Capitolo diciannovesimo

novembre 2011

Sarkar aveva chiamato Peter di buon’ora, quella domenica mattina, per informarlo che la potatura e l’addestramento dei simulacri erano completati. Cathy era fuori in cerca di qualcosa da comprare alle «garage sales» — l’usanza americana di vendere oggetti d’ogni sorta sullo spiazzo davanti al garage di casa, che aveva preso piede anche in Canada — così Peter le lasciò un messaggio sul computer domestico. Poi saltò sulla sua Mercedes e raggiunse la sede della Mirror Image, a Concord.

Negli uffici non c’era nessun altro, ma Sarkar non conosceva orari o festività. Mentre lo precedeva fra le complesse apparecchiature del suo laboratorio, disse: — Per primo, cercheremo di attivare il simulacro Control. — Peter annuì. L’amico premette alcuni pulsanti e quindi si rivolse a voce al microfono che sporgeva dalla consolle. — Salve — disse.

Dall’altoparlante uscì una voce sintetica. — Sa… salve.

— Salve — disse ancora lui. — Sono io, Sarkar.

— Sarkar! — la voce era piena di sollievo, adesso. — Che diavolo sta succedendo? Non riesco a vedere niente.

Peter si accorse d’essere rimasto a bocca aperta. Il simulacro era molto più realistico di quel che s’era aspettato.

— Va tutto bene, Peter — disse Sarkar nel microfono. — Non devi preoccuparti.

— Ho avuto… mi è successo un incidente? — disse la voce dall’altoparlante.

— No — rispose Sarkar. — No, stai benissimo.

— E andata via la luce, allora? Che ore sono?

— Circa le undici e quaranta.

— Di mattina o di sera?

— Di mattina.

— Allora perché è così buio? E perché hai la voce così strana?

Sarkar si volse a Peter. — Diglielo tu.

Lui si schiarì la gola. — Ehm, salve. Mi senti?

— Ti sento, ma chi sei? Sei ancora Sarkar?

— No. Sono io. Peter Hobson.

Io sono Peter Hobson.

— No, non lo sei. Tu sei un’altra cosa.

— Di che accidenti stai parlando?

— Tu sei un simulacro. Una simulazione eseguita dal computer. Una mia copia.

Ci fu un lungo silenzio, poi: — Ah.

— Mi credi? — domandò Peter.

— Suppongo di sì — disse la voce dall’altoparlante. — Voglio dire, ricordo di aver discusso dell’esperimento con Sarkar. Ricordo… ricordo tutto, fino alla registrazione cerebrale. — Una pausa, poi: — Oh, merda! Allora lo avete fatto, è così?

— Sì — rispose Sarkar.

— Chi ha parlato? — volle sapere la voce.

— Sarkar.

— Non riesco a distinguervi bene — disse il simulacro. — Le vostre voci sembrano praticamente uguali.

Sarkar annuì. — Hai fatto bene a dirmelo. Modificherò il software perché accentui le differenze fra la mia voce e quella di Peter. Scusa se non ci avevo pensato.

— D’accordo, va bene — disse il simulacro. — Grazie. — E poi: — Cristo, hai fatto un buon lavoro. Mi sento… mi sembra d’essere ancora me stesso. Solo che… solo che non ho fame. Non sono stanco. E non sento contatti fisici da nessuna parte. — Ci furono alcuni mormorii. — Uh… ehi, quale sono io, dei tre simulacri?

— Tu sei Control — rispose Sarkar, — la versione sperimentale di appoggio. Sei il primo finora attivato. Ho preparato delle routine che possono simulare una varietà di input neurali, compresa la fame e la stanchezza. Temo di non aver pensato a simulare un certo numero di contatti corporali, pruriti o doloretti. Mi spiace.

— Non importa — disse Control. — Non mi ero mai accorto di quanto fossi abituato ai contatti o ai pruriti; ci faccio caso soltanto ora, con la scomparsa di ogni sensazione. E adesso cosa… cosa succederà?

— Puoi fare quello che vuoi — disse Sarkar. — Ad esempio, ci sono molti programmi di input a tua disposizione, sia qui in laboratorio che fuori, su Internet.

— Grazie. Cristo, è tutto così strano.

— Ora, se non ti spiace, vorrei lasciarti in sottofondo per occuparmi degli altri due simulacri — disse Sarkar.

— Okay, ma, uh, Peter…? Lui sbatté le palpebre. — Sì?

— Sei un fortunato bastardo, lo sai? Vorrei essere al tuo posto.

Peter borbottò qualcosa fra sé, perplesso.

Sarkar stava già battendo istruzioni su una tastiera.

— Lo metti da parte? — domandò Peter. — Cosa fanno questi simulacri quando li lasci in sottofondo?

— Be’, ho dato loro un limitato accesso a Internet. Possono trovare e leggere tutti i libri o i notiziari scritti che gli interessano, ad esempio. Ma la principale cosa a cui gli ho dato accesso sono i gruppi di programmi di realtà virtuale disponibili su Internet. Lì possono immergersi in tutte le simulazioni possibili e immaginabili: paracadutismo, pesca subacquea, esplorazioni archeologiche, danza, vita reale in strada o in autobus o in casa… qualsiasi cosa. Ho dato loro anche accesso, a pagamento, all’equivalente europeo del Settore VR, che è pieno di stimoli sessuali. Così hanno un sacco di roba per tenersi occupati. Le attività che ognuno di loro sceglierà ci diranno molto sui mutamenti intervenuti nella loro psicologia.

— In che senso?

— Be’, il Peter Hobson reale non si sognerebbe mai di fare, ad esempio, il paracadutismo sportivo… ma una tua versione immortale, che sapesse di non poter riportare ferite, potrebbe scoprirsi una passione per attività del genere. — Sarkar batté alcuni ordini. — E a proposito di immortali, presentiamoci al nostro amico Ambrotos. — Premette ancora qualche tasto e poi disse, nel microfono: — Salve. Sono io, Sarkar. Come va?

Non ci fu alcuna risposta.

— Qualcosa dev’essere andato storto — disse Peter.

— Non credo — mormorò Sarkar. — I display indicano che tutto è a posto. Il banco dati è attivo.

— Prova ancora — suggerì lui.

— Ehilà, mi senti? — disse Sarkar nel microfono.

— Forse hai cancellato la parte della mente che controlla la favella — ipotizzò Peter.

— Sono stato molto attento — disse Sarkar. — Certo, suppongo di aver trascurato molte interazioni, visto che la scienza medica non conosce ancora del tutto i…

— Salve — disse una voce dall’altoparlante.

— Ah — sospirò Sarkar. — Ci siamo, questo è lui. Mi chiedo perché ci abbia messo tanto.

— La pazienza è una virtù — disse la voce. — Prima di rispondere volevo esaminare meglio la situazione. Io sono un simulacro, non è vero? Un simulacro di Peter G. Hobson. Ma sono stato modificato per assumere le caratteristiche di un individuo immortale.

— È proprio così — disse Sarkar. — Come sei riuscito a capire quale dei simulacri sei?

— Be’, sapevo che ne avresti creati tre. Io non mi sentivo uguale a prima, così ho subito pensato di non essere la versione di controllo dell’esperimento. A questo punto mi sono limitato a chiedermi se mi sentivo sessualmente eccitato. Sai come si dice… gli uomini pensano al sesso ogni cinque minuti. Immaginavo che se fossi stato il simulacro della vita dopo la morte quella sarebbe stata la cosa meno interessante per me. Ma non è così. Ho sempre voglia di fare sesso con una femmina. — Una pausa. — Però, quando ho capito che non m’interessava se fare sesso oggi oppure fra dieci anni, la cosa è stata chiara. Questo bisogno di una gratifica sessuale immediata… è assurdo. Tu sei un esempio perfetto, Sarkar: ti stavi spaventando perché non ti ho risposto subito «salve.» Questo modo di reagire mi sembra alieno, adesso. Del resto, io ho tutto il tempo del mondo.

Sarkar sogghignò. — Molto bene — disse. — A proposito, abbiamo deciso di riferirci a te col nome Ambrotos.

— Ambrotos? — La voce aveva un tono perplesso.

Sarkar si volse a Peter. — La prima prova che i nostri simulacri sono accurati — disse con un sorrisetto. — Abbiamo duplicato senza errori la tua ignoranza. — Poi, al microfono: — Ambrotos è una parola greca. Significa «immortale.»

— Ah.

— Ora ti lascerò attivo in sottofondo. Ti accorgerai che ci sono delle utili esperienze a tua disposizione. Approfittane pure — disse Sarkar. — Mi rimetterò in contatto vocale con te molto presto.

— Presto o tardi, ha poca importanza — disse Ambrotos. — Io sarò sempre qui.

Sarkar batté sulla tastiera alcuni comandi. — Bene, anche il secondo simulacro sembra funzionare senza problemi. E ora passiamo al più difficile da analizzare… Spirito, l’entità che vive dopo la morte. Sfiorò ancora i tasti per attivare il banco dati dell’ultimo simulacro. — Ehilà — chiamò ancora. — Sono io, Sarkar Muhammed.

— Ehilà, Sarkar — disse una voce sintetica.

— Tu hai… tu sai chi sei? — domandò lui.

— Io sono il povero, compianto Peter Hobson. Sarkar ebbe un sogghigno. — Hai indovinato.

— Requiescat in RAM. Dite una prece per me.

— Non sembri molto sconvolto per essere morto — osservò Sarkar. — Che cosa si prova?

— Dammi un po’ di tempo per abituarmi, e te lo saprò dire.

Peter annuì. Questo gli sembrava giusto.

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