Capitolo primo

gennaio 1995

Sandra Philo sondò i ricordi di Peter Hobson.

L’orrore, venne a sapere, aveva avuto inizio nel 1995, sedici anni prima. A quel tempo Peter Hobson non era ancora al centro della controversia fra scienza e fede che già stava scuotendo il mondo. No, a quel tempo era soltanto uno studente ventiseienne sul punto di laurearsi all’Università di Toronto, al lavoro sulla sua tesi di laurea in ingegneria biomedica… uno studente che stava per avere il più forte shock della sua vita…

Il telefono suonò nella stanza di Peter Hobson, al dormitorio. — Ci hanno assegnato un bisteccone — disse la voce di Kofax. — Sei pronto per lavorarci sopra?

Un bisteccone. Una persona morta. Peter non si sarebbe mai abituato alle volgarità di Kofax. Si sfregò gli occhi assonnati. — S-sì. — Cercò di apparire più sicuro di se stesso. — Naturalmente — disse. Puoi scommetterci.

— Mamikonian sta per cominciare ad affettarlo — disse Kofax. — Tu puoi manovrare l’ECG. Questo dovrebbe dare una buona spinta ai tuoi requisiti in materia di esercitazioni pratiche.

Mamikonian. Chirurgo specialista in trapianti proveniente dalla Stanford. Sessant’anni suonati, mani ferme come quelle di una statua. Sempre alla ricerca di organi. Cristo, sicuro che lui voleva partecipare. — Fra quanto?

— Un paio d’ore — disse Kofax. — Il ragazzo è sotto procedura di supporto vita… per tenere la carne in fresco. Mamikonian si trova a Mississauga; tanto gli ci vorrà per arrivare qui e prepararsi.

Il ragazzo, aveva detto. Qualcuno la cui vita era durata tragicamente poco.

— Cosa gli è successo? — domandò Peter.

— Incidente stradale. Il ragazzo guidava una moto, e si è sfasciato contro una Buick.

Un donatore giovane. Peter si sforzò di pensare a lui in questo modo. — Mi sto alzando — disse.

— Sala Operatoria Tre — lo avvisò Kofax. — Hai un’ora prima di cominciare a prepararti.

Peter non era obbligato a informarsi, lo sapeva, ma non potè farne a meno. Mentre andava alla SO 3 si fermò all’Accettazione del Pronto Soccorso e controllò i fascicoli negli scomparti dello scaffale d’alluminio. Un uomo di trentadue anni caduto attraverso un lucernario di vetro, con parecchi gravi tagli da ricucire. Un mendicante arrivato con un braccio rotto. Una ragazza con una ferita da coltello. Due donne coi crampi allo stomaco ricoverate per sospetto avvelenamento. Ah…

Enzo Bandello, diciassette anni.

Incidente di motocicletta, proprio come aveva detto Kofax.

Un’infermiera si fermò accanto a lui e guardò il fascicolo da sopra la sua spalla. L’etichetta sul taschino diceva Sally Cohan. Si accigliò. — Povero ragazzo. Io ho perduto un fratello della sua stessa età. — Una pausa. — I suoi genitori sono nella cappella.

Peter annuì.

Enzo Bandello pensò. Diciassette anni.

Nel tentativo di salvarlo la squadra al lavoro in traumatologia gli aveva iniettato un flacone intero di dopamina, disidratandolo deliberatamente, con la speranza di ridurre il gonfiore cerebrale di solito associato alle gravi ferite alla testa. Troppa dopamina, però, poteva danneggiare il muscolo cardiaco. Secondo la scheda, alle 02:14 del mattino avevano cominciato a filtrare via la dopamina somministrandogli dei fluidi.

L’ultima lettura mostrava che la sua pressione sanguigna era ancora troppo alta — un effetto della dopamina — ma stava calando. Peter passò alla pagina accanto. Un rapporto del Laboratorio Analisi Sierologiche: Enzo non aveva tracce di epatite e di AIDS. Gli esami del sangue e dei tessuti erano altrettanto buoni.

Un donatore perfetto, pensò Peter. Tragedia o miracolo? I suoi organi avrebbero salvato la vita di mezza dozzina di persone. Mamikonian avrebbe per prima cosa prelevato il cuore, un’operazione di trenta minuti. Poi il fegato: due ore di lavoro. Subito dopo la squadra dei reni li avrebbe espiantati entrambi. Quindi sarebbe toccato alle cornee. Da ultimo le ossa e altri tessuti.

Non ci sarebbe rimasto molto da seppellire.

— Il cuore va a Sudbury — riferì Sally. — Dicono che ne stavano aspettando proprio uno come il suo.

Peter rimise il fascicolo nello scomparto e attraversò la doppia porta che comunicava col resto dell’ospedale. Da lì alla SO 3 c’erano due possibili percorsi egualmente lunghi; lui scelse quello che passava dalla cappella.

Non era mai stato un credente. La sua famiglia, in Saskatchewan, apparteneva alla Chiesa Protestante Canadese Riformata. L’ultima volta che lui aveva visto l’interno di una chiesa era successo in occasione di un matrimonio. La volta precedente a quella, un funerale.

Dal corridoio potè vedere i Bandello, seduti in un banco centrale. La madre stava piangendo piano. Suo marito le teneva un braccio intorno alle spalle. L’uomo era robusto e abbronzato, e indossava una tuta da lavoro ancora sporca di calcina. Un muratore, forse. Molti italiani di Toronto lavoravano nell’edilizia. Quasi tutti erano emigrati in Canada subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, adattandosi a qualunque cosa per dar da mangiare alle loro famiglie, ma pochi di loro erano rimasti ai lavori manuali.

E ora il figlio di quell’uomo, un ragazzo giovane, era morto.

La cappella era neutra, adatta per qualunque religione, ma il padre guardava davanti a sé come rivolgendo una muta domanda a un crocifisso, quasi che potesse vedere Gesù Cristo là su quella parete. L’uomo si fece il segno della croce.

Da qualche parte a Sudbury, Peter lo sapeva, c’era gente che si sentiva rinascere. Un cuore stava per arrivare; una vita sarebbe stata salvata. Da qualche parte c’era un po’ di gioia.

Ma non lì.

Peter proseguì nel corridoio.

Poco dopo entrò nella stanza degli autoclave. Attraverso una larga finestra si poteva guardare in sala operatoria. Quasi tutta la squadra chirurgica era già al posto di lavoro. Sul lettino giaceva il corpo di Enzo: nudo e completamente rasato, con due strati di iodina color ruggine spennellati sulla pelle, e un paio di fogli di plastica incolore che aderivano sopra le zone d’intervento.

Peter cercò di gettare uno sguardo a ciò che gli altri erano addestrati a ignorare: la faccia del donatore. Non molto di essa era visibile; la testa di Enzo era parzialmente coperta da un telino verde, fissato intorno al tubo della ventilazione polmonare.

La squadra degli espianti era di solito tenuta all’oscuro dell’identità del donatore; questo rendeva le operazioni più facili, secondo i chirurghi. Peter era probabilmente l’unico a conoscere il nome del ragazzo.

Fuori dalla SO 3 c’erano due lavandini cromati. Peter cominciò a lavarsi per gli otto minuti previsti dal regolamento, con un timer digitale alla parete sopra il rubinetto che gli misurava il tempo.

Dopo cinque minuti arrivò il Dr. Mamikonian, che prese a insaponarsi le mani al lavandino accanto. Aveva capelli grigio-acciaio e una mascella squadrata, più un supereroe di mezz’età che un chirurgo.

— Lei sarebbe? — lo interrogò, mentre si lavava.

— Peter Hobson, signore. Sono un laureando in ingegneria biomedica.

Mamikonian sorrise. — Lieto di conoscerla, Peter. — Continuò a insaponarsi con energia. — Mi scusi se non le stringo la mano — scherzò, ridacchiando. — Qual è il suo compito, oggi?

— Be’, il nostro corso di lavoro prevede che si facciano almeno quaranta ore di esperienza reale con la tecnologia medica, nella pratica quotidiana ospedaliera. Il professor Kofax, il consigliere a cui mi appoggio per compilare la tesi, ha provveduto che oggi sia io a manovrare l’ECG. — Fece una pausa — Cioè, se questo va bene per lei, signore.

— Niente in contrario — annuì Mamikonian. — Guardi e impari.

— È quello che farò, signore.

Il segnatempo sopra il suo lavandino mandò un beep. Peter non era abituato a lavarsi le mani così a lungo; se le sentiva ruvide. Le tenne davanti a sé all’altezza del petto. L’infermiera addetta agli autoclave apparve con una salvietta sterile. Peter la prese, si asciugò, quindi indossò il camice verde che la donna aveva estratto da uno scomparto metallico.

— Misura dei guanti? — domandò lei.

— Sette.

L’infermiera aprì una scatola da cinquanta pezzi, tirò fuori due guanti di lattice e glieli sbatté in mano.

Peter entrò nella SO 3. Sopra di lui, nella galleria di osservazione semicircolare, una dozzina di persone stavano guardando attraverso il soffitto di vetro.

Il tavolo meccanico che sosteneva il corpo di Enzo era nel centro della sala. Nelle braccia e nel collo erano stati inseriti tre tubi volumetrici, un sensore che monitorava la pressione del sangue, e un tubicino che arrivava fino al cuore e controllava il livello di idratazione. Su uno sgabello sedeva una giovane donna dai lineamenti asiatici, occupata a tener d’occhio i monitor di volume, il monitor dell’ossido di carbonio e la pompa d’infusione volumetrica.

Fino all’arrivo di Peter, la ragazza aveva anche sorvegliato l’oscilloscopio dell’ECG montato poco più in alto della testa di Enzo. Lui prese posto sulla sinistra dell’apparecchiatura e regolò meglio il contrasto del display. Il ritmo delle pulsazioni era normale e non c’era traccia di danni al muscolo cardiaco.

Questo gli diede un brivido nella schiena. Il ragazzo era legalmente morto, ma il suo cuore batteva ancora.

— Io sono Hwa — disse la ragazza asiatica. — È la tua prima volta?

Peter annuì. — Ho già partecipato a diverse cosette, ma niente di questo livello.

La bocca di Hwa era nascosta da una mascherina facciale, ma lui potè vedere i suoi occhi incresparsi in un sorriso. — Ti abituerai prima di quanto credi — disse la ragazza.

Su una parete della sala c’era un pannello luminoso dove il tecnico della radiologia aveva applicato una lastra del torace di Enzo. I polmoni non erano collassati, e il campo polmonare appariva sgombro e trasparente; il cuore, una silouette in parte sovrapposta alla colonna dorsale, era compatto e ben formato.

Mamikonian entrò in sala. Tutti gli occhi si volsero verso di lui: il direttore della loro orchestra. — Buongiorno a tutti — disse, in risposta ai saluti. — Bene, mettiamoci al lavoro, signori. Siamo pronti? — L’uomo venne avanti, aggirando le apparecchiature e i carrelli degli strumenti.

— La pressione del sangue si sta abbassando un po’ troppo — disse Hwa.

— Fluido cristalloide, per favore — ordinò Mamikonian, girandosi a leggere i display. — E aggiungiamo anche un altro po’ di dopamina.

Il chirurgo si trovava sulla destra di Enzo, all’altezza del suo torace. Un po’ più indietro e di lato c’era la ferrista. Accanto a lei stava un assistente chirurgo; un secondo assistente, munito dei dilatatori per la parete addominale, era sul lato opposto del lettino. Cinque contenitori da un litro di Lattosio di Ringer freddo come il ghiaccio erano allineati su un carrello, pronti per essere versati rapidamente nella cavità toracica. Un’infermiera stava disponendo in fila sei buste plastiche di sangue rosso scuro. Seduto dietro la testa del lettino Peter cercò di occupare meno spazio possibile e di tenersi fuori dai piedi.

Vicino a Peter il perfusionista, un barbuto Sikh che portava un largo berretto verde sopra il turbante, esaminò una serie di quadranti sotto cui era scritto «temperatura sonde», «vie arteriose» e «aspiratore cardiaco.» Poco più indietro un tecnico sorvegliava con attenzione la pallina nera che saliva e scendeva nel tubo della ventilazione, per accertarsi che i polmoni di Enzo continuassero a respirare adeguatamente.

— Cominciamo — disse Mamikonian.

Un’infermiera venne avanti e iniettò qualcosa in un ago già confitto in un braccio di Enzo; poi si girò a parlare in un microfono che pendeva dal soffitto: — Myolock somministrato alle ore dieci e zero due del mattino.

Mamikonian domandò un bisturi non elettrico e praticò un’incisione verticale a partire dal pomo d’Adamo di Enzo fino al centro del petto. La lama apriva la carne con facilità, scivolando in silenzio sulla superficie dello sterno.

L’oscilloscopio dell’ECG ebbe un sussulto. Peter guardò uno dei monitor di Hwa: anche la pressione del sangue stava salendo.

— Signore — disse Peter, — le pulsazioni cardiache aumentano.

Mamikonian gettò un’occhiata all’oscilloscopio. — Questo è normale — borbottò, seccato per esser stato interrotto.

Il chirurgo riconsegnò il bisturi, ora rosso di sangue e scivoloso, alla ferrista. Lei gli passò la sega sternale, e lui la accese. Il ronzio nascose altri rumori, fra cui il bip-bip-bip dell’ECG di Peter. La lama circolare della sega aggredì lo sterno dall’alto in basso, e dalla cavità toracica si levò un odore asprigno: polvere d’osso. Quando lo sterno fu tagliato in due, un tecnico si accostò per inserire il dilatatore toracico. Le ganasce allargarono le costole finché fu visibile il cuore, che pulsava una volta al secondo.

Mamikonian annuì e fece un cenno a un altro tecnico. Su una parete c’era il contatore ischemico digitale; l’apparecchio sarebbe stato acceso nel momento il cui il chirurgo avrebbe reciso i vasi intorno al cuore, misurando il tempo in cui non ci sarebbe stato flusso di sangue attraverso l’organo. Accanto a Mamikonian c’era una tazza di plastica contenente soluzione salina. Il cuore sarebbe stato deposto lì per svuotarsi del sangue vecchio. Poi l’avrebbero trasferito in un container Igloo pieno di ghiaccio per il volo fino a Sudbury.

Mamikonian chiese un altro bisturi e cominciò a incidere il pericardio. Proprio in quel momento, quando la lama affondò nella membrana che circondava il cuore…

Il torace di Enzo Bandello, donatore d’organi legalmente morto, si sollevò con energia.

Dalla valvola del tubo della ventilazione che gli usciva dalla bocca scaturì un respiro.

Pochi secondi dopo ci fu un secondo respiro altrettanto forte.

— Cristo… — mormorò Peter. — Che diavolo succede?

Mamikonian scosse il capo con aria irritata. Fece schioccare le dita guantate verso un’infermiera. — Altri venti cc di Myolock.

L’infermiera venne a somministrare una seconda dose.

La voce di Mamikonian suonò sarcastica. — Vediamo se possiamo finire questa dannata cosa senza che il donatore si alzi e se ne vada, d’accordo, signori?

Peter era rimasto stupefatto da quei respiri. Venti minuti dopo Mamikonian uscì dalla sala operatoria e andò via, insieme al cuore appena espiantato. A questo punto, dato che non poteva esserci più bisogno di un operatore all’elettrocardiografo, lui passò al piano di sopra e dalla galleria guardò il resto degli espianti. Quando tutto fu finito — quando il corpo svuotato di Enzo Bandello fu chiuso con una cucitura rapida e inviato alla camera mortuaria — Peter scese di nuovo nella stanza degli autoclave. Hwa si stava togliendo i guanti.

— Senti un po’, cos’è successo là dentro? — le chiese lui.

Hwa si massaggiò il collo con un mugolio; era sfinita. — Vuoi dire quei respiri? — Scrollò le spalle. — Succede, ogni tanto.

— Ma Enz… ma il donatore era morto.

— Naturalmente. Però era anche collegato a diverse apparecchiature di supporto. A volte c’è una reazione.

— E… e cosa significa quella somministrazione di Myolock? Che roba è?

Hwa cominciò a slacciarsi il camice. — È una sostanza paralizzante per la muscolatura. Devono fargliene almeno una dose. Se non lo fanno, può capitare che il donatore sollevi le ginocchia fin sul petto, mentre il chirurgo incide.

Peter era sbalordito. — Dici sul serio?

— Uh-huh. — Hwa gettò il camice in una cesta. — È soltanto una reazione muscolare. Oggi, anestetizzare il cadavere è una procedura di routine.

— Anestetizzare… il cadavere? — disse lentamente lui.

— Già. — La ragazza annuì. — Probabilmente Dianne avrebbe dovuto somministrare subito una dose completa di Myolock, ma è roba che costa e l’ospedale cerca sempre di risparmiare. — Fece una pausa. — A volte mi dà i brividi vedere che si muovono in quel modo. Ma… ehi, la chirurgia degli espianti è fatta così.

Peter aveva nel portafoglio una copia degli orari settimanali della sua ragazza, Cathy Churchill. Lui era già nel primo anno del corso di specializzazione, Cathy era all’ultimo anno di Chimica. Da lì a venti minuti avrebbe finito l’ultima lezione di quel giorno. Il giovane si affrettò a tornare al campus e andò a sedersi nell’atrio dell’edificio dove c’erano le aule di chimica.

La lezione ebbe termine e Cathy uscì in corridoio chiacchierando animatamente con la sua amica Jasmine. Fu quest’ultima ad accorgersi che Peter stava aspettando nell’atrio. — Oh-ho — disse, dando di gomito a Cathy — Guarda chi c’è qui. Mr. Rubacuori in persona.

Peter sorrise a Jasmine e scambiò un paio di battute con lei, ma in realtà aveva occhi soltanto per Cathy. La ragazza aveva un visetto a forma di cuore, lunghi capelli neri ed enormi occhi azzurri. Come sempre, nel vedere Peter s’era letteralmente illuminata in viso. E nonostante ciò che aveva visto in sala operatoria lui s’incantò a guardare i suoi occhi. Succedeva a ogni incontro: c’era elettricità fra loro… così era come Jasmine e altri amici commentavano la cosa.

— Bene, credo che ti lascerò sola con questo malintenzionato — disse Jasmine, sempre sogghignando. Gli altri due la salutarono e poi si spostarono dietro una colonna per baciarsi. Quei brevi momenti di contatto bastarono a Peter per sentirsi rinascere. Ormai si frequentavano da tre anni, ma in ogni loro abbraccio c’era ancora qualcosa di nuovo e meraviglioso.

Quando si furono separati, Peter domandò: — Che programmi hai per il resto della giornata?

— Stavo pensando di andare alla Facoltà di Belle Arti per vedere se riesco a farmi assegnare un forno. Vorrei cuocere alcune ceramiche. Ma questo può aspettare — disse lei, in tono malizioso. Sopra di loro quasi tutti i tubi fluorescenti erano stati tolti per economizzare, ma agli occhi di Peter il sorriso di Cathy illuminava l’atrio. — Hai qualche idea?

— Sì. Vorrei che tu venissi in biblioteca con me.

Di nuovo quell’espressione maliziosa. — Né tu né io siamo capaci di farlo in silenzio — disse Cathy. — Anche se andassimo a farlo in qualche sezione deserta, come dietro gli scaffali della letteratura canadese… sospetto che il rumore disturberebbe molto tutti gli altri.

Lui non potè fare a meno di sogghignare, e si piegò di nuovo a baciarla.

— Forse più tardi — disse, — ma prima avrei bisogno del tuo aiuto in una piccola ricerca, se non ti secca.

Si presero per mano e uscirono sul prato.

— Ricerca su che argomento?

— Sulla morte — disse Peter. Cathy spalancò gli occhi. — Perché?

— Oggi, poco fa, ero in sala operatoria per le mie ore di pratica. Mi sono occupato dell’ECG durante un’operazione per rimuovere un cuore destinato a un trapianto.

Gli occhi di lei si empirono di luce. — Una cosa affascinante, no?

— Sì, in effetti, ma…

— Ma cosa?

— Non credo che il donatore fosse morto, quando hanno cominciato a espiantare i suoi organi.

— Oh, avanti, non scherzare! — esclamò Cathy, lasciando andare la sua mano e prendendolo a braccetto.

— Non sto scherzando. La sua pressione sanguigna si è alzata quando il chirurgo ha cominciato a incidere, e le pulsazioni cardiache hanno accelerato. Questi sono sintomi classici di stress… o di dolore fisico. E la loro procedura richiede che anestetizzino il corpo. Pensaci un momento: devono anestetizzare una persona dichiarata morta.

— Sul serio?

— Sì. E quando il chirurgo ha tagliato il pericardio, il donatore ha ansimato con forza.

— Mio Dio. E il chirurgo cos’ha fatto?

— Ha ordinato di iniettare nel corpo una sostanza paralizzante, e poi si è limitato a continuare l’operazione. Tutti quanti sembravano convinti che quella fosse la cosa più normale e ragionevole del mondo. Naturalmente, prima che l’espianto fosse finito il donatore era del tutto morto.

Si lasciarono alle spalle il Lash Miller Building e girarono a nord verso Bloor Street. — E tu cosa cerchi di scoprire, adesso? — chiese Cathy.

— Voglio sapere come fanno a determinare che una persona è morta, prima di cominciare a espiantare i suoi organi.

Stavano facendo ricerche da circa un’ora quando Cathy tornò al tavolo dov’era seduto Peter. — Ho trovato qualcosa, qui — disse.

Lui la guardò con aria d’attesa.

La ragazza avvicinò una sedia e si poggiò sulle ginocchia un pesante volume rilegato.

— Questo è un libro sulle procedure dei trapianti, pubblicato l’anno scorso. Il problema coi trapianti, dice qui, è che non si può staccare il corpo del donatore dalle apparecchiature che lo mantenevano in vita senza incorrere in un grave inconveniente, perché una volta spente queste apparecchiature gli organi cominciano subito a deteriorarsi. Così, anche se il donatore è dichiarato morto, è probabile che il suo cuore non si sia mai fermato. Di conseguenza, almeno per quanto riguarda l’elettrocardiogramma, un donatore morto è vivo quanto lo siamo tu e io.

Peter annuì, eccitato. Questo era esattamente ciò che aveva sperato di trovare. — Allora come determinano se il donatore è morto?

— Un modo è di versargli acqua gelida negli orecchi.

— Mi stai prendendo in giro.

— No. Qui dice che questo disorienta completamente una persona, anche se è in coma profondo. E spesso causa il vomito spontaneo.

— È l’unico test a cui vengono sottoposti i soggetti?

— No. Un altro metodo consiste nel toccare con qualcosa di ruvido la superficie dei bulbi oculari, per vedere se il donatore cerca di sbattere le palpebre. E poi tolgono il… voi come lo chiamate? Il tubo per respirare?

— La ventilazione endotracheale.

— Sì — disse lei. — Tolgono questo tubo per breve tempo, per vedere se la necessità di ossigeno del donatore lo induce a ricominciare a respirare coi suoi mezzi.

— E cosa dice dell’EEG?

— Questo è un libro inglese. Qui dice che quando è stato scritto la legge non richiedeva obbligatoriamente l’elettroencefalogramma per determinare se un potenziale donatore era morto.

— Incredibile — borbottò Peter.

— Ma sicuramente nel Nord America l’EEG è richiesto dalla legge, non credi?

— Immagino di sì, almeno negli USA e qui in Canada.

— E questo donatore che tu hai visto oggi doveva avere l’EEG piatto prima che ordinassero di espiantare i suoi organi.

— Probabilmente sì — disse Peter. — Ma nella lezione in cui ci hanno parlato dell’elettroencefalogramma il professore ha detto di casi in cui gente che aveva un EEG piatto poi ha mostrato qualche attività cerebrale.

Cathy sbatté le palpebre, sorpresa. — Tuttavia — disse, — anche se il donatore avesse una debole parvenza di vita…

Lui scosse il capo. — Non sono sicuro che la si possa definire una «debole parvenza» di vita. Nel caso che ho visto, il cuore batteva, il cervello riceveva dai polmoni sangue ossigenato, e c’è stato un chiaro sintomo che il dolore corporale veniva percepito.

— Anche così — disse Cathy, — anche se fosse tutto vero, è però altrettanto vero che un cervello che non ha mostrato attività per un periodo prolungato dev’essere gravemente danneggiato. Tu stai parlando di un vegetale.

— Probabilmente — ammise Peter. — Ma c’è una differenza fra prelevare organi da un cadavere e prelevarli da un corpo vivente, non importa quanto grave sia il danno cerebrale ormai subito da questa persona.

Cathy ebbe una smorfia e tornò a cercare fra i titoli in archivio. Da lì a poco trovò uno studio durato tre anni su casi di arresto cardiaco in pazienti ricoverati all’Henry Ford Hospital di Detroit. Un quarto dei pazienti a cui era stata diagnosticata la cessazione del battito in realtà lo aveva ancora, come confermato da cateteri inseriti in un’arteria. Il rapporto affermava che questi pazienti erano stati dichiarati morti un po’ troppo in fretta.

Nel frattempo Peter trovò parecchi articoli interessanti usciti sul London Times nell’anno 1986. Il cardiologo David Wainwright Evans e altri tre chirurghi anziani s’erano rifiutati di eseguire trapianti a causa dell’ambiguità delle procedure per stabilire se il donatore fosse realmente morto. I medici avevano esposto le loro preoccupazioni in una lettera di cinque pagine alla British Conference of Royal Medical Colleges.

Peter mostrò gli articoli a Cathy, che commentò: — Sì, ma i Royal Medical Colleges hanno respinto le loro tesi definendole infondate.

Peter scosse il capo. — Io non posso essere d’accordo. — La guardò negli occhi. — Domani, al servizio funebre per Enzo Bandello, diranno che il ragazzo è morto a causa delle ferite riportate in un incidente stradale. Questo non è esatto. Io ho visto Enzo Bandello morire. Ero proprio lì quando è successo. È stato ucciso dal chirurgo che gli ha asportato il cuore dal petto.

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