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Dopo che Jane se ne fu andata, e lui ebbe finito di lavare i piatti, si ricordò che da una settimana almeno aveva intenzione di telefonare a Joe, a proposito dei topi.

«Ho i topi,» esordì Vickers al telefono.

«Che cos’hai?»

«I topi,» disse Vickers. «Animaletti. Roditori. Corrono per tutta la casa.»

«Questa è bella,» disse Joe. «Una bella casa, solida e ben costruita come la tua, non dovrebbe avere neanche l’ombra di un topo. Vuoi che venga e te ne sbarazzi?»

«Penso proprio di sì. Vedi, ho provato con le trappole, ma questi topi non ci cascano. Un po’ di tempo fa ho preso anche un gatto. È rimasto sì e no un paio di giorni, e poi se l’è svignata.»

«Be’, anche questo è strano. Tutti sanno che ai gatti piacciono le case dove ci sono dei topolini da prendere.»

«Quel gatto era ammattito,» dichiarò Vickers. «Si comportava come se avesse una paura del diavolo. Camminava per la casa in punta di piedi, sempre pronto a nascondersi sotto le sedie.»

«I gatti sono bestie strane,» confidò Joe.

«Oggi devo andare in città. Pensi di poter fare un salto qui, mentre io sono via?»

«Puoi scommetterci,» disse Joe. «Sai, il mercato delle disinfestazioni è piuttosto fiacco, di questi tempi. Verrò verso le dieci.»

«Lascerò aperta la porta,» disse Vickers.

Riappese, e andò a prendere il giornale dal terrazzino. Andò alla scrivania, posò il giornale e sollevò il manoscritto, reggendo il fascio dei fogli nella mano, sentendone il peso e lo spessore, come se quel peso e quello spessore potessero garantirgli che quel che aveva in mano andava bene, non era fatica sprecata, diceva le tante, tantissime cose che lui aveva voluto dire, e, soprattutto, le diceva abbastanza bene… tanto bene che altri uomini e donne avrebbero potuto leggere quelle stesse parole, comprendendo il pensiero messo a nudo sotto la freddezza dei caratteri di stampa.

Non avrebbe dovuto sprecare quella giornata, si disse. Avrebbe dovuto restarsene lì, alla sua scrivania, a lavorare. Non avrebbe dovuto andare a zonzo, senza far niente, anzi, ancora peggio… a visitare quel tizio che la sua agente voleva così fermamente fargli conoscere. Ma Ann aveva insistito, e aveva detto che si trattava di una cosa importante, e anche quando lui le aveva detto di avere la macchina in riparazione aveva insistito, dicendogli che doveva andare ugualmente. La storia della macchina non era vera, naturalmente, perché mentre l’aveva raccontata ad Ann aveva saputo benissimo che Eb gliel’avrebbe preparata in tempo per partire. E naturalmente Ann non gli aveva creduto. Ma aveva insistito. Era stata molto decisa, su quell’incontro.

Diede un’occhiata all’orologio, e vide che il garage di Eb avrebbe aperto tra meno di mezz’ora, e mezz’ora era troppo poco perché valesse la pena di mettersi a scrivere.

Lasciò il manoscritto sulla scrivania, e riprese il giornale, e andò sotto il portico a leggere le notizie del mattino.

Pensò alla piccola Jane, una bambina deliziosa, che aveva elogiato la sua abilità di cuoco, e aveva chiacchierato allegramente, sempre con quel suo sorriso irresistibile sul viso.

Lei non è sposato, aveva detto Jane. Perché non è sposato, signor Vickers?

E lui aveva detto: una volta c’è stata una ragazza. Adesso lo ricordo. Una volta c’è stata una ragazza.

Si chiamava Kathleen Preston, e abitava in una grande casa di mattoni rossi acquattata sulla cima di una collina, una casa con tante colonne e un portico spazioso e le roste a ventaglio sopra le porte… una vecchia casa che era stata costruita durante la prima ondata di ottimismo pionieristico, quando il paese era stato nuovo e grande e verde e tutto da scoprire: e la sua casa era rimasta anche quando la campagna intorno non aveva dato buoni frutti, e la terra si era sciolta ed era stata trascinata via a rivoli e rigagnoli, lasciando pendii delle colline segnati dalle cicatrici dell’argilla giallastra.

Era stato giovane, allora, lui, così giovane che adesso il pensarci lo faceva soffrire: così giovane da non poter comprendere che una ragazza abituata a vivere in una vecchia casa avita con le roste a vetri sopra le porte e tante colonne e un portico grande non poteva prendere seriamente in considerazione un ragazzo il cui padre mandava avanti una fattoria stentata, dove il granoturco cresceva fragile e malandato da una terra sempre più esausta. O forse era stata la famiglia di lei a non prenderlo in considerazione, perché anche lei era stata certamente troppo giovane per capire davvero. Forse lei aveva litigato con la sua famiglia: forse c’erano state parole furenti e lacrime. Questo, lui non l’aveva mai saputo. Perché tra quella passeggiata nella valle fatata e la sua visita successiva, i parenti l’avevano spedita a scuola, nell’est, e da allora non l’aveva più vista, né aveva avuto più sue notizie.

Per nostalgia lui era ritornato in quella valle, cercando di captare qualcosa capace di ricreare l’incantesimo del giorno in cui vi aveva passeggiato insieme a lei. Aveva ripercorso lo stesso sentiero, aveva seguito gli stessi passi… ma i meli selvatici avevano perduto i fiori, e le allodole non avevano cantato con uguale splendore, e l’incantesimo si era involato verso una landa inesistente, quella dove finiscono le favole. Lei se ne era andata, e aveva portato con sé ogni magia.

Il giornale gli cadde dalle ginocchia, e Vickers si chinò a raccoglierlo. Aprendolo, finalmente, vide che le notizie seguivano lo stesso squallido schema di tutti gli altri giorni, immagini grigie di un mondo grigio popolato di figure grigie.

Le ultime eco degli annunci di pace non si erano ancora spente, e la guerra fredda continuava ad infuriare.

La guerra fredda continuava da anni, naturalmente, e prometteva di continuare ancora per molti altri. Gli ultimi quarant’anni erano stati un succedersi di crisi, di notizie fatte circolare ad arte e subito smentite, di guerricciole sempre in atto e di guerre mondiali che non scoppiavano mai, fino a quando il mondo, stanco di quell’alternarsi di terrore e speranza, di quella guerra fredda che assumeva mille aspetti e non finiva mai, aveva cominciato a sbadigliare in faccia alle nuove voci di distensione e alle crisi che ormai si succedevano a dozzine.

Un tizio, in uno sconosciuto college della Georgia, aveva stabilito un nuovo primato mangiando un numero incredibile di uova crude, e un’affascinante diva del cinema stava per cambiare di nuovo marito, e i lavoratori dell’acciaio minacciavano di entrare in sciopero.

C’era un lungo servizio sulle persone scomparse, e Vickers ne lesse la metà, quanto gli bastava. A quanto pareva, il numero delle persone che sparivano senza lasciare traccia continuava ad aumentare, intere famiglie alla volta, e in tutto il paese la polizia stava perdendo la testa. C’era sempre stata della gente che scompariva, affermava l’articolo, ma si era trattato di singoli individui. Adesso da una comunità sparivano due o tre famiglie, e due o tre da un’altra, e non se ne trovava più traccia. Di solito, appartenevano alle classi più povere. In passato, quando un individuo scompariva, di solito c’era qualche ragione: ma in questi casi di sparizioni collettive sembrava che non vi fossero motivi, a parte la miseria: e l’autore dell’articolo e le persone da lui intervistate non sapevano spiegarsi perché qualcuno volesse o potesse sparire a causa della miseria.

C’era un titolo che annunciava: Uno scienziato afferma: vi sono molti mondi.

Vickers lesse parte del pezzo:


BOSTON, Mass. (A.P.) — Può esserci un’altra Terra un secondo più avanti di noi, e un altro mondo un secondo più indietro, e un altro ancora indietro di un secondo rispetto a questo, e poi un altro… be’, avete capito.

Una specie di catena continua di mondi, uno dietro l’altro.

Questa è la teoria del dottor Vincent Aldridge…


Vickers lasciò cadere a terra il giornale, e guardò il giardino, ricco di fiori e addolcito dal sole. Lì c’era la pace, in quell’angolo piccolo e fiorito del mondo, c’era la pace anche se altrove non c’era, pensò. Una pace fatta di molte cose, di sole dorato e del mormorio delle foglie d’estate che fremevano nel vento, di fiori e di uccelli e della meridiana, della staccionata che aveva bisogno di essere ridipinta e del vecchio pino che stava morendo in silenzio, serenamente, adagio adagio, amico dell’erba e dei fiori e degli altri alberi anche mentre moriva, con la dignità pacata dei vecchi alberi che non avevano fretta di vivere né di morire in quello che era il loro mondo.

Lì non c’erano né voci di speranza, né brontolii di minaccia; quelle erano le frenesie degli altri, che lasciavano intatto quell’angolo sereno. Lì c’era la serena accettazione della realtà, la vecchia, solida realtà che diceva che il tempo scorreva e veniva l’inverno e poi l’estate, che il sole seguiva la luna, e che la vita era un dono da coltivare come un fiore prezioso e fragile, e non un diritto da conquistare lottando incessantemente, spietatamente, contro tutte le altre creature viventi. Vickers diede un’occhiata all’orologio, e vide che era ora di andare.

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