C’era qualcosa, nel luccicare di quell’uomo nel sole del mattino, qualcosa nel modo di parlare e di camminare, che sembrava assurdo. Non aveva capelli, innanzitutto. La testa era completamente calva, e non aveva peli sul petto. Anche gli occhi erano strani. Brillavano come il resto della sua persona: e sembrava che non avesse le labbra.
«Io sono un robot, signore,» disse l’uomo luccicante, notando lo stupore di Vickers.
«Oh,» fece Vickers.
«Mi chiamo Hezekiah.»
«Come stai, Hezekiah?» domandò stordito Vickers, non sapendo cosa dire.
«Molto bene, signore,» rispose Hezekiah. «Io sto sempre molto bene. Non ho mai niente che non va. Grazie per avermelo chiesto, signore.»
«Avevo sperato di trovare una persona, qui,» disse Vickers. «Una signorina, la signorina Kathleen Preston. È in casa?»
Guardò gli occhi del robot di nome Hezekiah, e dentro non poté leggervi nulla.
Il robot chiese, ossequiente:
«Il signore vuole avere la bontà di accomodarsi?»
Gli aprì il cancello, e lui entrò, camminando sul vialetto di mattoni dorati, e notò che anche i mattoni della casa avevano assunto quel colore dorato, in tanti anni di sole e di vento e di pioggia. La casa, vide, era tenuta bene. Le finestre brillavano, lavate di recente, e le imposte erano perfettamente a piombo, e ben dipinte, e sembrava che il prato non fosse stato soltanto falciato, ma rasato con estrema cura. Le aiuole erano gaie, piene di fiori, senza un filo d’erbaccia, e la staccionata montava la sua guardia eterna, intorno alla casa, e i paletti parevano soldatini di legno, verniciati di un bianco lucente.
Girarono intorno all’edificio, e il robot salì i gradini del piccolo portico dov’era l’ingresso laterale, e spalancò la porta per far passare Vickers.
«A destra, signore,» disse Hezekiah. «Prenda una sedia e attenda, per cortesia. Se desidera qualcosa, qualsiasi cosa, c’è un campanello sul tavolo.»
«Grazie, Hezekiah,» disse Vickers.
«Il signore è troppo buono,» disse il robot, e si ritirò, lasciandolo solo nella stanza.
Era una stanza grande, per essere una saletta d’attesa. La tappezzeria di carta era gaia, e c’era un caminetto di marmo, con uno specchio sopra la mensola, e c’era un silenzio, una specie di silenzio ufficiale, come se la stanza fosse l’anticamera di eventi importanti.
Vickers sedette, e attese.
Che cosa si era aspettato? Kathleen che si precipitava fuori della casa, scendeva di corsa i gradini per andargli incontro, felice dopo non avere più saputo nulla di lui per vent’anni? Scosse il capo. Quello era soltanto un sogno, un bel desiderio che lui stesso aveva saputo impossibile. Non era andata così. Perché non sarebbe stato logico che fosse andata così.
La logica, certo, si disse. Ma quante altre cose non sarebbero state logiche, e invece si erano verificate? Quante volte lui aveva riposto in un angolo la logica, l’aveva trascurata e dimenticata, e aveva scoperto alla fine di avere visto giusto, e che forse esistevano diversi tipi di logica, e non sempre quello più ortodosso andava bene?
Non era logico che lui trovasse la casa in quest’altro mondo, eppure l’aveva trovata e adesso era lì, sotto il suo tetto, e attendeva. Non era logico che ritrovasse la trottola dimenticata e, ritrovandola, sapesse a che cosa serviva. Ma l’aveva trovata, e se ne era servito, e adesso era lì. Non era logico che lui incontrasse uno strano essere che diceva di essere un robot, e parlava come un perfetto domestico dell’ottocento, e lo invitava ad accomodarsi in quel salotto per andarsene silenziosamente, come se non fosse mai esistito. Eppure lui aveva incontrato il robot, e gli aveva parlato, e adesso si trovava seduto nella stanza.
Così rimase seduto, in silenzio, nel silenzio, ad ascoltare la casa.
Si accorse che c’era un brusio di voci nella stanza che dava sull’anticamera, e vide che la porta di comunicazione era socchiusa, appena appena, un minuscolo spiraglio di un centimetro o due.
Non c’erano altri suoni, oltre al brusio. Per il resto, la casa era immersa nella quiete del mattino.
Vickers si alzò, e si avvicinò alla finestra, e poi dalla finestra tornò verso il caminetto di marmo.
Chi c’era nella stanza accanto? Perché lui stava aspettando? Chi avrebbe visto quando avrebbe varcato quella porta, e che cosa gli avrebbero detto?
Fece il giro della stanza, camminando senza far rumore, quasi furtivamente. Si fermò accanto alla porta, appoggiandosi con le spalle alla parete, trattenendo il respiro per ascoltare.
Il brusio della voce diventò parole.
«…sarà un trauma.»
Una voce profonda, burbera, disse:
«È sempre un trauma. Non si può fare nulla per evitarlo. Comunque lo si consideri, è sempre degradante.»
Una voce lenta, strascicata, disse:
«È una disgrazia che dobbiamo operare in questo modo. Che peccato che non possiamo lasciarli continuare con i loro veri corpi.»
Sbrigativa, secca, precisa, un’altra voce, la prima che aveva parlato, disse:
«In generale gli androidi la prendono bene. Anche sapendo ciò che significa, la prendono bene. Facciamo in modo che capiscano. E naturalmente, dei tre, c’è sempre quello fortunato, quello che può continuare con il suo vero corpo.»
«Ho l’impressione,» disse la voce burbera, «che con Vickers abbiamo cominciato un po’ troppo presto.»
«Flanders ha detto che era necessario. È convinto che Vickers sia l’unico in grado di trattare con Crawford.»
E la voce di Flanders che diceva:
«Ne sono sicuro. Ha cominciato tardi, è vero, ma ha recuperato il terreno perduto. Con lui abbiamo forzato i tempi. Prima l’intercettatore che si è fatto scoprire, e lui l’ha sorpreso, e questo l’ha spinto a riflettere. Poi abbiamo organizzato la minaccia di linciaggio. Poi lui ha trovato la trottola che avevamo messo là, e l’associazione d’idee è scattata. Basterà dargli un paio di altri scossoni…»
«E la ragazza, Flanders? Quella… come si chiama?»
«Ann, Ann Carter,» disse Flanders. «Stiamo dando qualche scossone anche a lei… anche se non forte come nel caso di Vickers.»
«E come la prenderanno?» chiese la voce strascicata. «Come la prenderanno, quando scopriranno di essere androidi?»
Vickers si scostò di scatto dalla porta, senza fare rumore, brancolando con le mani, come se d’un tratto si fosse ritrovato a camminare nel buio più profondo in una stanza ingombra di mobili.
Arrivò all’uscio che dava nel corridoio, si aggrappò all’intelaiatura, per mantenere l’equilibrio, perché tutto pareva oscillare intorno, e ci voleva qualcosa di fermo, qualcosa di stabile, per puntellarsi in un mondo che non aveva nulla di certo.
Androide, androide, androide…
La parola ronzava nella sua mente, e con essa, pensieri brevi, oscillanti come il mondo.
Uno strumento, pensò. Io sono uno strumento.
Neppure umano.
«Che tu sia maledetto, Flanders!» disse.
Non soltanto lui, ma anche Ann… non mutanti, non esseri superiori, neppure umani. Androidi!
Doveva andarsene, si disse. Doveva andare via e nascondersi. Doveva trovare un posto dove raggomitolarsi e nascondersi, e leccarsi le ferite, e lasciare che la sua mente si calmasse, e decidere cosa dovesse fare.
Perché doveva fare qualcosa. Non poteva continuare così. Doveva prendere le sue carte e partecipare al gioco.
Si avviò lungo il corridoio, arrivò alla porta e la socchiuse appena, per vedere se c’era qualcuno. Il prato era deserto. Non si scorgeva nessuno.
Uscì e chiuse delicatamente la porta alle sue spalle e quando toccò terra, saltando dal portico, si mise a correre. Scavalcò d’un balzo la staccionata e continuò a correre.
Corse, e non si voltò indietro fino a quando raggiunse gli alberi. E quando finalmente si volse a guardare, la casa era là, serena, maestosa, in cima alla collina all’estremità della valle.