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La stanza era polverosa, festonata di ragnatele; e vuota com’era sembrava più grande di quanto fosse in realtà. La tappezzeria si stava staccando dalle pareti e le crepe dell’intonaco correvano, come catene irregolari di fulmini, dal soffitto allo zoccolo.

Ma si vedeva benissimo che un tempo la tappezzeria era stata ricca di colore, con festoni di fiorellini, e con la figura più grande di una pastorella di Dresda che sorvegliava un gregge di pecore lanose, e sotto lo strato di polvere si scorgeva ancora il legno incerato, pronto a brillare di nuovo appena fosse stato sottratto all’incuria.

Vickers si voltò lentamente verso il centro della stanza e vide che le porte erano al loro posto, e anche le finestre, come nell’altra stanza dove si era appena alzato da tavola, dopo aver terminato di far colazione. Ma qui la porta che dava in cucina era aperta e le finestre avevano le imposte chiuse.

Avanzò di un passo, e si accorse di lasciare impronte nella polvere: e quelle orme cominciavano dal centro della stanza. Non c’erano altre orme, che portassero in quel punto: cominciavano da lì.

Guardò la stanza e cercò di ricostruirla, non come l’aveva conosciuta meno di sessanta secondi prima, ma come l’aveva vista vent’anni prima.

Oppure era una fantasia… una fantasia condizionata? C’era stato davvero, allora, in quella stanza? Era mai esistita veramente una Kathleen Preston?

Sapeva che una certa famiglia Vickers, una famiglia di poveri contadini, aveva abitato a non più di un miglio da lì. Pensò a loro… la donna, coraggiosa nell’abito lacero, nel maglione sbiadito; l’uomo con il suo patetico scaffaletto di libri accanto al letto, con la tuta lisa e la camicia troppo grande per lui, intento a leggere i libri nella fioca luce gialla della lampada al cherosene; il figlio, un bambino pasticcione che aveva l’immaginazione troppo vivace e che una volta era stato nella terra incantata.

Una mascherata, pensò… un’amara mascherata, un posto d’ascolto per spiare ciò che dicevano i nemici. Ma era stato quello il loro compito, e l’avevano svolto bene, e avevano visto il loro figlio diventare grande, e dal modo in cui cresceva avevano compreso che non rappresentava una regressione atavistica, era veramente uno di loro.

E adesso i due che avevano finto di essere contadini solitari durante tutti quegli anni ansiosi, inserendosi in una nicchia banale indegna di loro, adesso attendevano il giorno in cui avrebbero potuto prendere il posto loro spettante nella società che avevano servito, facendo da sentinella alla grande casa di mattoni, superba sulla sua collina.

Non voleva voltar loro le spalle, e adesso non poteva neppure farlo… perché non gli restava altra scelta.

Attraversò la sala da pranzo, percorse il corridoio che conduceva alla porta d’ingresso, e lasciò dietro di sé, nella polvere, una lunga scia di orme.

Oltre quella porta, lo sapeva, non c’era nulla, né Ann, né Kathleen, nulla… tranne il gelido dovere verso una vita che non era stato lui a scegliere.


Ebbe momenti di dubbio mentre attraversava in macchina la campagna, assaporando la bellezza delle cose che vedeva e udiva e odorava… i minuscoli villaggi assopiti nell’estate, con le biciclette e i carri e gli alberi che ombreggiavano i viali e le case; il primo rosseggiare delle mele estive nei frutteti; l’amichevole rombo dei grossi camion che correvano sulle autostrade; il sorriso della ragazza dietro il banco, quando ti fermavi a un ristorante lungo la strada per prendere un caffè.

Non c’era niente che non andava, si disse, niente che non andava in quei piccoli villaggi, e nei camion e nella ragazza che sorrideva. Il mondo dell’Uomo era piacevole e fertile, un bel posto per viverci.

E allora i mutanti e i loro progetti sembravano un incubo uscito da qualche rotocalco a sensazione, e mentre guidava, Vickers si chiedeva perché non poteva semplicemente fermarsi, abbandonare la macchina e immergersi in quella piacevole esistenza che vedeva tutto intorno a sé. Doveva esserci, senza dubbio, un posto per un uomo come lui: in quelle pianure ricche di granturco, dove i piccoli villaggi spuntavano ad ogni crocicchio, un uomo poteva trovare pace e sicurezza.

Ma poi si rese conto, con riluttanza, che non cercava quelle cose per se stesso. Cercava un luogo dove nascondersi da ciò che sentiva nell’aria. Quando provava l’impulso di abbandonare la macchina sul ciglio della strada e di andarsene, lo sapeva, reagiva alla stessa paura che spingeva i Finzionisti a evadere emotivamente in un altro tempo e in un altro luogo. Era l’impulso di fuggire che gli faceva desiderare di abbandonare la macchina e di trovare un nascondiglio nella pace di quelle terre ricche di granturco.

Ma neppure lì, nel cuore agreste del continente, c’era una vera pace, una sicurezza vera. C’era una serenità animalesca e, talvolta, una certa sicurezza spensierata… se non leggevi mai un giornale, se non ascoltavi mai una trasmissione radio e non parlavi con nessuno. Perché i segnali dell’insicurezza si scorgevano dovunque, sotto l’apparenza solare: su ogni soglia e in ogni casa, e all’angolo di ogni drugstore.

Lesse i giornali, e le notizie erano brutte. Ascoltò la radio, e i commentatori parlavano di una crisi nuova, la più grave che il mondo avesse mai affrontato. Ascoltò la gente che discuteva negli atrii degli alberghi dove prendeva alloggio o nei ristoranti dove si fermava lungo la strada. Tutti parlavano e scuotevano la testa, e si capiva che erano preoccupati.

Dicevano: «Quello che non riesco a capire è come la situazione possa essere cambiata tanto rapidamente. Una settimana o due fa, sembrava che Oriente e Occidente stessero per allearsi contro i mutanti. Finalmente avevano un nemico comune, da combattere insieme anziché battersi l’uno contro l’altro, ma adesso hanno ricominciato ed è peggio di prima.»

Dicevano «Secondo me, sono i comunisti che hanno messo in piedi la faccenda dei mutanti. Si ricordi quel che le dico, i responsabili sono loro.»

Dicevano: «Non sembra neanche possibile. Siamo qui, a un milione di miglia dalla guerra, e tutto è calmo e tranquillo. E domani…»

E domani e domani e domani.

Dicevano: «Se stesse in me, mi metterei in contatto con i mutanti. Hanno certi assi nella manica, quelli, che potrebbero spedire all’inferno i comunisti.»

Dicevano: «Come dicevo quarant’anni fa, non avremmo mai dovuto smobilitare, alla fine della seconda guerra mondiale. Avremmo dovuto attaccarli allora. Avremmo potuto liquidarli in un mese o due.»

Dicevano: «Il guaio è che non si sa mai niente. Nessuno ti dice mai niente, e quando dicono qualcosa non è vero.»

Dicevano: «Io non starei a perdere tempo con quelli neanche per un minuto. Farei un bel carico di bombe e gliele scaricherei sulla testa.»

Vickers li ascoltava, e nessuno parlava di compromesso e di intesa. A sentirli, non c’era speranza che la guerra potesse venire scongiurata. «Se non adesso,» dicevano, «sarà tra cinque anni, o tra dieci, perciò facciamola finita. Bisogna colpire per primi. In una guerra simile non ci sarà una seconda occasione. O loro o noi…»

E allora Vickers comprese che persino lì, nel cuore della nazione, tra le fattorie e i piccoli villaggi e nei ristoranti sui bordi della strada, ribolliva l’odio. E questo, si disse, dava la misura della cultura edificata sulla Terra… una cultura fondata sull’odio e su un orgoglio terribile e sul sospetto verso tutti coloro che non parlavano la stessa lingua, non mangiavano lo stesso cibo o non si vestivano allo stesso modo.

Era una cultura meccanica e sghemba di macchine sferraglianti, un mondo tecnologico che poteva fornire comodità animalesche, ma non la giustizia umana e neppure la sicurezza. Era una cultura che aveva lavorato i metalli, manipolato l’atomo, domato le sostanze chimiche, e aveva costruito utensili e strumenti complicati e pericolosi. Aveva concentrato la propria attenzione sugli aspetti tecnologici, ignorando quelli sociologici, e così un uomo poteva premere un bottone e distruggere una città lontana senza neppure conoscere la vita e le abitudini e i pensieri e le speranze e le convinzioni delle persone che aveva ucciso.

Sotto la superficie lucida si poteva udire il rombo minaccioso delle macchine, e gli ingranaggi e i pignoni, la cinghia di trasmissione, il generatore, senza il lievito della comprensione umana, erano le avanguardie del disastro.

Vickers guidava e si fermava a mangiare e proseguiva. Mangiava, dormiva e guidava. Guardava i campi di granturco e le mele che rosseggiavano nei frutteti e udiva il canto dei mietitori e odorava il profumo del trifoglio e guardava il cielo e capiva che Flanders aveva ragione, che per sopravvivere l’Uomo doveva mutare, e che la mutazione della sopravvivenza doveva vincere prima che scoppiasse la tempesta dell’odio.

Ma non erano soltanto le notizie sulla guerra imminente a riempire le colonne dei quotidiani e i quarti d’ora frenetici dei commentatori radiofonici.

C’era ancora la minaccia dei mutanti e l’odio verso i mutanti e le esortazioni incessanti a vigilare contro i mutanti. C’erano disordini e linciaggi, e negozi di «casalinghi» incendiati.

E qualcosa d’altro.

Un sussurro insinuante che si spargeva dovunque, che veniva ripetuto agli angoli dei drugstores e ai crocicchi polverosi e nei locali notturni semibui delle città più grandi… e quel mormorio affermava che c’era un altro mondo, un mondo nuovo di zecca dove ci si poteva rifare una vita, dove ci si poteva rifugiare, sfuggendo i millenni di errori accumulati dal mondo attuale.

All’inizio la stampa era stata cauta, poi aveva pubblicato articoli prudenti dai titoli molto sobri, e i commentatori radiofonici erano stati altrettanto cauti, in principio, ma poi si erano buttati. In pochi giorni le notizie dell’altro mondo e degli strani individui dagli occhi lucenti che avevano parlato con qualcun altro (sempre qualcun altro) e che affermavano di venire da quell’altro mondo erano passate a figurare accanto alle notizie sulla guerra imminente e sulle manifestazioni d’odio contro i mutanti.

Si sentiva che il mondo era sulle spine, inquieto, teso come lo squillo improvviso e stridente d’un telefono nel cuore della notte.

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