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Arrivò al fiume nel tardo pomeriggio, un fiume pieno d’isolette coperte d’alberi e di viti, intasato da barene di sabbia e pieno di gorgoglii minacciosi e del sibilo delle sabbie che si spostavano: e non poteva essere altro, pensò, che il fiume Wisconsin, il tratto del corso inferiore che stava per gettarsi nel Mississippi. E se era così, sapeva dove andare. Da lì poteva raggiungere il luogo al quale era diretto.

Ma adesso temeva che non avrebbe trovato il luogo che cercava, che in quella terra non vi fosse la casa dei Preston. Era finito invece in un mondo estraneo, dove non c’erano uomini ma robot, una complessa civiltà robotica in cui l’Uomo non aveva parte alcuna. Non c’erano uomini collegati in qualunque modo alla fabbrica, di questo era sicuro, perché il complesso era troppo autosufficiente, troppo sicuro nella sua attività per avere bisogno della mano o del cervello dell’uomo.

Quando l’ultima luce svanì, si accampò sulla riva del fiume, e prima di sdraiarsi per dormire rimase lì a lungo, seduto, a fissare lo specchio inargentato dell’acqua illuminata dalla luna, e si sentì invadere dalla solitudine, una solitudine profonda ed amara che non aveva mai provato.

La mattina dopo avrebbe proseguito: avrebbe percorso la sua strada fino all’estremità polverosa. Avrebbe trovato il luogo dove avrebbe dovuto esserci la casa dei Preston, e quando avesse scoperto che la casa non c’era… che cosa avrebbe fatto, allora?

Vickers non ci pensava. Non voleva pensarci. E finalmente si addormentò.

Alla mattina scese il fiume e studiò le alture sulla sponda meridionale, mentre camminava, e dalla loro forma acquisì sempre più intensa la certezza di sapere dov’era.

Seguì il fiume verso valle, e finalmente vide l’azzurro nebbioso del grande promontorio roccioso che sorgeva alla congiunzione dei due fiumi, e l’esile linea violetta delle alture al di là del corso d’acqua maggiore: e si arrampicò su una delle collinette più vicine e scrutò la valle che era venuto a cercare.

Quella notte si accampò nella valle e la mattina dopo la seguì, e trovò l’altra valle che se ne diramava, e che lo avrebbe condotto alla casa dei Preston.

Era arrivato a metà del percorso quando la scena cominciò a diventargli familiare, benché avesse già veduto qua e là certe formazioni di roccia e certi gruppi d’alberi che gli ricordavano quelli veduti nel passato.

Il sospetto e la speranza crebbero dentro di lui, e finalmente la certezza di essere in un luogo familiare.

Era la valle fatata in cui aveva passeggiato vent’anni prima.

E ora, pensò… e ora, se c’era la casa…

Si sentiva debole e nauseato, alla certezza che la casa non ci sarebbe stata, che sarebbe arrivato in fondo alla valle e avrebbe visto il terreno dove sarebbe dovuta essere, e la casa non ci sarebbe stata. Perché, se era così, avrebbe saputo che l’ultima speranza era scomparsa, e che lui era esule dalla sua Terra.

Trovò il sentiero e lo percorse e vide il vento soffiare sull’erba del prato e pareva che l’erba fosse acqua, e il biancheggiare degli steli agitati dal vento era come il movimento delle creste candide delle onde. Vide i meli selvatici, e non erano in fiore, perché la stagione era troppo avanzata, ma erano gli stessi che lui aveva visto fioriti.

Il sentiero aggirò il dosso di una collinetta, e Vickers si fermò e guardò la casa che stava su quella collina, e si sentì piegare le ginocchia, e distolse in fretta lo sguardo, e poi girò di nuovo gli occhi, lentamente, per assicurarsi che non fosse uno scherzo della sua immaginazione, che la casa ci fosse veramente.

E c’era veramente.

Riprese il cammino, su per il sentiero, e si rese conto che stava correndo e si costrinse a rallentare un po’. E poi riprese di nuovo a correre, e non cercò di fermarsi.

Arrivò alla collina che portava su, alla casa, e rallentò cercando di riprendere fiato, e pensò al proprio aspetto, con la barba lunga di parecchie settimane, e gli abiti laceri e strappati e incrostati di fango e di terra, con le scarpe che andavano a pezzi, tenute insieme dalle strisce di stoffa, con i calzoni strappati che sbattevano nel vento e scoprivano le ginocchia nodose, striate di sudiciume.

Giunse alla staccionata bianca di cinta e si fermò al cancello, vi si appoggiò e guardò la casa. Era esattamente come l’aveva ricordata, linda, ben tenuta, con il prato accuratamente tosato e i fiori dai colori vivaci nelle aiuole, con le pareti in legno ridipinte di recente e i mattoni di un colore dorato, che parlava di anni di sole e della forza del vento e della pioggia.

«Kathleen,» disse, e non riuscì a pronunciare bene il nome, perché aveva le labbra ruvide e inaridite. «Sono tornato.»

Si chiese com’era, lei, dopo tutti quegli anni. Si disse che non doveva sperare di rivedere la ragazza che aveva conosciuto un tempo, la ragazza di diciassette o di diciotto anni, ma una donna della sua età.

Lei lo avrebbe visto lì al cancello, e nonostante la barba lunga e gli abiti a brandelli e i segni di quelle settimane di cammino, l’avrebbe riconosciuto, avrebbe aperto la porta e gli sarebbe venuta incontro per il vialetto.

La porta si aprì, e lui aveva il sole negli occhi, e non poteva vederla fino a quando lei non fosse uscita sotto il portico.

«Kathleen,» disse.

Ma non era Kathleen.

Era qualcuno che non aveva mai visto… un uomo che non aveva quasi niente addosso, e luccicava nel sole mentre scendeva il vialetto e chiedeva a Vickers, in tono deferente:

«In che cosa posso esserle utile, signore?»

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