Doveva essere continuato così per anni, prima che lui se ne accorgesse.
All’inizio, dopo averlo notato, aveva fatto qualche ipotesi… ipotesi vaghe, oziose, ancora per metà inconsce. Poi aveva cominciato un’osservazione dettagliata, e quando l’osservazione aveva confermato l’ipotesi oziosa, lui aveva cercato di riderne, ma non era stata una cosa che si potesse liquidare con una risata o scrollando le spalle. Aveva ricominciato l’osservazione, allora, proseguendola per un periodo di un mese, tenendo un diario scritto dei fatti che aveva notato, mano a mano che si erano verificati.
Quando le annotazioni avevano confermato l’evidenza delle sue precedenti osservazioni, aveva cercato di convincersi che era stato uno scherzo dell’immaginazione, ma ormai aveva già accumulato ogni cosa lì, nero su bianco; e aveva saputo che qualcosa di vero doveva esserci.
Il diario diceva che era peggio di quanto avesse immaginato all’inizio, che riguardava non soltanto una fase della sua esistenza, ma molte fasi diverse e distinte. Via via che le prove si accumulavano, lui si era stupito di non averle notate prima, perché si trattava di qualcosa che avrebbe dovuto risultare ovvio fin dall’inizio.
Tutto era cominciato con la riluttanza dei compagni di viaggio a sedersi sull’autobus accanto a lui. A quel tempo, lui viveva in una vecchia, malconcia pensione alla periferia della città, presso il capolinea. La mattina si alzava e, poiché era uno dei pochi che salivano in quel punto, andava a sedersi al suo posto preferito.
L’autobus si riempiva poco a poco a ogni fermata, ma doveva arrivare verso la fine della corsa, perché qualcuno gli sedesse accanto. La cosa non gli dava fastidio, naturalmente: anzi, gli stava bene così, perché poteva calcarsi il cappello sugli occhi e abbandonarsi sul sedile a pensare, e magari a sonnecchiare anche un po’, senza dovere mai pensare alle esigenze dell’educazione. Non che lui fosse mai particolarmente educato, adesso lo ammetteva. Andava a lavorare troppo presto perché se la sentisse di essere educato a quell’ora.
I passeggeri salivano sull’autobus e sedevano accanto ad altre persone: non necessariamente persone di loro conoscenza, perché talvolta, Vickers l’aveva notato, non si scambiavano una sola parola per l’intero tragitto. Sedevano accanto agli altri, mai vicino a lui fino all’ultimo, fino a quando tutti gli altri posti erano occupati, e dovevano sedergli accanto per non rimanere in piedi.
Forse, si era detto, lui aveva un cattivo odore; forse era l’alito cattivo.
Da allora, aveva fatto del bagno un vero rituale, usando un nuovo sapone che prometteva di dargli uno splendido profumo di freschezza. Aveva visto innumerevoli inserti pubblicitari nei quali il protagonista, dapprima rifuggito dai propri simili, otteneva risultati eccezionali grazie a quella schiuma speciale, o a quel sapone, o a quel prodotto: e lui aveva seguto i consigli della pubblicità. Si era spazzolato i denti con maggior cura, e aveva usato un colluttorio, fino a quando si era sentito venire la nausea al solo guardarlo.
E non era servito a nulla; nessuno gli sedeva accanto.
Si era guardato nello specchio, e aveva capito che non era per i suoi abiti, perché in quei tempi era andato sempre in giro azzimato come un figurino.
Perciò, aveva concluso, il difetto doveva nascondersi nel suo atteggiamento. Così, invece che afflosciarsi sul sedile e calcarsi il cappello sugli occhi, se ne era stato seduto eretto, assumendo un’espressione sveglia e cordiale, e sorridendo a tutti. Avrebbe sorriso, perdio, a costo di screpolarsi la faccia.
Per una settimana intera aveva continuato a sorridere con aria simpatica alla gente che lo guardava, come se fosse stato un giovane uomo d’affari in ascesa, che aveva letto Dale Carnegie e apparteneva alla Junior Chamber.
Per una settimana intera aveva continuato a sorridere al mondo, facendosi forza per resistere al pensiero di poter essere scambiato per uno stupido.
E nessuno si sedeva vicino a lui… finché c’erano altri posti liberi. Lo consolava un po’ sapere che preferivano sedergli accanto, piuttosto che stare in piedi.
Poi, gradualmente, aveva cominciato a notare altre cose.
In ufficio, per esempio. Gli altri si facevano sempre visita l’un l’altro, si radunavano in gruppetti di tre o quattro intorno a una delle scrivanie, a parlare dei punteggi realizzati al golf o a raccontare l’ultima barzelletta sconcia, o a chiedersi perché diavolo qualcuno restava a lavorare in un posto simile quando ci si poteva facilmente procurare un impiego migliore.
Nessuno, notò, veniva mai a fermarsi alla sua scrivania.
Allora aveva provato ad andare lui alle scrivanie degli altri, unendosi ai gruppetti. Dopo pochi minuti, invariabilmente, gli altri se ne tornavano alla spicciolata ai loro posti. Aveva provato a soffermarsi, per passare il tempo, con quelli che erano soli. Non erano stati scortesi, no, certo: anzi, erano stati sempre abbastanza affabili, ma avevano sempre avuto tanto da fare. Il lavoro arretrato si accumulava, gli impegni della giornata si succedevano. Vickers non si fermava mai a lungo.
Allora, aveva fatto un bilancio della propria conversazione. Forse lui non aveva quei requisiti che rendevano una persona di piacevole compagnia, desiderata e richiesta dagli altri. Ma i suoi requisiti gli parevano abbastanza soddisfacenti. Non giocava a golf, certo, ma conosceva diverse barzellette sconce, e leggeva quasi tutti i libri di successo, e andava regolarmente al cinema, vedendo tutti i film migliori non appena uscivano. Conosceva un po’ la politica dell’ufficio, e sapeva imprecare quanto gli altri contro il principale. Leggeva i giornali e sfogliava i settimanali e sapeva come andavano le cose, ed era perfettamente in grado di discutere di politica, e aveva un’opinione da profano sulle questioni militari. Con tutte queste doti, pensava, doveva essere in grado di sostenere degnamente una conversazione. Eppure, pareva che nessuno avesse voglia di parlare con lui.
A pranzo era la stessa cosa. Era la stessa cosa, dal momento in cui aveva cominciato a notarlo, dovunque andava.
Lui aveva scritto tutto, con le date e i resoconti giornalieri: e adesso, dopo quindici anni, se ne stava seduto su di una cassa, in una soffitta vuota, e rileggeva le parole che aveva scritto. Guardò fisso nel vuoto, e ricordò come era andata, ciò che aveva provato e detto e fatto, compreso il particolare che aveva dato inizio a tutto, il fatto che nessuno gli sedeva vicino fino a quando tutti gli altri posti erano occupati. Ed era stato così, ricordò, anche l’ultima volta che era andato a New York, proprio l’altro giorno.
Per questo aveva dimenticato l’esistenza degli autobus. Chissà come, chissà per quale motivo, il suo subcosciente aveva accantonato quel dato insieme al problema che aveva comportato. Perché a nessuno piace di sentirsi solo. A nessuno piace di sapere che qualcuno non desidera sedersi accanto a lui, senza una ragione al mondo, a meno che non sia costretto a restarsene in piedi.
Quindici anni prima lui si era domandato il perché, e non aveva trovato la risposta.
E adesso era lo stesso.
Forse, in qualche modo, lui era diverso? Oppure c’era in lui una carenza, una stranezza della sua personalità che gli negava la scintilla vitale, il calore immediato del cameratismo?
Non c’era stato solo il fatto che nessuno si sedeva vicino a lui, che nessun capannello si radunava intorno alla sua scrivania, che il suo tavolino era sempre solitario, anche quando il ristorante era affollato. C’era stato qualcosa di più… dettagli più sfuggenti che era impossibile mettere sulla carta. Il senso di solitudine che aveva sempre provato… non le fitte improvvise che ciascuno prova, di tanto in tanto, ma un senso continuo di ’diversità’ che l’aveva costretto a stare lontano dai suoi simili, che aveva spinto i suoi simili a stare lontani da lui. La sua incapacità di avviare amicizie, il suo enorme senso di dignità, la sua riluttanza ad adeguarsi a certe norme sociali.
Erano state queste caratteristiche, ne era sicuro… sebbene fino a ora non ci avesse mai pensato da quel punto di vista… che lo avevano spinto a stabilirsi in quel paesino isolato, che l’avevano limitato a una piccola cerchia di conoscenze, l’avevano avviato all’attività solitaria dello scrittore, impegnato a riversare sulla carta le emozioni represse e i pensieri solitari che dovevano pure trovare uno sfogo.
Su quella diversità aveva costruito la propria vita: forse era proprio da quella diversità che era scaturito il suo modesto successo.
Si era sistemato in un solco creato da lui stesso, un solco levigato e amato, e poi era accaduto qualcosa che l’aveva strappato via. Era incominciato con la bambina venuta a trovarlo, e poi Eb che aveva parlato dell’automobile Aeterna, e poi c’era stato Crawford, e le strane parole di Flanders, sotto al portico e sotto lo scintillare delle stelle, e infine il taccuino ricordato dopo tanti anni e ritrovato in quella vecchia cassa, in soffitta.
Automobili eterne e carboidrati sintetici, Crawford che parlava di un mondo con le spalle al muro… inspiegabilmente, lui intuiva che era tutto connesso, e che lui stesso era in qualche modo legato a tutto.
Ed era esasperante, esserne convinto senza un’ombra di prova, senza la minima ragione, senza un solo indizio su quella che poteva essere la sua parte.
Era sempre stato così, si rese conto, anche nelle piccole cose… la sensazione spaventosa che gli sarebbe bastato tendere la mano per toccare una certa verità, senza poter mai arrivare ad afferrarla.
Era assurdo sapere che una cosa era giusta, senza sapere il perché: sapere che era stato giusto rifiutare l’offerta di Crawford, quando ogni fattore lo spingeva ad accettarla; aver saputo fin dall’inizio che Horton Flanders non sarebbe più stato ritrovato, quando non c’era motivo di sospettarlo.
Quindici anni prima lui si era trovato di fronte a un certo problema, e dopo un po’ di tempo, a modo suo, l’aveva risolto, senza rendersene conto, allontanandosi dal genere umano. Aveva indietreggiato fino a trovarsi con le spalle al muro e così, per qualche tempo, aveva trovato la pace. E adesso, stranamente, la sua ’intuizione’, quella sensazione indefinita che era quasi prescienza, pareva dirgli che il mondo e le realtà degli uomini l’avevano cercato e stanato di nuovo. Ma ormai non poteva più indietreggiare, anche se lo desiderava. Stranamente, gli pareva di non desiderarlo più, o forse era un bene, perché non sapeva più dove andare. Si era allontanato dall’umanità, e non poteva allontanarsi di più.
Rimase lì seduto in soffitta, solo, ad ascoltare il vento che mormorava tra le gronde.