Capitolo sesto

Peter bussò delicatamente, poi entrò in silenzio nella camera singola del reparto dove tenevano in cura i malati terminali. Una fragile donna sui novant’anni era seduta sul letto, con le spalle poggiate alla testata inclinata a un angolo di quarantacinque gradi. Due bottiglie di liquido chiaro pendevano da un’asta, a sinistra. Un piccolo apparecchio TV era montato su un supporto girevole sul lato destro del letto.

— Buongiorno, Mrs. Fennell — la salutò Peter.

— Buongiorno, giovanotto — disse la donna, con voce rauca e sottile. — Lei è un dottore?

— No. O almeno, non un dottore in medicina. Sono un ingegnere.

— È venuto per costruirmi una pista di pattinaggio in camera? O una diga idroelettrica? Io preferirei la pista.

— Temo di no. Io non sono quel tipo di ingegnere. Io sono…

— Stavo scherzando, giovanotto.

— Già. L’avevo capito. Il Dr. Chong mi ha detto che di solito lei è di buonumore.

Lei si strinse amabilmente nelle spalle, un gesto rassegnato con cui commentava la stanza d’ospedale, le fleboclisi, il lettino e tutto quanto. — Ci provo.

Peter si guardò attorno. Non c’erano vasi di fiori, né cartoline o biglietti, o cose che sembrassero portate da un visitatore. Mrs. Fennell era sola al mondo. Si chiese quali motivi avesse per essere di buonumore.

— Spero di non disturbarla. Io avrei, mmh, un favore da chiederle — disse. — Ho bisogno del suo aiuto in un esperimento.

La voce di lei crepitava come un cartoccio di foglie secche. — Che genere di esperimento?

— È una cosa del tutto innocua, indolore. Mi limiterei a chiederle di mettersi una specie di cuffia che ha una serie di piccoli elettrodi nel suo interno.

Le foglie secche crepitarono in quella che poteva essere una risata. Mrs. Fennell gli indicò i tubi che aveva nelle braccia. — Un altro affare o due ficcato addosso non cambierà le cose, suppongo. Quanto tempo dovrò portare quella sua cuffia?

— Be’, finché… uh, fino a…

— Finché morirò? È questo che vuol dire? Peter si sentì arrossire. — Sì, signora.

— A cosa servono gli elettrodi?

— La mia ditta costruisce apparecchiature biomediche. Abbiamo realizzato il prototipo di un nuovo elettro-encefalografo super sensibile. Lei sa cos’è un elettro-encefalografo?

— Un’attrezzatura che controlla le onde cerebrali. — La faccia di Mrs. Fennell era poco mobile; Chong aveva detto che era stata colpita da alcune piccole paresi. Ma i suoi occhi sorridevano. — Non si passa tanto tempo in un ospedale come ne ho passato io, senza imparare qualcosa.

Peter annuì.

— Questo speciale apparecchio per il controllo delle onde cerebrali è molto più preciso di quelli che usano qui. Ciò che io mi proporrei di registrare, sarebbe…

— Lei si propone di registrare la mia morte. È così?

— Mi spiace. Non volevo sembrarle insensibile.

— Non penso che lo sia. Perché vuole registrare la mia morte?

— Be’, vede, in questo momento non c’è nessun modo sicuro al cento per cento di capire se il cervello umano ha smesso di funzionare. Questo nuovo apparecchio dovrebbe essere in grado di stabilire il momento preciso della morte.

— Perché a qualcuno dovrebbe interessare questo? Io non ho parenti.

— Be’, in molti casi i degenti sono tenuti collegati ad apparecchi medici semplicemente perché non sappiamo con certezza se una persona sia veramente morta. Io sto cercando di arrivare a una definizione della morte che sia valida non soltanto dal punto di vista legale, ma da quello reale… un inequivocabile test che dimostri se un individuo è vivo o morto.

— E questo come può servire a qualcuno? — domandò lei. Il suo tono rivelava che quella era la questione che le interessava di più.

— Sarebbe importante nel trapianto degli organi — disse Peter.

Lei inclinò il capo. — Nessuno potrebbe volere i miei organi.

Peter sorrise. — Forse no, ma un giorno il mio apparecchio potrebbe servire a garantire che non vengano accidentalmente prelevati organi da una persona che non è del tutto morta. Sarà utile anche nei reparti di pronto soccorso, o nelle sale operatorie, per accertarsi che i tentativi di salvare un paziente non siano interrotti troppo presto.

Mrs. Fennell digerì quelle spiegazioni per qualche momento, poi: — Lei avrebbe anche potuto fare a meno del mio permesso, no? Le sarebbe bastato montare la sua attrezzatura, dicendomi che è solo un esame di routine. La metà delle volte non mi spiegano neppure quello che stanno facendo, qui.

Peter annuì. — Suppongo che sia come dice. Ma io ho pensato che fosse meglio chiederle il permesso.

Mrs. Fennell sorrise ancora. — Lei è un giovanotto molto simpatico, dottor…?

— Hobson. Ma la prego, mi chiami Peter.

— Peter. — Le rughe intorno ai suoi occhi s’accentuarono. — Sono qui da mesi, e nessuno dei medici mi ha mai chiesto di chiamarlo per nome. Hanno esaminato ogni parte del mio corpo, ma continuano a pensare che tenere le distanze sia parte del loro lavoro. — Fece una pausa. — Lei mi piace, Peter.

Lui sorrise. — Anche lei mi piace, Mrs. Fennell… Margaret.

L’anziana donna fece una risata, stavolta inequivocabile. — Mi chiami Peggy. — Tacque un momento, e il suo volto rugoso fu attraversato da un’ombra. — Sa, questa è la prima volta che sento il mio nome di battesimo da quando sono ricoverata qui. E così, Peter, lei è interessato a quello che succede al momento della morte?

— Sì, Peggy. Molto interessato.

— Allora perché non prende una sedia e si mette comodo? Io posso parlargliene. — Abbassò la voce. — Sa, io sono già morta una volta.

— Scusi? — Diavolo, gli era sembrata così lucida…

— Non mi guardi così, Peter. Non sono pazza. Si sieda. Coraggio, si sieda. Le racconterò quel che è avvenuto.

Peter annuì appena, senza sbilanciarsi, e avvicinò al letto una sedia di plastica.

— È successo quarant’anni anni fa — disse Mrs. Fennell, girando gli occhi per guardarlo. — Da poco tempo mi era stato diagnosticato il diabete. Per vivere dipendevo dall’insulina, ma ancora non mi ero resa conto di quanto avrei dovuto stare attenta. Mio marito Kevin era uscito a far compere. Io avevo avuto la mia iniezione mattutina di insulina, ma ancora non avevo fatto colazione. Suonò il telefono. Era una mia conoscente, che aveva il vizio di chiacchierare per ore, e la ascoltai senza interromperla. Dopo un po’ di tempo mi accorsi che stavo sudando e avevo mal di capo, ma non volli dirle nulla. Poi il mio cuore cominciò a battere sempre più forte, mi tremavano le braccia, e mi si confondeva la vista. Ero sul punto di scusarmi con questa donna, per riattaccare il telefono e andare a mangiare qualcosa, quando ebbi un collasso. Era una reazione insulinica. Ipoglicemia.

Benché il volto di lei fosse inespressivo, irrigidito dalle paresi, la sua voce acquistò un’improvvisa vivacità. — Di colpo — disse, — mi trovai fuori dal mio corpo. Potevo vedere me stessa dall’alto, distesa lì sul pavimento di cucina. Continuai a fluttuare sempre più in alto, finché tutto si trasformò in un tunnel, un lungo tunnel a spirale. E alla fine di quel tunnel c’era una luce bianca, intensa e pura. Era molto viva, ma non abbagliava lo sguardo. Su di me scese una sensazione di calma e di pace. Era meraviglioso, era un’accettazione incondizionata di quello che sarebbe accaduto dopo, come un grande amore che mi avvolgesse. Mi trovai a muovermi verso quella luce.

Peter annuì impercettibilmente. Non sapeva cosa dire. Mrs. Fennell continuò: — Poi nei contorni di quella luce apparve una figura. Dapprima non la riconobbi, ma d’un tratto vidi che ero io. Solo che non ero io; era una persona che mi somigliava molto, però non ero io. Deve sapere che quando nacqui avevo una sorella gemella, che fu chiamata Mary, ma che morì pochi giorni dopo la nostra nascita. Io compresi che quella era Mary, venuta ad accogliermi. Lei fluttuò verso di me, mi prese per mano, e insieme volammo lungo il tunnel verso quella luce.

«Prima di arrivarci cominciai a vedere immagini della mia vita passata, come se fossero scene di un film, immagini di me con i miei genitori, di me e di mio marito, di me che lavoravo in ufficio o andavo fuori con le amiche. E Mary e io guardavamo queste scene dall’esterno, giudicando le situazioni in cui m’ero comportata bene e quelle in cui m’ero comportata male. Non era un giudizio come davanti a un tribunale, però sembrava importante che io capissi tutto e che vedessi gli effetti delle mie azioni sugli altri. Vidi me stessa che giocavo nel cortile della scuola, che imbrogliavo a un esame, che lavoravo come volontaria in un ospedale da campo, e in una quantità di altre scene, oh, tutte così vivide e incredibilmente piene di particolari nitidissimi. E intanto ci avvicinavamo sempre più a quella luce calda e meravigliosa.

«Poi, ad un tratto, questo finì. Mi sentii tirata indietro e in basso. Io non volevo lasciare la mano di Mary… l’avevo già perduta una volta, dopotutto, e non ci era mai stata data la possibilità di conoscerci… ma le sue dita scivolarono via dalle mie, ed io volai all’indietro, lontano dalla luce, finché di colpo mi ritrovai nel mio corpo. Mi resi conto che c’era gente intorno a me. Da lì a poco aprii gli occhi e vidi un uomo in uniforme. Un paramedico. Aveva una siringa in mano. Mi aveva fatto un’iniezione di glucagon. Stava dicendo che fra poco mi sarei sentita meglio, e che tutto sarebbe andato bene.

«La donna con cui avevo parlato al telefono… si chiamava Mary anche lei, ma questa era una coincidenza… aveva finalmente capito che mi ero sentita male e aveva chiamato un’ambulanza. I paramedici avevano dovuto scassare la porta d’ingresso. Se fossero arrivati qualche minuto più tardi, me ne sarei andata davvero.

«Perciò, Peter, io so com’è la morte. E non ne ho paura. Tutto il mio atteggiamento verso la vita è cambiato, dopo questa esperienza. Ho imparato a vedere le cose in una prospettiva diversa, a prenderle come vengono. E anche se ora so che mi restano pochi giorni, non ho paura. Io so che là in quella luce c’è il mio Kevin che mi aspetta, e anche Mary.

Peter aveva ascoltato con attenzione quel resoconto. Aveva già sentito storie del genere, naturalmente, e gli era anche capitato di leggere qualche capitolo del famoso La Vita Dopo La Morte, di Moody, quando la neve lo aveva bloccato nel cottage di certi suoi parenti e la scelta era solo fra quello e un libro su come i pianeti influiscono sulla vita sentimentale. A quel tempo non sapeva come prendere storie simili, e ancora adesso preferiva non esprimere alcuna opinione.

— Ha parlato a qualche dottore di quell’avvenimento? — le chiese.

Peggy Fennell sbuffò. — Quei signori entrano qui come se fossero dei maratoneti e la mia camera una tappa del percorso. Perché mai dovrei condividere con loro le mie esperienze più intime?

Peter annuì.

— Ad ogni modo — disse Mrs. Fennell, — la morte avviene così come le ho detto, Peter.

— Io, mmh… ci terrei a…

— Lei vuole ancora fare il suo esperimento, però, è così?

— Be’, sì.

Mrs. Fennell mosse leggermente la testa, il cenno più vicino a un assenso che riuscisse a fare. — E va bene — disse infine. — Io mi fido di lei, Peter. Mi sembra una brava persona, e la ringrazio per avermi ascoltato. Porti pure la sua attrezzatura.

Era stata una settimana d’inferno, dal giorno in cui Cathy gli aveva fatto la sua confessione. Non parlavano molto, e quando lo facevano era solo per scambiarsi poche parole su cose come l’esperimento di Peter con il superEEG. Niente di personale, niente che riguardasse direttamente loro due. Solo argomenti poco impegnativi per riempire alcuni dei lunghi malinconici silenzi.

Il sabato pomeriggio successivo, dopo pranzo, Peter sedette sul divano del soggiorno e prese un libro. Non un disco da inserire nel lettore, tanto per cambiare, bensì un vero libro di onesta carta stampata, un tascabile.

Di recente Peter aveva scoperto i vecchi racconti di Spenser, scritti da Robert B. Parker. C’era qualcosa di affascinante nella fiducia totale e indiscutibile che univa Spenser e Hawk, e così anche nella meravigliosa onestà del rapporto fra Spenser e Susan Silverman.

Parker non aveva mai dato a Spenser un nome di battesimo, ma Peter pensava che il suo — che significava «pietra» — sarebbe stato una buona scelta. Di certo Spenser era duro e incrollabile come la pietra, cosa che lui non poteva dire di sé.

Sulla parete dietro il divano c’era una cornice con una stampa di Alex Colville. Un tempo Peter aveva pensato che i dipinti di Colville fossero troppo statici, ma con gli anni aveva imparato ad apprezzarli, e ora trovava quel quadro — un uomo seduto sotto una veranda, con un vecchio cane da caccia accovacciato ai suoi piedi — pieno di significato. Aveva finalmente capito che nell’arte di Colville l’assenza di movimento serviva a esprimere la solidità di certi elementi della vita: quelle erano le cose che non dovevano cambiare, le cose che contavano.

Peter non sapeva ancora come prendere quella situazione, non aveva la minima idea del genere di futuro che attendeva lui e Cathy. Si rese conto di aver appena letto una scena buffa — Spenser aveva evitato una serie di domande incalzanti di Quirk ribattendo con arguti motti di spirito, mentre Hawk assisteva sogghignando senza intervenire — ma questo non lo aveva divertito come avrebbe dovuto. Peter mise un segnalibro fra le pagine e depose il tascabile accanto a sé.

Cathy scese dalle scale, nell’atrio. Aveva i capelli sciolti e indossava un paio di jeans malridotti e una blusetta bianca che le stava larga, coi due bottoni superiori aperti… negligenza, pensò Peter, che poteva essere vista come un’intenzione sexy oppure no. Evidentemente Cathy era confusa quanto lui, e si sforzava di inviare segnali che sperava fossero quelli giusti senza però considerare quello che poteva essere l’umore di lui. — Posso sedermi qui con te? — domandò Cathy, con voce morbida come una piuma fluttuante nella brezza.

Peter annuì.

Il divano consisteva in tre larghi cuscini. Peter era su quello di sinistra. Cathy sedette sulla fessura fra il cuscino di centro e quello di sinistra, anche in ciò mantenendo la distanza e cercando la vicinanza nello stesso tempo.

Restarono seduti così per alcuni lunghi minuti, senza dir parola e senza guardarsi.

Peter cominciò a muovere la testa avanti e indietro, sospirando. Aveva caldo agli occhi. Non riusciva a mettere a fuoco lo sguardo. Mancanza di sonno, diagnosticò. Ma poi, all’improvviso, si accorse che stava per cominciare a piangere. Trasse un lungo respiro e cercò di spingere indietro le lacrime. Ricordava ancora l’ultima volta che aveva pianto davvero; gli era successo a dodici anni. A quel tempo se ne era vergognato, convinto d’essere troppo grande per piangere, ma era caduto su un filo elettrico scoperto e aveva preso una brutta scossa, un vero e proprio shock. Nei trent’anni successivi aveva sempre mostrato al mondo una faccia stoica, spesso a fatica, ma ora sembrava che una marea salisse dentro di lui…

Doveva uscire dal soggiorno, andare da qualche parte in privato, lontano da Cathy, lontano da tutti…

Ma era troppo tardi. Il suo petto fu scosso da un sussulto. Aveva gli zigomi già umidi. Non ebbe la forza di reprimere un secondo singhiozzo, e poi un terzo. Cathy alzò una mano verso di lui come per toccarlo, ma dopo qualche istante ci rinunciò. Peter pianse per oltre cinque minuti, con la testa girata per nasconderle la faccia. Una lacrima cadde sulla copertina del libro di Robert A. Parker e fu lentamente assorbita dalla carta.

Avrebbe voluto smettere, ma non poteva. Le lacrime venivano fuori e continuavano a venire. Adesso cominciavano a colargli anche dal naso. Lui tossì, in una pausa fra due dei singhiozzi che gli portavano su le lacrime. Era un pianto troppo lungo, trattenuto per troppi giorni. Alla fine riuscì a schiarirsi la voce e mormorò alcune parole come per scusarsi, con calma. — Mi hai fatto male — fu tutto ciò che disse.

Cathy si stava mordendo il labbro inferiore. Annuì appena e sbatté le palpebre, come se trattenesse le lacrime. — Lo so.

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