Suonò il campanello e attese. Quando udì i passi di lei, capì che avrebbe dovuto volgere le spalle alla porta e fuggire, fuggire con tutta la forza che aveva nelle gambe, anche se sapeva che non sarebbe riuscito a farlo. Perché lui non aveva il diritto di venire lì, e sapeva che non avrebbe dovuto… avrebbe dovuto sbrigare prima le cose più importanti, e non c’era motivo per venirla a trovare, perché il sogno di Ann era finito, finito come il sogno di Kathleen e della valle al chiaro di luna e dei diciott’anni strani e felici di un mondo incantato che non era stato vero, e non era stato falso, e aveva avuto qualcosa dell’una e dell’altra cosa, a sufficienza da riuscire a fare del male.
Ma aveva dovuto venire: aveva dovuto, letteralmente. Si era fermato due volte davanti al portone del palazzo, e poi aveva girato sui tacchi e se ne era andato. Questa volta non se ne era andato, non poteva andarsene: era entrato e adesso era lì, davanti alla porta, ad ascoltare il suono dei passi che si avvicinavano, pensando al silenzio che aveva risposto dall’altro capo del filo quando le aveva telefonato, un giorno che era vicino ma gli sembrava separato da torrenti di eternità da quel momento, un giorno nel quale aveva cominciato a sapere, ma era stato fortunato, e non aveva ancora saputo abbastanza.
E cosa le avrebbe detto, si domandò freneticamente, quando la porta si fosse aperta? Che cosa avrebbe fatto? Sarebbe entrato come se non fosse successo niente, come se lui fosse stato la stessa persona, e lei la stessa persona, del loro ultimo incontro?
Doveva dirle che era una mutante, e peggio ancora un androide, una donna artificiale?
La porta si aprì, e lei era una donna, incantevole come la ricordava; e tese le mani e l’attirò dentro, e chiuse l’uscio e vi si appoggiò contro.
«Jay,» disse Ann. «Jay Vickers.»
Lui tentò di parlare, ma non ci riuscì. Rimase lì a guardarla e a pensare: Non può essere vero. È una menzogna. Non è vero.
«Cos’è successo, Jay?» domandò lei. «Avevi promesso… avevi promesso di chiamarmi…»
Vickers tese le braccia, mentre cercava di vietarselo, e lei compì un movimento rapido, quasi disperato, e vi si rifugiò. La tenne stretta, e fu come se fossero immersi nella consolazione suprema di un’infelicità che ciascuno aveva creduto ignorata dall’altro.
«In principio ho pensato che tu fossi un po’ pazzo,» disse lei, sottovoce. «Ricordando certe cose che avevi detto al telefono da quella cittadina del Wisconsin, mi ero quasi convinta che avessi qualcosa che non andava… che ti avesse dato un po’ di volta il cervello. Poi il giorno dopo sono accadute tante cose, e non è più stato come prima, e allora ho pensato… ho pensato… ho pensato le cose più orribili e non ho saputo rimanere calma, e ho avuto paura, perché ricordavo altre cose, strane cose da niente che tu avevi fatto o detto o scritto, e…»
«Calmati, Ann,» le disse. «Non hai bisogno di dirmelo.»
«Jay, ti eri mai chiesto, prima, se eri completamente umano? Se non c’era in te qualcosa di diverso… di inumano?»
«Sì,» disse lui. «Me lo ero chiesto… spesso.»
«E io sono sicura che non lo sei, ed è per questo che ho avuto paura. E allo stesso tempo sono stata felice, perché per me va bene così, perché anch’io… anch’io penso di non essere umana.»
Allora Vickers la strinse più forte. Ora che si sentiva cinto dalle braccia di lei, comprese finalmente che, l’uno aggrappato all’altra, erano due anime smarrite e senza amici in un mare di umanità. Ognuno di loro aveva soltanto l’altro. L’altro, e i propri terrori, le proprie apprensioni, le angosce che non aveva osato confessare neppure a se stesso negli anni che erano passati, la paura che aveva spinto Ann a fuggire dalla sua casa e dal suo ufficio quel giorno, quando c’era stata la rivelazione, quando tutti avevano parlato della cosa che era stata rivelata… e poi, attraverso chissà quali abissi di terrore e di sofferenza, lei era ritornata, era riuscita a capire il suo smarrimento, era ritornata a stare là, sfidando il pericolo, temendo per lui. Era la solitudine e il dubbio e la sofferenza di molto, molto tempo, la cosa tanto dolce che li univa. Anche se tra loro non vi fosse stato amore, dovevano stare vicini, uniti contro il mondo.
Il telefono squillò, dal tavolo in fondo, e loro lo udirono appena.
«Ti amo, Ann,» disse Vickers, e una parte del suo cervello che non era lui, era un osservatore freddo e distaccato, gli ricordò che sapeva di non poterla amare, che era impossibile e immorale e assurdo amare qualcuna che poteva essergli più vicina di una sorella, e la cui vita un tempo era stata parte della sua vita, e in futuro si sarebbe fusa con la sua vita in un’altra personalità, forse completamente ignara di loro.
«Ho ricordato,» gli disse Ann, con voce vaga e lontana, «e non ho compreso bene. Forse tu puoi aiutarmi a capire.»
Con le labbra irrigidite dall’apprensione, Vickers chiese:
«Che cos’hai ricordato, Ann?»
«Una passeggiata, insieme a qualcuno. Ho tentato, ma non ricordo il suo nome, anche se riconoscerei il suo viso, dopo tutti questi anni. Passeggiavamo in una valle, scendendo da una grande casa di mattoni che sorgeva su una collina, in fondo. Passeggiavamo nella valle ed era primavera perché i meli selvatici erano in fiore, e c’erano uccelli che cantavano, e la cosa più strana di quella passeggiata è che non l’ho mai fatta, eppure la ricordo. E anche questo mi ha fatto paura, insieme a tutte le altre cose, eppure mi ha dato un senso di nostalgia, e non l’ho saputo spiegare. Jay, che cosa mi sta capitando? Che cosa sta succedendo a tutti? Come si può ricordare qualcosa, Jay, quando sai bene che non è mai accaduto?»
«Non so,» disse Vickers. «Forse è l’immaginazione. Qualcosa che hai letto da qualche parte.»
Ma era così, lo sapeva. Era la prova di ciò che lui aveva sospettato.
Erano tre, aveva detto Flanders: tre androidi ricavati da un’unica vita umana. I tre erano lui e Flanders e Ann Carter. Perché Ann ricordava la valle fatata come la ricordava lui… ma poiché lui era un uomo vi aveva passeggiato con una donna chiamata Kathleen Preston, e poiché Ann era una donna vi aveva passeggiato con un uomo di cui non ricordava il nome. E quando e se l’avesse ricordato, non sarebbe stato esatto. Perché, se lui aveva passeggiato insieme a qualcuno, non era stato con una ragazza chiamata Kathleen Preston, ma con una ragazza dal nome diverso.
«E non è tutto,» disse Ann. «Io so quello che pensano gli altri. Io…»
«Ti prego, Ann,» disse lui.
«Io mi sforzo di non sapere ciò che pensano, ora che mi sono accorta di poterlo fare. Ma so, adesso, che l’ho fatto da anni, più o meno inconsciamente. Anticipavo ciò che gli altri stavano per dire. Conoscevo le loro obiezioni prima che le esponessero. Sapevo ciò che sarebbe andato loro a genio. Sono un’abile donna d’affari, Jay, e forse è per questo. Posso entrare nella mente degli altri. L’ho fatto l’altro giorno… quando ho cominciato a sospettare di essere in grado di farlo, ho provato, volutamente, per vedere se era vero o se l’immaginavo soltanto. Non è stato facile, e non sono ancora molto esperta. Ma ci sono riuscita! Jay, ho potuto…»
Vickers la tenne stretta e pensò: Ann è una dei telepati, una di coloro che possono raggiungere le stelle.
«Cosa siamo, Jay?» domandò lei, ed era quasi un’implorazione. «Dimmi che cosa siamo.»
Il telefono squillava imperioso.
«Più tardi,» disse lui. «Non è poi tanto tremendo. Sotto certi aspetti è meraviglioso. Sono tornato perché ti amavo, Ann. Ho cercato di stare lontano da te, ma non potevo. Perché non è giusto…»
«È giusto,» disse lei. «Oh, Jay, è la cosa più giusta del mondo. Ho pregato perché tu ritornassi da me. Quando ho capito che qualcosa non andava, ho avuto paura che non saresti tornato… che non potessi, che ti fosse accaduto qualcosa di terribile. Ho pregato, e sentivo che era inutile perché la preghiera mi era estranea, e mi sentivo ipocrita…»
Lo squillo era insistente, rabbioso.
«Il telefono,» disse lei.
Vickers la lasciò andare e lei si avvicinò al divano, sedette, e sollevò il ricevitore, mentre lui restava in piedi a guardare la stanza, e cercava di metterle a fuoco… la stanza e Ann, come le ricordava.
Ann si volse.
«È per te,» disse.
«Per me?»
«Sì, il telefono. Qualcuno sapeva che saresti venuto qui.»
Avrebbe dovuto provare paura, in quel momento, avrebbe dovuto pensare a mille cose angosciose, perché dopo tutto quello che gli era accaduto la telefonata aveva qualcosa di soprannaturale, qualcosa di incongruo e quasi assurdo. Vickers scosse il capo, lentamente, sorpreso ma non troppo, e si fece avanti, prese il ricevitore dalla mano di lei, lo tenne in equilibrio nella mano, cercando di indovinare quale potesse essere il senso di quella telefonata.
E allora, all’improvviso, si accorse di avere paura, sentì il sudore sgorgargli dalle ascelle, perché sapeva che poteva esserci una persona soltanto, all’altro apparecchio. Ed era una paura razionale, dettata dalla mente, diversa da quella strana, istintiva tranquillità che aveva provato fino a un attimo prima.
Una voce disse:
«È l’uomo di Neanderthal, Vickers.»
«Con la clava e tutto?» domandò Vickers.
«Con la clava e tutto,» disse Crawford. «Abbiamo una questione da sistemare.»
«Nel suo ufficio?»
«In strada c’è un tassi che l’aspetta.»
Vickers rise, e la risata fu più cattiva di quanto lui volesse.
«Da quanto tempo mi sorveglia?»
Crawford ridacchiò.
«Da Chicago. Abbiamo riempito il paese di analizzatori.»
«La pesca è stata buona?»
«Qualche pagliuzza, qua e là. Niente di serio.»
«Ancora fiducioso nell’arma segreta?»
«Certo, ho fiducia, ma…»
«Vada avanti,» lo esortò Vickers. «Sta parlando con un amico.»
«Dovrò passare la mano a lei, Vickers. Davvero. Ma si affretti a venire qui.»
Crawford riattaccò. Vickers si staccò il ricevitore dall’orecchio e lo fissò per un momento, come se fosse stato un oggetto strano e minaccioso, e non l’oggetto semplice e consueto che lui conosceva bene. E se la guerra non fosse stata arrestata, se fosse sfuggita al controllo, e se tutto fosse andato nel modo che si temeva, forse anche la scienza e lo sviluppo e tutte le altre cose avrebbero lasciato il mondo, quella Terra numero Uno che aveva imboccato una strada sbagliata nella lunga strada verso il futuro. Lentamente, Vickers posò il ricevitore sulla forcella. Sentiva dentro di lui crescere quella determinazione della quale aveva bisogno. Era venuto il momento, per lui, di parlare.
Scrollò il capo.
«Era Crawford,» disse ad Ann. «Vuole parlare con me.»
«Tutto bene, Jay?»
«Tutto bene.»
«Tornerai?»
«Tornerò,» disse Vickers.
«Jay… tu sai quello che fai?»
«Ora sì,» rispose lentamente Vickers. «Si, ora so quello che faccio.»