Peter era dovuto andare in volo a Ottawa per una riunione al Ministero della Sanità canadese. L’intera faccenda non era durata più di una ventina di minuti, e avrebbe potuto svolgersi per teleconferenza, ma il ministro era una signora a cui ogni tanto piaceva far sentire il peso del suo potere convocando la gente alla capitale.
Gli apparecchi per monitorare il sonno e quelli che rivelavano la presenza dell’Onda dell’Anima non erano, naturalmente, le sole attività della Hobson Monitoring Ltd. La riunione riguardava un programma ministeriale ancora non reso pubblico, il Progetto Indaco, il cui scopo era fornire le unità sanitarie cittadine di apparecchi capaci di distinguere un fumatore attivo da uno esposto al fumo passivo. Così sarebbe stato possibile contestare al primo il diritto di avere l’assistenza sanitaria gratuita per le malattie polmonari dovute al fumo. Ovviamente, ci sarebbero stati risvolti sindacali e costituzionali da considerare.
Comunque, poiché aveva riguardato solo gli aspetti tecnici del progetto, la riunione era finita poco dopo le 10 e Peter s’era ritrovato con un’imprevista — e indesiderata — giornata da trascorrere in ozio a Ottawa.
La capitale era una tipica città basata sul terziario, piena di impiegati e burocrati anonimi. Non produceva niente salvo montagne di fogli stampati e articoli di legge, oltre alla gran varietà di materiale televisivo necessario perché i contribuenti sapessero dove andavano a finire i loro soldi. Doveva tuttavia esserci qualcosa per gli economisti e i politicanti stranieri in visita… non tutto poteva esser fatto a Toronto. Ottawa poteva vantare molti ottimi musei e gallerie d’arte, teatri di buona levatura e negozi in cui si potevano fare acquisti a prezzi interessanti.
C’era poi il Rideau Canal (che in inverno congelava, consentendo alle segretarie e agli impiegati di attraversare la città sui pattini), e due volte al giorno era possibile assistere allo spettacolo del cambio della guardia su Parliament Hill. Ma Peter aveva già visto ciascuna di queste cose almeno un paio di volte in passato (ovvero un paio di volte di troppo) e quando uscì dalla sala riunioni seppe di avere un problema.
Nell’atrio del Ministero tirò fuori il suo cellulare, ma ricordò che non aveva in memoria i numeri telefonici di Ottawa e chiese alla receptionist di dargli un elenco; lei lo portò in un ufficio vuoto, dicendogli che poteva chiamare da quell’apparecchio. La quantità di uffici che si trovavano in quel palazzo stupiva sempre Peter per una caratteristica: in buona parte erano vuoti.
Nelle anticamere le segretarie e gli impiegati producevano quintali di documenti e di tazze di caffè sporche, ma i deputati che avevano ereditato quelle pattuglie di aiutanti grazie al voto degli elettori erano sempre altrove. In riunione con qualche comitato? Forse.
Sulla scrivania a cui Peter sedette c’era un telefono soloaudio, vecchio modello. Sulle pagine gialle trovò il numero della Air Canada ed era sul punto di comporlo, per vedere se potevano cambiargli la prenotazione per un altro volo, quando cambiò idea e riaprì l’elenco. Ma dopo aver cercato inutilmente sotto la lettera K decise di chiamare il 411.
Una voce disse, in inglese: — Servizio assistenza telefonica, ricerca utenti. Quale città desidera, per favore? — La stessa frase fu subito ripetuta in francese.
— Ottawa — disse Peter. Sul videotelefono avrebbe potuto avere quelle informazioni a schermo battendo alcuni tasti, ma i cellulari forniti di video erano ancora molto rari, perciò l’assistenza audio era stata mantenuta. La metà delle volte uno capitava su un operatore elettronico, ma quel giorno, dalla noia di cui erano impastate quelle parole, lui capì che aveva il privilegio di usare un operatore in carne e ossa.
— Quale utente, prego? — disse l’uomo, individuando la preferenza linguistica di Peter dall’accento con cui aveva pronunciato la parola «Ottawa.»
— Avete il numero di Rebecca Keaton? — domandò lui. E ripetè: — Kappa, e, a, ti, o, enne.
— Sotto questo nome non c’è nessun utente, signore.
Lui non disse che quell’informazione l’aveva già avuta dall’elenco, ma che sperava d’essersi sbagliato. — Grazie. Senta un momento… — Benché ora vivesse da sola, anni prima era stata sposata per un breve periodo. Come si chiamava quel tipo? Hunnicut? No. — Per favore, provi… uh, Cunning, o Cunningham — disse Peter. — Rebecca Cunningham. Ci, u, doppia enne, i…
— Ho qui una Rebecca L. Cunningham, in Slater Street. Rebecca Louise. — Sì, dovrebbe essere lei.
L’annoiata voce umana fu sostituita da quella vivace di un computer, che gli lesse il numero e aggiunse: — Se lei è un non-vedente, o se desidera la linea subito, prema il tasto con l’asterisco in rilievo.
Peter premette l’asterisco. Sentì alcune note musicali, poi il suono di un apparecchio. Una volta, due volte, tre volte, quattro. Oh, be’, forse a quell’ora…
— Pronto?
— Becky?
— Sì. Chi è?
— Sono Peter Hobson. Scusa se ti ho…
— Petey! Che bello sentirti, dopo tanto tempo. Sei in città?
— Sì. Stamattina avevo una riunione al Ministero della Sanità. È finita abbastanza presto, e il mio volo parte soltanto alle sette di questa sera. Non sapevo neppure se tu abitassi ancora qui, comunque ho pensato di chiamarti.
— Hai fatto bene. Anzi, guarda, io lavoro dal lunedì al giovedì. Oggi sono libera.
— Ah.
— Il famoso Peter Hobson! — ridacchiò lei. — Ho visto una tua foto sul National, neppure un paio di settimane fa. Anche Peter rise. — Sono sempre lo stesso di prima — disse. Una pausa. — Mi fa piacere sentire la tua voce, Becky.
— Già. Anche a me.
Peter sentì il bisogno di schiarirsi la gola. — Che ne diresti… se non hai impegni, ti andrebbe di pranzare con me?
— Sarebbe delizioso, Petey. Questa mattina devo andare in banca, anzi stavo uscendo giusto adesso, ma possiamo vederci, sicuro. Alle undici e mezzo è troppo presto?
Per niente. — Grande. Dove possiamo trovarci?
— Tu conosci il Carlo’s Restaurant, in Sparks Street Mall?
— Posso trovarlo.
— Allora ci vediamo lì alle undici e mezzo, d’accordo?
— Meraviglioso — disse Peter. — Non vedo l’ora.
La voce di Becky era piena di calore. — Anch’io. Ciao, Petey!
— Ciao.
Peter uscì dall’ufficio e passando dall’atrio domandò alla receptionist se sapeva dove fosse Carlo’s. — Oh, sicuro — disse lei con un sorrisetto malizioso, come se gli avesse intercettato la telefonata. — È il posto migliore della città, per una cenetta intima.
— Io vado lì a pranzo — precisò Peter, quasi per giustificarsi.
— Ah, be’, a quell’ora è molto più tranquillo. Fanno degli ottimi tortellini alla bolognese.
— Può dirmi come faccio ad arrivare là?
— Sicuro. È in macchina?
— Andrò a piedi, se non è troppo lontano.
— Le ci vorrà mezz’ora.
— Non c’è problema — disse Peter.
— Le disegno io la mappa — si offrì la receptionist, e gliela tracciò sul retro di un opuscolo. Peter la ringraziò, raggiunse il pianterreno in ascensore e uscì in strada. Il suo orologio faceva le 10:40. Quel mattino era in vena di camminare a passo svelto; per arrivare a destinazione gli bastarono venti minuti, e qui si trovò a essere in anticipo di mezz’ora. Per ingannare il tempo attraversò la strada fino a un distributore di giornali, mise una moneta nella fessura e attese una ventina di secondi che la macchina stampasse una copia dell’Ottawa Citizen. Poi tornò senza fretta al Carlo’s Restaurant ed entrò. Il locale era deserto.
Chiese un tavolo per due, si mise a sedere e ordinò un caffè espresso. Nel guardarsi attorno cercò d’immaginare l’atmosfera intima che poteva avere la sera, con i tavoli occupati da coppie di giovani burocrati, attivisti di qualche partito politico, deputati che avevano lasciato la moglie nel loro distretto e facevano gli straordinari con la segretaria… e magari anche professionisti di passaggio in città, che si ritrovavano segretamente con una vecchia amica. C’era comunque una faccia nota su una parete del bar, in fondo: la stessa bionda della birra Molson’s che rallegrava il muro di fronte ai telefoni, al The Bent Bishop. Peter aprì il giornale e cominciò a leggere, cercando di dominare il suo nervosismo.
La dottoressa Heater Miller si occupava di medicina generica e aveva un ufficio e un ambulatorio al pianterreno di casa sua. Era una donna sui quarantacinque anni, bassa e robusta, con un casco di lucidi capelli color noce. La sua scrivania era una spessa lastra di vetro sostenuta da tre colonnette di marmo nero. Quando Sandra Philo entrò e si presentò, fra un paziente e l’altro, la dottoressa le accennò di accomodarsi nella poltrona di cuoio di fronte alla scrivania. — Come le ho detto per telefono, ispettore, ciò che posso rivelarle su uno dei miei pazienti è molto poco. La legge mi obbliga a rispettare il segreto professionale.
Sandra annuì. La musica era sempre la stessa, e ogni professionista la suonava con estrema cura quando si trattava della polizia. — Capisco benissimo, dottoressa. Il paziente di cui vorrei parlarle, tuttavia, è Roderick Churchill.
La Dr. Miller attese.
— Non so se lei lo abbia saputo — spiegò Sandra, — ma Mr. Churchill è morto la settimana scorsa.
La dottoressa sbatté le palpebre.
— Ah. Non lo sapevo, no.
— Mi spiace averle portato io la brutta notizia, allora — disse Sandra. — La moglie lo ha trovato morto rientrando in casa. Il medico legale dice che probabilmente si è trattato di un aneurisma. Io sono andata a parlare con sua moglie e ho saputo che lei gli aveva ordinato delle pillole di Nardil, le quali, come c’è scritto sull’etichetta, hanno delle forti controindicazioni dietetiche. Però, la sera in cui è morto, Churchill aveva ordinato la cena fuori.
— Dannazione. Ma che gli è preso? — La Dr. Miller allargò le braccia. — Glielo avevo detto di andarci cauto con quello che mangiava, per via della Phenelzina.
— Phenelzina?
— Il Nardil è uno dei nomi sotto cui viene messa in commercio la Phenelzina, ispettore. È un antidepressivo.
Sandra inarcò le sopracciglia. Bunny Churchill era convinta che entrambe le medicine di suo marito fossero per il cuore.
— Un antidepressivo?
— Sì — disse la Dr. Miller. — Ma è anche un inibitore della monoammina ossidasi.
— Che significa?
— Be’, la precauzione d’obbligo per chi prende la Phenelzina è di evitare tutti i cibi che contengano alte quantità di tyramina. Altrimenti la pressione sale al massimo… una crisi ipertensiva. Vede, quando uno assume della Phenelzina la tyramina si accumula, non viene metabolizzata. Questo provoca una vasocostrizione… un effetto sulla pressione sanguigna.
— Che significa? — domandò Sandra. Amava parlare coi dottori.
— Be’, una cosa di questo genere potrebbe uccidere perfino un giovane con il cuore sano. Per una persona come Mr. Churchill, che aveva già avuto problemi cardiovascolari, sarebbe quasi certamente fatale… causerebbe un collasso, un attacco cardiaco, conseguenze neurologiche oppure, come ha ipotizzato il vostro medico legale, un aneurisma fulminante. Devo presumere che Churchill abbia mangiato qualcosa di sbagliato. Eppure lo avevo avvertito.
Sandra la guardò. Un errore medico era sempre possibile.
— Lei è sicura di questo?
— Sì, naturalmente. — Gli occhi della Dr. Miller si strinsero. — Non è il genere di sbaglio che io potrei fare, ispettore. Anzi… — Premette un pulsante dell’intercom sulla scrivania.
— David? Portami la cartella clinica di Mr. Churchill, per favore. — Si rivolse di nuovo a Sandra. — Quando un medicinale comporta rischi collaterali per il paziente, la mia compagnia di assicurazioni mi obbliga a far firmare al paziente una liberatoria. Si tratta di moduli in doppia copia. Il paziente firma, io tengo la velina e lui si porta via l’originale… con tutti gli avvertimenti necessari scritti in linguaggio comprensibile. Perciò… ah. — La porta dell’ambulatorio si aprì, e un giovanotto in camice bianco entrò con una cartella portadocumenti; la consegnò alla Dr. Miller e uscì. Lei ne sfogliò il contenuto finché trovò una velina, che mise sulla scrivania.
Sandra la lesse e gliela restituì. — Perché ha voluto prescrivergli della Phenelzina, se ha delle controindicazioni così gravi?
— Da qualche anno si prescrivono in prevalenza inibitori MAO reversibili, ma Mr. Churchill non ne traeva alcun giovamento. Nel suo caso la Phenelzina appariva la cosa migliore per vari motivi, e dopo aver controllato il MedBase ho scoperto che uno dei suoi consanguinei era stato trattato con lo stesso antidepressivo. Così ho pensato che valesse la pena di fare un tentativo.
— E quali sono i rischi, esattamente? Supponiamo che avesse mangiato il cibo sbagliato: cosa sarebbe accaduto?
— Avrebbe accusato innanzitutto una vasocostrizione occipitale, e una sofferenza retro-orbitale. — Alzò una mano. — Mi scusi: un mal di capo alla nuca e dolore dietro gli occhi. Inoltre palpitazioni cardiache, vampate di calore, nausea e sudorazione. Poi, se non fosse stato soccorso in tempi brevi, qualche vaso sanguigno cerebrale avrebbe ceduto… e lui sarebbe morto di un colpo apoplettico, o di un aneurisma, o di un altro fatto consimile.
— Non sembra un modo piacevole di andarsene — disse Sandra.
— Già. — La Dr. Miller scosse tristemente il capo. — Se fosse stato portato all’ospedale, cinque milligrammi di Phentolamina l’avrebbero salvato. Ma una persona sola in casa può non farcela ad arrivare al telefono in tempo.
— Mr. Churchill era suo paziente da molto tempo?
La Dr. Miller scosse il capo. — Da circa un anno. Vede, lui aveva superato i sessanta, e come spesso accade il dottore da cui andava prima era più vecchio di lui, ed era morto l’anno scorso. Churchill si è deciso a cercarne un altro solo perché gli serviva un dottore che gli prescrivesse il Cardizone.
— Ma lei ha detto che lo trattava per la depressione. Non era venuto da lei apposta per questo?
— No… ma io ho riconosciuto i sintomi. Lui mi ha detto che soffriva d’insonnia da anni, e nel parlare mi è stato chiaro che era un depresso.
— Cos’era a renderlo triste?
— La depressione clinica è più che semplice tristezza, ispettore. È una malattia. Il paziente è psichicamente e fisicamente incapace di concentrarsi, e sente che la sua vita è vuota, disperata.
— E trattate la depressione con medicinali così forti?
La Dr. Miller sospirò, avvertendo una critica nel tono di Sandra. — Noi non ci limitiamo a somministrare sostanze ai pazienti depressi, ispettore; cerchiamo di riportare la chimica del loro organismo alla normalità. Quando questo è possibile, il paziente descrive la cura come una tenda che si è aperta lasciando entrare la luce del sole per la prima volta dopo anni di buio. — Fece una pausa, come chiedendosi se proseguire o no. — In effetti Mr. Churchill aveva delle risorse personali. Soffriva di depressione da molti anni, forse fin da quand’era ragazzo… ma la teneva sotto controllo, al punto che il suo vecchio dottore non s’era accorto della presenza di quei sintomi. Molte persone anziane hanno paura di farsi curare per la depressione, ma non Churchill. Lui voleva essere aiutato.
— Perché ne hanno paura? — domandò Sandra, incuriosita. La Dr. Miller allargò le braccia. — Ci rifletta, ispettore.
Supponga che io le dica che la sua capacità di affrontare la vita è sempre stata gravemente menomata. Ora, una persona giovane come lei senza dubbio vorrebbe risolvere il problema… dopotutto, lei ha decenni di vita ancora davanti a sé. Ma la gente anziana spesso rifiuta di credere di aver sofferto a lungo di depressione clinica. I rimpianti sarebbero quasi insopportabili… è orribile per essi accorgersi che le loro vite, ormai quasi alla fine, avrebbero potuto essere molto migliori e più felici. Preferiscono respingere questa possibilità.
— Ma non Mr. Churchill?
— No, lui no. Dopotutto era un professore di educazione fisica… il suo mestiere era insegnare la buona salute agli studenti. Accettò subito l’idea, ed era impaziente di cominciare la cura. Ci fu un momento di delusione quando constatai che i MAO inibitori non funzionavano per lui, ma prima di passare alla Phenelzina ne parlammo insieme… era mia intenzione fargli capire quanto fosse importante evitare certi alimenti.
— E quali sono?
— Be’, il formaggio piccante, per dirne uno. È pieno di tyramina, essendo un sottoprodotto della tirosina degli aminoacidi. Inoltre non poteva mangiare carne affumicata, pesce salato, caviale, e certe salse molto drogate.
— Senza dubbio lui si sarebbe accorto se aveva nel piatto uno di questi alimenti, no?
— Be’, sì, ma si può trovare la tyramina anche in cose come il lievito di birra o in estratti di carne tipo il Marmite e l’Oxo. È anche negli estratti proteici idrolizzati, tipo quelli comunemente usati nei dadi per brodo, in molte salse e nei sughi in scatola.
— Ha detto anche le salse?
— Sì. Sapeva di doverle evitare.
Sandra ripescò in una tasca il foglietto bisunto e spiegazzato, la ricevuta della Food Food per l’ultima cena di Roderick Churchill. La porse alla Dr. Miller, sopra la scrivania di vetro. — Questo è il cibo che aveva ordinato la sera in cui è morto.
La donna lesse, poi scosse il capo. — No — disse. — L’ultima volta che è venuto qui parlammo della Food Food. Lui mi disse che ordinava solo cibarie a basso contenuto calorico. Disse di aver controllato gli alimenti della Food Food per sapere quali contenessero le cose che lui doveva evitare.
— Forse quella sera aveva dimenticato di specificare «a basso contenuto calorico» — disse Sandra.
La Dr. Miller le restituì la ricevuta. — Ne dubito, ispettore. Mr. Churchill era un uomo molto meticoloso.
Becky Cunningham arrivò al Carlo’s Restaurant con dieci minuti di anticipo. Peter depose il giornale e si alzò. Non sapeva bene quale saluto aspettarsi: un sorriso, un abbraccio, un bacio? Scoprì subito che gli venivano offerte tutte e tre le cose, anche se il bacio si ridusse a un contatto delle guance per evitare il rossetto. Peter fu sorpreso nell’accorgersi che il suo cuore balzava al galoppo. Il profumo di Becky era un’intensa fragranza molto femminile.
— Petey, sei in forma smagliante — si complimentò lei, sedendo al tavolo.
— E tu sei sempre incantevole — disse Peter.
In realtà Becky Cunningham non era mai stata quella che si dice una gran bellezza. Aveva un aspetto gradevole, ma non era bella. Portava i capelli castani tagliati alla paggio, un po’ più corti dello stile in voga quell’anno. Aveva una decina di chili in più del peso che le riviste femminili avrebbero definito ideale, e forse distribuiti in quelli che un giudice troppo severo avrebbe definito i posti meno adatti. Aveva un volto largo, con un arcipelago di lentiggini sparse anche sul collo. Ma i suoi occhi verdi scintillavano sbarazzini come quelli di un’adolescente quando sorrideva, e l’effetto era aumentato dalle sottili rughe ai loro angoli che lui ricordava di averle visto anche ai tempi dell’università.
Difficile non restare accalappiati da quegli occhi, pensò Peter. Non aveva mentito, era incantevole.
Ordinarono il pranzo. Peter seguì il consiglio della receptionist del ministero e optò per i tortellini alla bolognese. Parlarono di ogni sorta di cose, e il carattere di Becky era tale che fra loro ci furono più risate che parole. Peter si sentiva più leggero di quanto lo fosse stato da mesi.
Il tempo volò, ed erano quasi le due quando si alzarono da tavola. Peter pagò il conto con la carta di credito e lasciò il venticinque per cento di mancia. Poi aiutò Becky a infilarsi il soprabito… una cosa che non faceva per Cathy da anni.
— Cosa pensi di fare da qui alle sette? — domandò lei. — È ancora presto per andare all’aeroporto.
— Non lo so. Farò quattro passi, suppongo. Darò un’occhiata ai negozi, in centro.
Becky lo guardò negli occhi. Quello era il momento più naturale per salutarsi. Due vecchi amici s’erano ritrovati: pranzo al ristorante, reminiscenze dei tempi andati, storie di ciò che era successo a questo e a quello dei loro conoscenti… ma adesso era l’ora di tornare alle cosette quotidiane, ai loro impegni, e riprendere le loro vite separate.
— Io non ho nulla d’importante da fare, oggi pomeriggio — disse Becky, sempre guardandolo dritto negli occhi. — Ti va se vengo a passeggio con te?
Peter abbassò lo sguardo per un momento, ma quando lo rialzò di nuovo sorrise. Non poteva pensare a una prospettiva più gradevole. — Questo sarebbe… — dopo una brevissima pausa decise di non censurarsi. — Sarebbe perfetto.
Gli occhi di Becky sprizzarono scintille. S’incamminò al suo fianco e lo prese a braccetto con un gesto esuberante. — Dove vuoi andare?
— È la tua città — sorrise Peter. — Decidi tu.
— Ubbidisco. Ma non ti lamentare.
Peter non se ne sarebbe mai lamentato, anche se fecero esattamente le cose che andando a passeggio da solo lui avrebbe evitato con cura. Videro il cambio della guardia a Parliament Hill, visitarono alcune boutique del centro, proprio il genere di negozi dove lui a Toronto non entrava mai, e finirono il loro giro nel reparto dinosauri del Canadian Museum of Nature, mandando esclamazioni di meraviglia davanti agli enormi scheletri.
Era proprio come essere di nuovo vivo, pensò Peter. Proprio come una volta.
Il Canadian Museum of Nature sorgeva, com’era giusto aspettarsi, in mezzo a un grande parco alberato. Quando Peter e Becky uscirono erano quasi le cinque e si stava facendo buio. Spirava un venticello gelido. Il cielo era pallido e sgombro. S’incamminarono sul sentiero lastricato in pietra finché non giunsero ad alcune panchine, intorno a cui sorgevano grandi aceri nodosi che già un mese addietro avevano perso tutte le loro foglie.
— Sono sfinito — sospirò Peter. — Questa mattina mi sono alzato alle cinque per prendere l’aereo.
Becky sedette all’estremità di una panchina. — Sdraiati cinque minuti — disse. — È tutto il pomeriggio che camminiamo.
Il primo impulso di Peter fu di scuotere il capo; non faceva cose simili fin da ragazzo, ma poi si disse: diavolo, perché no? Stava per sdraiarsi sulla parte restante della panchina, quando Becky disse: — Puoi usare le mie gambe come cuscino.
Lui non esitò ad approfittarne. Becky era meravigliosamente morbida, calda e simpatica. Le sorrise da sotto in su. Lei gli appoggiò dolcemente una mano sul petto.
Guardarla era rilassante, un balsamo per i suoi sentimenti. Peter pensò che avrebbe potuto stare così per delle ore. Non si accorgeva neppure del freddo.
Becky lo osservava con un sorriso mite, un sorriso che non gli poneva condizioni, un sorriso che lo accettava. Un meraviglioso sorriso.
Per la prima volta da quel mattino Peter ripensò a Cathy e ad Hans Larsen, ed a quella che era diventata la sua vita a Toronto.
Sapeva di aver finalmente trovato un essere umano — uno vero, non un simulacro che viveva in un computer — con cui avrebbe potuto parlare di quella cosa. Una persona che non lo avrebbe visto inferiore solo perché sua moglie l’aveva tradito, una persona che non lo avrebbe messo in ridicolo, che non lo avrebbe deriso. Una persona capace di ascoltarlo, desiderosa di fare qualcosa per lui, e che lo conosceva abbastanza per capirlo.
E in quel momento Peter si rese conto che non aveva nessun bisogno di parlarne con qualcuno. Adesso poteva affrontare la cosa da solo. Tutte le sue domande avevano risposta.
Peter aveva conosciuto Becky quando entrambi frequentavano il primo anno all’Università di Toronto, prima che sulla scena arrivasse Cathy. C’era stata una certa goffa attrazione fra loro. Nessuno dei due aveva avuto altre esperienze sentimentali, e a quell’epoca lui era ancora vergine. Adesso, tuttavia, a due decenni di distanza, le cose erano diverse. Becky aveva alle spalle un matrimonio e un divorzio; Peter era un professionista affermato, ricco e sposato. Sapevano tutto sul sesso, su come lo si faceva, come regolarsi se capitava l’occasione, e come giudicare se l’occasione fosse quella giusta. Lui era certo che avrebbe potuto chiamare Cathy, inventare senza problemi la scusa che i colloqui di lavoro erano più impegnativi del previsto, e dirle che doveva trascorrere la notte ad Ottawa e sarebbe tornato soltanto il giorno dopo. Lo sapeva, perché questa era un’ipotesi che vedeva anche negli occhi di Becky.
Avrebbe potuto farlo, ma non lo avrebbe fatto. Ora conosceva la risposta alla domanda che non s’era posto. Trovandosi davanti la stessa occasione che aveva avuto Cathy, lui non l’avrebbe afferrata, non se ne sarebbe approfittato, non l’avrebbe tradita.
Peter alzò lo sguardo verso Becky e le sorrise. Poteva sentire che la ferita dentro di lui cominciava a guarire.
— Sei una donna meravigliosa — le disse, sottovoce. — L’uomo che riuscirà ad averti potrà ringraziare Dio della sua fortuna.
Lei sorrise.
Peter lasciò uscire il fiato, lasciò uscire tutto, lasciò che ogni veleno si disperdesse. — È meglio che cominci a pensare di avviarmi verso l’aeroporto — disse.
Becky annuì e sorrise ancora, forse con un’ombra — ma non l’avrebbe mai detto — di rammarico nei suoi verdi occhi sbarazzini.
Peter era pronto per tornare a casa.