo sapevo,» disse Vickers.

«Il tempo non esiste,» disse Hezekiah. «Non come lo pensano i normali esseri umani, cioè. Non c’è un flusso continuo di tempo, ma parentesi di tempo, un secondo dietro l’altro. Però non esistono i secondi, non esistono misure di questo genere, naturalmente.»

«Lo so,» disse Vickers. E lo sapeva. Adesso ricordava tutto, la spiegazione degli altri mondi, i mondi successivi, ognuno incapsulato in un attimo di tempo, in qualche strana, arbitraria divisione del tempo: ogni parentesi di tempo con il suo mondo… e nessuno poteva sapere o immaginare quanto fosse più indietro o più avanti.

Dentro di lui era scattata una molla segreta, e la memoria innata era sua: lo era sempre stata, ma nascosta, come la sua facoltà d’intuizione era sempre stata nascosta in gran parte nell’inconsapevolezza.

Il tempo non esisteva, aveva detto Hezekiah. Non esisteva nulla di simile a ciò che era il tempo nei termini del normale pensiero umano. Il tempo era racchiuso tra parentesi, e ogni parentesi conteneva una fase di un universo così enormemente al di fuori della comprensione umana che un uomo si trovava di fronte all’impossibilità di immaginarlo.

E il tempo? Il tempo era un mezzo interminabile che si estendeva nel futuro e nel passato… ma non c’erano né futuro né passato, ma un numero infinito di parentesi che si estendevano in entrambi i sensi, ed ogni parentesi racchiudeva una singola fase dell’Universo.

Sulla Terra dove aveva avuto origine l’Uomo erano state formulate ipotesi sui viaggi nel tempo, sulla possibilità di tornare a ieri o di avanzare nel domani. E adesso, lui sapeva che era impossibile, che lo stesso istante di tempo rimaneva in eterno entro ogni parentesi, che la Terra dell’Uomo era rimasta racchiusa nella stessa bolla di un singolo istante dal tempo della sua genesi, e che sarebbe morta e si sarebbe annullata in quel medesimo istante.

Si poteva viaggiare nel tempo, naturalmente, ma non c’era né ieri né domani. Ma se possedevi un certo senso del tempo potevi passare da una parentesi all’altra, e quando lo facevi non trovavi l’ieri o il domani, ma un altro mondo.

Ed era quanto aveva fatto lui quando aveva fatto roteare la trottola… ma naturalmente la trottola non c’entrava affatto, era stata soltanto un mezzo ausiliario.

Continuò a scrutare quella riga.

«A.s. Che cos’è a.s., Hezekiah?»

«Animazione sospesa, signore.»

«Mio padre e mia madre?»

«In animazione sospesa, signore. In attesa del giorno in cui i mutanti conseguiranno finalmente l’immortalità.»

«Ma sono morti, Hezekiah. I loro corpi…»

«I corpi androidi, signore. Dobbiamo far figurare così. Altrimenti i normali si insospettirebbero.»

La stanza era chiara e fredda e nuda della nudità mostruosa della verità.

Animazione sospesa. Sua madre e suo padre attendevano, in stato di animazione sospesa, il giorno in cui avrebbero potuto avere l’immortalità.

E lui, Jay Vickers, il vero Jay Vickers… e lui? Niente animazione sospesa, certamente, perché la vita era stata sottratta al vero Jay Vickers ed era stata immessa in quel corpo androide che stava seduto lì, e reggeva il fascicolo di famiglia tra le mani di androide.

«Kathleen Preston?» chiese Vickers.

Hezekiah scosse il capo. «Non so nulla di Kathleen Preston,» disse.

«Ma hai la documentazione della famiglia Preston.»

Hezekiah scosse di nuovo il capo. «Non c’è nessun fascicolo Preston. Ho consultato l’indice, signore. Non c’è nessun Preston. Nessun Preston, da nessuna parte.»

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