Vickers era disteso sul letto, nella soffitta sopra la cucina, e ascoltava il vento camminare a piedi nudi sulle tegole, proprio sopra la sua testa. Si girò e affondò la testa nel cuscino di piuma d’oca, e sotto di lui il materasso di foglie di granoturco frusciava nell’oscurità.
Era pulito: si era lavato nella vasca dietro la casa, con l’acqua scaldata nel paiolo su un fuoco all’aperto, e si era raschiato a dovere con il sapone mentre Andrews stava seduto su un tronco e parlava, e i ragazzini giocavano sull’aia e i cani da caccia sonnecchiavano sdraiati al sole, raggricciando la pelle per scacciare le mosche.
Aveva mangiato, due pasti completi come aveva dimenticato che potessero esistere, dopo giorni e giorni di pesce mezzo crudo e di selvaggina mezza marcia: pane di granoturco e di sorgo, e i conigli giovani fritti su una padella fumante, con patate novelle alla panna e un’insalata di crescioni d’acqua colti dalla fonte vicina alla casa, e per cena uova fresche appena tolte dal nido.
Si era rasato con i ragazzini che facevano cerchio intorno a lui per assistere allo spettacolo, e Andrews l’aveva fatto sedere su un tronco e gli aveva tagliato la barba con un paio di forbici.
E poi lui e Andrews si erano seduti sui gradini e avevano parlato, mentre il sole tramontava, ed Andrews gli aveva detto che conosceva un posto meraviglioso per una casa, un posticino nascosto, subito al di là della collina, con una fonte vicina, e un tratto di terreno pianeggiante, sulla sponda del ruscello, dove si potevano ricavare dei campi. C’era legname in abbondanza per la casa, grandi alberi diritti, ed Andrews gli disse che l’avrebbe aiutato a tagliarli. Quando i tronchi fossero stati pronti, sarebbero venuti i vicini per montarli, e Jake avrebbe portato un po’ del granturco che cucinava, e Ben avrebbe portato il violino, e avrebbero fatto festa appena la casa fosse stata montata. Se avessero avuto bisogno di aiuto che i vicini non erano in grado di dare, bastava avvertire la Grande Casa e i mutanti avrebbero mandato una squadra di robot. Ma probabilmente non ce ne sarebbe stato bisogno, aveva detto Andrews. I vicini erano brava gente, disse, sempre pronti ad aiutare: e felici di vedere che un’altra famiglia veniva a stabilirsi lì.
Costruita la casa, aveva detto Andrews, Simmons aveva delle figliole che Vickers doveva proprio vedere, anche se si poteva fare la scelta ad occhi bendati, dato che erano tutte eguali. Andrews aveva affibbiato una gomitata nelle costole a Vickers, e aveva riso rumorosamente, e Jean, la moglie di Andrews che per un po’ era venuta a sedersi lì insieme a loro, gli aveva sorriso timidamente e poi si era voltata a sorvegliare i bambini che giocavano sull’aia.
Dopo cena, Andrews gli aveva mostrato con un certo orgoglio i libri sullo scaffale del soggiorno e aveva detto che li leggeva, mentre prima non l’aveva mai fatto… non ne aveva mai avuto voglia e non aveva mai avuto tempo. Vickers aveva dato un’occhiata ai libri e aveva trovato Omero e Shakespeare, Montaigne e la Austen, Thoreu e Steinbeck.
«Vuol dire che legge questi?» aveva chiesto.
Andrews aveva accennato di sì con la testa.
«Li leggo e mi piacciono, quasi tutti. Qualche volta fatico un po’ a continuare, ma li leggo. A Jean piace soprattutto la Austen.»
Era una bella vita, quella, aveva detto Andrews, la vita migliore che avesse mai conosciuto, e Jean aveva sorriso con approvazione e i ragazzini avevano cercato di ottenere il permesso di lasciare andare i cani a dormire con loro.
Era veramente una bella vita, ammise silenziosamente Vickers. Era la vecchia frontiera americana, idealizzata e libresca, con tutti i vantaggi della frontiera, ma senza i suoi terrori e le sue asprezze. C’era un feudalesimo paterno, e la Grande Casa sulla collina era il castello che guardava i campi dove viveva gente felice, traendo il nutrimento dal suolo. Era un tempo fatto per riposare e per acquistare forza. E c’era la pace. Lì non si parlava di guerra, non c’erano tasse per pagare una guerra o per impedire una guerra dimostrando di essere pronti a combatterla.
C’era — come aveva detto Andrews? — la fase pastorale-feudale. E poi, quale fase sarebbe venuta? Quella pastorale-feudale per riposare e pensare, per riordinare le idee, per ristabilire il contatto tra l’Uomo e il suolo, la fase che preparava la strada allo sviluppo di una cultura migliore di quella che avevano abbandonato.
Era una terra tra le tante terre. Quante altre ne venivano, poi? Centinaia, milioni. Una terra dietro l’altra, e tutte erano diventate accessibili.
Vickers cercò di capire, e gli parve di avere intuito il modello pianificato dei mutanti. Era semplice e brutale, ma poteva funzionare.
C’era una Terra che era un fallimento. In qualche punto, lungo la via ascendente dalla condizione scimmiesca, gli esseri umani avevano svoltato dalla parte sbagliata e da quel giorno avevano percorso la lunga strada dell’infelicità. C’erano un’intelligenza e bontà e abilità, in quegli esseri, ma avevano incanalato l’intelligenza e l’abilità verso l’odio e la prepotenza, e la bontà era stata sepolta dall’egoismo.
Erano esseri buoni e meritavano di venire salvati, come un alcolizzato o un delinquente meritano di essere redenti. Ma per salvarli, bisognava sottrarli all’ambiente in cui vivevano, agli slum del pensiero e del metodo umano. Non c’era altro mezzo per offrire loro la possibilità di liberarsi dalle vecchie abitudini, dalle abitudini, innate per generazioni e generazioni, all’odio e all’avidità e all’uccisione.
Per fare questo bisognava annientare il mondo in cui vivevano, e bisognava avere un piano per annientarlo: e dopo averlo annientato, bisognava avere un programma che conducesse ad un mondo migliore.
Ma innanzi tutto, doveva esserci un piano d’azione.
Per prima cosa, sfasciavi il sistema economico su cui si reggeva la Terra. Lo sfasciavi con le auto Aeterna e con le lamette da barba che non si consumavano mai e con i carboidrati sintetici che nutrivano gli affamati. Distruggevi l’industria producendo, una volta per tutte, cose che l’industria non poteva riprodurre, e che la rendevano superata, e quando distruggevi l’industria fino a un certo punto, la guerra diventava impossibile e metà del lavoro era fatto. Ma in questo modo, milioni di individui restavano senza lavoro, e allora li sfamavi con i carboidrati e intanto cercavi di incanalarli verso le altre terre che li aspettavano. Se non c’era spazio sufficiente sulla Terra numero Due, ne mandavi alcuni sulla numero Tre e magari sulla numero Quattro, in modo da non creare affollamenti, e così c’era posto per tutti. Sulle nuove terre si ricominciava daccapo, e c’era la possibilità di evitare gli errori e i pericoli che per innumerevoli secoli avevano sommerso nel sangue la Vecchia Terra.
Sulle nuove terre potevi costruire qualunque tipo di cultura, come volevi. Potevi persino fare qualche esperimento, progettare una certa cultura sulla Seconda Terra e un’altra un po’ diversa sulla Terza, e una ancora diversa sulla Quarta. E dopo mille anni o giù di lì, potevi comparare le varie culture e stabilire quale era la migliore, e consultare le montagne di dati che avevi conservato, e individuare ogni singolo errore di ogni particolare cultura. Con l’andare del tempo, potevi arrivare a trovare una formula per la migliore delle culture umane.
Lì, su quella Terra, la cultura pastorale-feudale era soltanto il primo passo. Era un luogo per riposare, per imparare a sistemarsi. Poi le cose sarebbero cambiate, o qualcuno le avrebbe fatte cambiare. Il figlio dell’uomo che l’ospitava in casa sua avrebbe costruito una casa migliore, e probabilmente avrebbe avuto dei robot per lavorare i suoi campi e per procurargli da vivere, mentre lui avrebbe vissuto una vita tranquilla e agiata: e quella gente tranquilla e agiata, con tutte le energie incanalate da una buona leadership, avrebbe potuto creare un paradiso in terra… o su molte terre.
C’era stato quell’articolo sul giornale, che lui aveva letto quella mattina — erano passati solo pochi giorni? — in cui si diceva che le autorità erano preoccupate per le sparizioni di massa. Famiglie intere, diceva l’articolo, sparivano senza ragione apparente e senza avere nulla in comune, tranne la miseria. È naturalmente, erano proprio quelli ridotti in miseria, a venire portati via per primi: coloro che non avevano né casa né lavoro ed erano stanchi, e venivano sistemati su quelle terre che seguivano la Terra cupa e insanguinata abitata dall’Uomo.
Ben presto, sulla Terra cupa e insanguinata sarebbe rimasto poco più di un pugno di persone. Presto, entro mille anni o meno, avrebbe continuato a girare sulla sua orbita tutta sola, con la superficie sbarazzata dalla tribù famelica che l’aveva divorata e sventrata e maltrattata e straziata… e la stessa tribù sarebbe stata insediata su altre terre, sotto una guida migliore, per crearsi una vita migliore.
Molto bello, penso Vickers. Molto bello… eppure c’era la faccenda degli androidi.
Ricomincia dall’inizio, si disse. Comincia con i primi fatti, cerca di comprendere la logica, di scoprire il corso della mutazione.
I mutanti c’erano sempre stati. Se non ci fossero stati, l’Uomo avrebbe continuato ad essere una piccola creatura che si nascondeva nella giungla, e viveva arrampicata sugli alberi, atterrita e furtiva.
C’era stata la mutazione del pollice opponibile. C’erano state le mutazioni nel piccolo cervello, che avevano dato l’astuzia a quell’essere. Qualche mutazione non documentata aveva catturato il fuoco e l’aveva domato. Un’altra mutazione aveva ideato e realizzato la ruota. Un’altra ancora aveva inventato l’arco e le frecce. Ed era continuato così, nel corso dei secoli. Una mutazione dopo l’altra, per costruire la scala su cui s’era arrampicata l’umanità.
Ma l’essere che aveva catturato e domato il fuoco non sapeva di essere un mutante. E neppure l’uomo che aveva ideato la ruota, e neppure il primo arciere.
In tutte le epoche c’erano stati mutanti insospettati ed ignari… uomini che avevano più successo degli altri, grandi uomini d’affari o grandi statisti, grandi scrittori, grandi artisti, uomini tanto superiori al gregge dei loro simili da apparire, in confronto, dei giganti.
Forse non tutti erano mutanti, anche se alcuni dovevano esserlo senz’altro. Ma la loro mutazione era ben poca cosa in confronto a ciò che avrebbero potuto essere, perché erano costretti a limitarsi, a conformarsi al modello sociale ed economico stabilito da una società di non mutanti. Il fatto che fossero riusciti a conformarsi, ad adattarsi ad una misura inferiore alla loro statura normale, e avessero potuto adeguarsi ad uomini inferiori a loro, pur giganteggiando, era già una misura della loro mutazione.
Benché il loro successo fosse stato grande secondo i criteri degli uomini normali, come mutanti erano falliti, perché non si erano mai resi conto di esserlo. Erano stati semplicemente un po’ più intelligenti o più svegli dell’umanità comune.
Ma… e se un uomo si fosse accorto di essere un mutante? Se lo avesse compreso grazie ad una prova inconfutabile… che cosa sarebbe accaduto, allora?
Supponi, per esempio, che un uomo scopra di potersi protendere verso le stelle, di potere captare i pensieri degli esseri pensanti che vivevano sui pianeti orbitanti intorno a quei soli lontani: quella sarebbe stata la prova completa e sufficiente che era un mutante. E se, interrogando le stelle, poteva acquisire alcune informazioni specifiche dal valore economico — per esempio il principio operativo di una macchina senza attrito — allora senza il minimo dubbio avrebbe avuto la certezza di possedere un dono da mutante. E sapendo questo, non avrebbe potuto integrarsi agevolmente nella sua nicchia contemporanea con la stessa facilità di coloro che erano stati mutanti senza sapere di esserlo. Sapendo questo, sarebbe stato preso dalla smania di grandezza, avrebbe sentito la necessità di seguire la propria strada e non quella tracciata dagli altri.
Poteva essere un po’ spaventato dalle cose che aveva appreso ascoltando le stelle, e poteva sentirsi terribilmente solo, e poteva sentire la necessità che altri umani lavorassero sulle informazioni rastrellate da lui nelle profondità dello spazio.
Perciò avrebbe cercato altri mutanti, e l’avrebbe fatto molto abilmente, e avrebbe magari impiegato molto tempo prima di trovarne uno, e avrebbe dovuto avvicinarlo con prudenza, conquistarsi la sua fiducia e finalmente dirgli ciò che aveva in mente. Allora i mutanti sarebbero stati due, alleati, e con l’andare degli anni ne avrebbero cercati e trovati altri. Non tutti, naturalmente, potevano essere in grado di protendere la mente verso le stelle, ma potevano essere capaci di fare altre cose. Alcuni avrebbero compreso l’elettronica, quasi per istinto, più completamente di qualunque uomo normale dopo anni di studi intensivi, e un altro spazio che consentiva l’esistenza di più mondi, uno dopo l’altro, in un magnifico cerchio eterno.
Alcuni sarebbero stati donne, e ai mutanti scoperti si sarebbero aggiunti i mutanti nati, e in vent’anni, più o meno, ci sarebbe stata un’organizzazione mutante di parecchie centinaia di persone che mettevano in comune le loro facoltà.
Grazie alle informazioni attinte dalle stelle, più la capacità mutante di acquisirne altre, avrebbero inventato e messo in vendita oggetti che avrebbero procurato loro il denaro necessario per continuare l’attività. Quanti degli oggetti di uso comune e quotidiano, diffusissimi e prosaici, adoperati attualmente nel mondo, si chiese Vicekrs, erano i prodotti di questa razza mutante?
Ma poi sarebbe venuto il momento in cui l’organizzazione mutante e la sua attività non avrebbero più potuto passare inosservate, e allora i mutanti avrebbero cercato un luogo dove nascondersi: un luogo sicuro dove poter proseguire il loro lavoro. E quale luogo poteva essere più sicuro di una delle altre terre?
Disteso sul materasso di foglie di granoturco, Vickers fissava l’oscurità e si stupiva della scioltezza della propria immaginazione, della sensazione tormentosa che non si trattasse d’immaginazione… ma di certezza. Ma come poteva saperlo?
Forse era un condizionamento della sua mente di androide. Oppure una conoscenza autentica, acquisita in qualche periodo della sua vita che era stato cancellato dalla sua memoria, come era stato cancellato il ricordo di quella volta che era andato, a otto anni, nella terra incantata… una conoscenza che adesso ritornava, come era tornato il ricordo di quella visita.
Oppure era la memoria ancestrale, una memoria autentica trasmessa dal genitore al figlio come veniva trasmesso l’istinto… ma il fatto era che essendo un androide lui non aveva genitori.
Non aveva genitori, non apparteneva a una razza, era una parodia di un uomo, creato per uno scopo che neppure conosceva.
Per quale scopo potevano averlo creato i mutanti? Quale dote possedeva, per essere loro utile? Per quale fine si sarebbero serviti di lui?
Era questo che lo faceva soffrire… che ci si servisse di lui e che lui non lo sapesse, che Ann esistesse per uno scopo che lei non poteva neppure immaginare.
L’opera dei mutanti era più grande della tecnologia da loro messa in mostra, più grande delle automobili Aeterna e delle lamette per barba che non si consumavano e dei carboidrati sintetici. Era il salvataggio e il reinsediamento del genere umano… un nuovo inizio per una razza disorientata e avviata su una brutta strada. Era lo sviluppo di un mondo o di più mondi dove la guerra non sarebbe stata semplicemente bandita ma addirittura impossibile, dove la paura non si sarebbe imposta, dove il progresso avrebbe avuto un valore diverso da quello che aveva oggi nel mondo dell’umanità.
E in un programma simile, quale era il ruolo di Jay Vickers?
Nella casa in cui si trovava ora c’era un nuovo inizio, ed era un inizio rozzo, ma solido. Fra due o tre generazioni, la gente di questa famiglia sarebbe stata pronta per le macchine e per il progresso, e allora il progresso sarebbe stato lì, a portata di mano.
I mutanti avrebbero tolto dalle mani del genere umano i giocattoli mortali e li avrebbero custoditi fino a quando il figlio dell’Uomo fosse cresciuto abbastanza per usarli senza fare del male a se stesso e al suo prossimo. Avrebbero sottratto al bambino di tre anni il giocattolo per un ragazzetto di dodici, con cui poteva farsi male, e quando avrebbe compiuto i dodici anni glielo avrebbero restituito, probabilmente abbellito e perfezionato.
E la civiltà del futuro, sotto la guida dei mutanti, non sarebbe stata puramente meccanicistica: sarebbe stata una cultura sociale, economica, artistica e spirituale, oltre che tecnologica. I mutanti avrebbero preso l’Uomo squilibrato e l’avrebbero modellato, dandogli l’equilibrio, e gli anni perduti nel rimodellarlo avrebbero pagato gli interessi nel futuro.
Ma queste erano ipotesi, erano fantasticherie: nulla di concreto. Ciò che contava, adesso, era ciò che doveva fare lui, l’androide Jay Vickers.
Prima di poter fare qualcosa, doveva conoscere meglio quanto stava accadendo, avrebbe dovuto disporre di qualche dato incontrovertibile. Aveva bisogno d’informazioni e non poteva trovarle lì, disteso su un materasso di foglie di granturco, nella soffitta sopra la cucina della casa di un neo-pioniere.
C’era un solo luogo dove poteva procurarsi quelle informazioni.
Senza fare rumore, scivolò giù dal letto e a tentoni, nel buio, cercò i suoi abiti laceri.